Studi Cassinati, anno 2006, n. 2
di Fernando Riccardi
Dal 1939 al 1945, per sei lunghi anni, l’intero continente europeo, e non solo, fu sconvolto da quella follia apocalittica passata alla storia come la seconda guerra mondiale. Tanti i lutti, inenarrabili le tragedie, sconvolgenti gli orrori. Quel che però ha destato maggiore raccapriccio e che, ancora oggi, si stenta a ritenere come realmente accaduto, fu lo sterminio sistematico degli ebrei messo in atto dal regime nazista. Sei milioni di innocenti perirono nei campi di concentramento, nei lager, uccisi dalla fame, dai maltrattamenti, dalle malattie, dalle brutalità, dalle sevizie dei carcerieri, spinti a cotanto crimine da una ideologia fanatica, ossessiva, paranoica. E quando Hitler, nel giugno del 1941, con lucida schizzofrenia, varò la famigerata “soluzione finale”, l’orrore divenne prassi, con gli ebrei che, ogni giorno, a centinaia e centinaia, venivano inceneriti nei forni crematori, asfissiati da gas letali, giustiziati sommariamente, passati per le armi, sepolti e ammassati come bestie alla rinfusa nelle fosse comuni. Tanto è stato scritto sull’Olocausto e tanto ancora si scriverà negli anni a venire, nella convinzione che portare a conoscenza eventi così efferati possa servire ad evitare il ripetersi di tali tragedie. Sullo sterminio degli ebrei esiste una bibliografia vastissima, sconfinata, inesauribile che viene continuamente impreziosita da nuovi scritti, saggi, ricerche, anche da parte di chi potrebbe trovare difficoltà a trattare argomenti così sconvolgenti. Per fortuna, però, in omaggio alla irrinunciabile esigenza di verità storica, le remore sono state messe da parte e la vergogna per crimini così aberranti ha ceduto il posto al dovere di far sapere come effettivamente sono andate le cose. Soltanto così si puó cullare la speranza di costruire, tutti quanti assieme, facendo tesoro degli errori, anche di quelli più gravi, una società e un mondo migliore. Non sempre, però, le cose sono andate in tal modo.
Vi sono accadimenti della nostra storia, infatti, che sono stati artatamente occultati, nascosti, sepolti sotto una spessa coltre di oblio, quasi cancellati. Alzi il dito chi conosce, ad esempio, sia pure per sommi capi, la triste sorte riservata a migliaia e migliaia di meridionali rinchiusi nei campi di concentramento del nord Italia all’indomani del 1860, dopo il dissolvimento dello stato borbonico e l’avvento dei Piemontesi nel Sud. Eppure in tanti sono morti fra gli stenti, le privazioni, i maltrattamenti, le esecuzioni sommarie, nei lager allestiti dai Savoia che, sicuramente, assai poco diversi dovevano essere da quelli approntati, meno di un secolo dopo, dagli aguzzini nazisti. Nessuno, neanche lo studioso più ingenuo, si sognerebbe mai di paragonare una tragedia epocale quale è stata l’Olocausto alla vicenda della quale ci apprestiamo a delineare i contorni: le cifre, infatti, sono lì che parlano con tutta la loro evidenza. Ciò non toglie, però, che per tanti lunghi, interminabili decenni, una storiografia partigiana, scorretta e compiacente, si è impegnata, con tutte le sue forze, a tenere nascosta, a occultare una verità che pure appare inconfutabile e palese. Ma andiamo con ordine e, soprattutto, cerchiamo di inquadrare in maniera chiara, senza infingimenti di sorta né artifizi, la questione.
Dopo la caduta repentina dell’ormai consunto apparato borbonico, minato, per di più, da tradimenti e defezioni, specialmente nelle alte sfere governative e dell’esercito, il neonato governo sabaudo si trovò, tra le altre cose, a dover fare i conti con una massa davvero ingente di militari napoletani sbandati. L’esercito borbonico, infatti, con un provvedimento che ben presto dimostrerà tutta la sua inefficacia, era stato sciolto e in tanti si erano trovati disperati e senza lavoro. Né le varie campagne di arruolamento varate dal governo piemontese si rivelarono fruttuose: nelle ripetute chiamate alle armi, infatti, si registrò, sempre e comunque, un altissimo numero di renitenti1. Il contadino meridionale proprio non se la sentiva di prestare servizio militare sotto una bandiera che non riteneva sua. E, soprattutto, non reputava giusto andare a combattere, per lunghi anni, in luoghi lontani, abbandonando la terra e la famiglia, al servizio di una dinastia regnante che si esprimeva, peraltro, in una lingua che lui proprio non riusciva a capire. Così, in pochi mesi, a quei militari che erano stati fatti prigionieri nel corso degli eventi bellici della seconda metà del 1860 e a quelli delle fortezze che avevano resistito ad oltranza all’assedio dei piemontesi2, si aggiunsero tutti coloro che, per non sottostare alla leva obbligatoria, dopo essersi rifugiati sulle montagne trasformandosi in briganti, erano stati catturati nel corso dei vari rastrellamenti. Un numero davvero ingente di prigionieri, difficilmente quantificabile con matematica precisione: di certo, però, essi ammontavano a parecchie decine di migliaia. Il governo sabaudo, trovandosi di fronte ad una vera e propria emergenza che rischiava di esplodere da un momento all’altro (tutto il meridione era, infatti, infiammato dalla rivolta brigantesca), in un primo momento, si limitò a rinchiudere tali prigionieri nelle malsane e insufficienti carceri del sud Italia. Subito dopo, però, intuendo la pericolosità della situazione, escogitò un “piano di evacuazione” trasferendo, specialmente via mare, gli ex soldati napoletani al Nord, lontano, quindi, dai focolai di rivolta. Il porto di arrivo dei bastimenti carichi di prigionieri era soprattutto Genova: da qui subito venivano smistati nelle varie località di destinazione. Le principali erano: Fenestrelle, piccola località della valle del Chisone, ad un centinaio di chilometri da Torino, dove esisteva una imponente fortezza; San Maurizio Canavese, alle porte di Torino; e poi Alessandria, Milano, Bergamo e così via di seguito. Qualcuno fu anche rinchiuso a Genova, nel forte di San Benigno. Migliaia di altri meridionali, poi, dalla variegata composizione (ex ufficiali e soldati, briganti, renitenti alla leva, oppositori politici o presunti tali, vagabondi, camorristi), vennero confinati in varie isole della Penisola: Gorgona, Elba, Giglio, Capraia, Ponza. Più di 12000, soprattutto ufficiali e veterani borbonici, che si erano rifiutati di continuare la loro carriera militare nell’esercito sabaudo, furono trasferiti in Sardegna, sulle isole napoletane o nella Maremma toscana, sottoposti al regime del domicilio coatto, come prevedeva la famigerata “legge Pica”3. Nei campi di raccolta e nelle prigioni costrette ad accogliere molte più persone di quante ne potessero contenere, le condizioni igienico-sanitarie e ambientali in genere, erano disastrose e, molto spesso, ben al di là di ogni decenza. Non a caso, riferendosi a tale situazione, “Civiltà Cattolica”, in quel periodo, così scrive: “Negli Stati sardi esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in grande quantità, si stipano ne’ bastimenti peggio che non si farebbe degli animali, e poi si mandano in Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que’ spettacoli che lacerano l’anima. Ho visto giungere bastimenti carichi di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti; e sbarcati vennero distesi sulla pubblica strada come cosa da mercato. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Finestrelle; un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di S. Maurizio…”4. Trattati come animali, ammassati nei bastimenti, tenuti senza cibo e acqua per giorni, i poveri meridionali, colpevoli soltanto di essere rimasti ostinatamente fedeli al loro Re, vennero sbattuti in terre sconosciute, fredde, in campi di concentramento inospitali e, soprattutto, lontano dai loro affetti e dai loro cari. Molti non riuscivano a sopportare la disperazione e il disagio e così decidevano di mettere fine alla loro grama esistenza ricorrendo al suicidio e gettandosi in mare. La circostanza è attestata da un altro giornale dell’epoca, “L’Armonia”, che così scrive: “A Rimini il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi”5. Per quelle migliaia e migliaia di sventurati, quindi, si prospettava una esistenza difficile e assai problematica. Così, al riguardo, ancora “Civiltà Cattolica”: “Per vincere la resistenza dei prigionieri in guerra, già trasportati in Piemonte o in Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Finestrelle e d’altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in un clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di stento fra le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al loro giuramento militare ed al legittimo Re! Simili infamie gridano vendetta da Dio, e tosto o tardi l’otterranno”6. Da queste testimonianze inequivocabili si puó comprendere quale fu la sorte che il governo piemontese volle riservare ai soldati e ai contadini napoletani che, nel breve volgere di pochi mesi, in maniera repentina, avevano visto dissolversi, come neve al sole, la loro amata patria. Sulla “Gazzetta di Napoli” del 5 dicembre 1862 è riportata una petizione di un gruppo di detenuti napoletani indirizzata al deputato Ricciardi affinché potesse riferire in Parlamento la infima e pietosa situazione delle carceri di Napoli che, poi, era pressoché identica a quella delle altre dislocate, in lungo e in largo, sul territorio della Penisola. Attenzione al dato temporale: siamo, infatti, alla fine del 1862, a quasi due anni, quindi, dall’avvenuto processo di annessione del meridione al resto d’Italia. “Signori, in nome dell’umanità supplichiamo giustizia per poveri chiusi in questo serraglio di Napoli come tante fiere. Da che è venuto il soprintendente de Blasio credevamo d’essere trattati meglio; ed invece stiamo peggio di prima. Questo superiore ha organizzato una camorra spaventevole. Pochi favoriti e favorite hanno il letto, e la maggior parte dei poverelli reclusi sono ignudi e cenciosi, pieni di pidocchi, sulla paglia.. Quel poco di pane nerissimo e quel poco di polenta che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva a quattro o cinquecento al giorno; e se qualcheduno parla, o minaccia di ricorrere, è attaccato di mani e piedi per più giorni. Varii infelici compagni, risentiti del mal governo, sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto, ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato col sangue; e molti altri non si trovano più né vivi né morti. È una barbarie, Signori. Per Maria Vergine, metteteci la vostra mano; liberateci da questa setta di ladri. Il soprintendente de Blasio è un cane che divide con gli altri. Noi non abbiamo a chi ricorrere, né ci azzardiamo a ricorrere per non soffrire peggio. Se sapessero chi ha scritto questa carta, sarebbe ucciso, come capitò ad un altro povero giovinotto, che ricorreva ai superiori contro le infamità loro. Non posso riferirvi tutto ciò che si conta… dovrebbero parlare le muraglie! Tanto sperano i poveri del serraglio, e l’avranno a grazia… ”7. E, come questa, di crude testimonianze su ciò che accadeva nelle prigioni del Regno d’Italia, in quel drammatico decennio (1860-1870), se ne possono riportare tantissime. Ma il tenore è sempre lo stesso. Ciononostante, pur costretti a subire una prigionia atroce, nella gran parte dei casi, essi seppero conservare un contegno e una dignità sorprendente, difficile da riscontrare in gente così semplice, di poca o nessuna istruzione, abituata, da sempre, a servire la patria e a chinare ogni giorno la schiena nel duro e a volte assai poco redditizio lavoro nei campi. Infatti, pur allettati da proposte ammalianti, in pochi decisero di entrare nell’esercito piemontese, specialmente per non venire meno a quel giuramento di fedeltà prestato al momento dell’arruolamento nelle forze armate di sua maestà borbonica. Tanti, anzi, quasi tutti, preferirono affrontare il duro e disumano regime carcerario, gli stenti, le umiliazioni, i maltrattamenti, i morsi della fame e della sete, le malattie e, persino, la morte, pur di non chinare la testa di fronte a quelli che consideravano solo crudeli usurpatori. Sempre “Civiltà Cattolica” racconta un episodio assai indicativo al riguardo: un avvocato e un ufficiale dell’esercito, un giorno, si recarono presso una prigione di Milano per visitare i reclusi napoletani e, soprattutto, per cercare di convincerli ad abbracciare la causa sabauda, arruolandosi nell’esercito piemontese. Ma quelli, i prigionieri, “recatisi in atteggiamento nobilmente altiero, che faceva singolare contrasto coi cenci ond’erano coperti, risposero recisamente: ‘Uno Dio ed uno Re…”8. Con il passare dei mesi gran parte degli ex soldati napoletani vennero trasferiti nei lager dell’Italia settentrionale. In tal modo i governanti piemontesi speravano di aver risolto definitivamente il problema: avevano, infatti, allontanato dai focolai della rivolta migliaia e migliaia di persone, tenendoli distanti dai briganti che stavano infiammando con la loro sollevazione armata tutta la parte meridionale della Penisola. Non avevano però considerato un altro problema che, ben presto, si presentò come impellente e difficilmente risolvibile: i prigionieri napoletani ammassati nelle prigioni del nord, con il trascorrere del tempo, erano diventati in numero così ingente da rendere impossibile o quasi il mantenimento dell’ordine pubblico. Un po’ dappertutto, nelle prigioni, scoppiavano rivolte, sommosse, tentativi di fuga che a stento venivano repressi, spesso nel sangue, dalle poche truppe preposte alla sorveglianza. Persino nell’austera fortezza di Fenestrelle vi era stato un ammutinamento da parte di una cinquantina di prigionieri napoletani che avevano tentato di impadronirsi della stessa9. E più o meno la medesima cosa si era verificata nel campo di San Maurizio, alle porte della capitale sabauda. La situazione per i piemontesi non era affatto semplice: non si puó ignorare, infatti, che, in quel periodo, gran parte degli effettivi dell’esercito sabaudo si trovava dislocata nell’Italia meridionale, nel tentativo di soffocare la rivolta brigantesca che si faceva sempre più audace. Basti pensare che nell’inverno 1862-63 il VI Gran Comando di Napoli che dirigeva le operazioni contro il brigantaggio, poteva disporre di 17 reggimenti di fanteria, 51 reggimenti di granatieri, 22 battaglioni di bersaglieri, 8 unità di cavalleria, oltre ad artiglieria e genio, per un totale di oltre 105.000 uomini10. E allora cosa ti inventa la fervida mente dei governanti sabaudi? Una sorta di “soluzione finale” che ricorda molto da vicino quella che, qualche tempo più tardi, rese tristemente famoso Hitler e i gerarchi nazisti. Nel tentativo di sgombrare le prigioni del Regno da quella massa pericolosa di ex soldati borbonici, renitenti alla leva, nostalgici, prigionieri politici, briganti o pseudo tali, si pensò bene di “sistemarli” in un posto dove non avrebbero dato più fastidio. Il progetto era quello di riuscire ad ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri napoletani, togliendoseli, così, definitivamente di torno. Per fortuna, però, i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto. Nel novembre del 1862 l’ambasciatore italiano a Lisbona, tale Della Minerva, relazionando al ministro degli Esteri Durando che seguiva da vicino il progetto, così scriveva: “… la divulgazione di un dispaccio telegrafico… ove si parla… di un negoziato fra l’Italia e il Portogallo per la cessione di un’isola dell’Oceano al fine di deportarvi i galeotti, ha suscitato una tale ripugnanza nell’opinione pubblica e nella stampa che il ministero ha già fatto smentire questa notizia. Penso che per il momento sarà meglio soprassedere a questo progetto per potere avere più appresso una maggiore possibilità di successo”11. Parole chiarissime che attestano, senza pecca, l’abnormità del progetto che persino l’opinione pubblica di un paese straniero, per niente coinvolto negli accadimenti italici di quel periodo, ebbe modo di considerare “ripugnante”. Ma se tale era il progetto per il governo portoghese, non così stavano le cose per i governanti piemontesi, sempre fermamente intenzionati a procedere con la “soluzione finale”, malgrado le grida di disapprovazione che si levavano sempre più alte in tutta Europa e, persino, in seno al Parlamento italiano. E così, qualche tempo dopo, nel 1868, dopo altri analoghi tentativi tutti infruttuosi, in un momento in cui, tra l’altro, la rivolta brigantesca era sul punto di esalare il suo ultimo sussulto, le grandi “menti” savoiarde tornano alla carica per sbarazzarsi, e in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nelle putride galere della Penisola. Questa volta Menabrea, Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, affidò ai suoi funzionari il compito di contattare la Repubblica Argentina. Era stata persino individuata la regione nella quale sarebbe dovuto sorgere lo stabilimento penale: la Patagonia, una landa desertica e inospitale che si prestava meravigliosamente alla bisogna. La scelta non era stata operata a caso. L’Argentina, infatti, aveva un debito di riconoscenza nei confronti del nostro paese dal momento che numerosi volontari italiani avevano preso parte alla guerra civile; senza dimenticare, poi, che Giuseppe Garibaldi, l’invitto capo dei Mille, aveva comandato, per qualche tempo, la flotta di quel paese. Ma, ancora una volta, il progetto naufragò prima ancora di nascere: alla fine del 1868, infatti, l’ambasciatore Della Croce comunicò a Menabrea la decisione del governo argentino di non poter venire incontro alla singolare richiesta italiana. Un po’, sicuramente, per non consentire l’ingerenza di un altro stato su un territorio che apparteneva alla nazione argentina; e poi, aggiungiamo noi, per non andare incontro alla generale disapprovazione dell’opinione pubblica, come già era accaduto, del resto, qualche anno prima, al tempo dei contatti italiani con il governo portoghese12. E così, nonostante gli sforzi e i reiterati tentativi, la questione rimase irrisolta. Le migliaia e migliaia di prigionieri napoletani rimasero stipati nelle luride carceri italiane in condizioni di vivibilità disumane e raccapriccianti.
Difficile, se non impossibile, stabilire con precisione il numero di meridionali coinvolti in questa massiccia ondata di deportazione verso l’Italia settentrionale. Le cifre sono ballerine e fanno riscontrare, a volte, differenze anche sensibili. Si possono, però, fissare dei paletti o, meglio, dei parametri numerici ben precisi e quindi, movendosi all’interno di essi, argomentare il ragionamento con discreta possibilità di fare, più o meno, centro. Tenendo presente, ovviamente, che le cifre di cui daremo conto non si riferiscono solamente ai prigionieri indirizzati verso il Nord ma, più in generale, ai meridionali che ebbero la sventura di transitare nelle orride carceri della Penisola dopo il 1860. Nel gennaio del 1861, riprendendo fonti del ministero della guerra, il già citato giornale “L’Armonia” parla di 1.700 ufficiali borbonici prigionieri e 24.000 militari di truppa13. A questi vanno aggiunti i soldati catturati dopo la capitolazione delle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto che raggiungevano, più o meno, il numero di 17.000. E poi le migliaia di soldati sbandati che alla fine delle ostilità si trovarono di colpo senza lavoro: di essi molti ritornarono a casa cercando disperatamente di trovare un’occupazione o un campo da coltivare per mandare avanti la famiglia; tanti altri, invece, salirono sulle montagne, si diedero alla macchia e si trasformarono in briganti. Per dare anche qui dei riscontri numerici veritieri, basti ricordare che nel 1860, nel momento in cui Garibaldi compie la sua mirabolante impresa “volando” da Quarto al Volturno, l’esercito napoletano di Francesco II di Borbone, poteva contare su ben 97.000 uomini! Per non parlare, poi, dei moltissimi renitenti alla leva che alimentarono, per anni, il brigantaggio nel sud d’Italia. Anche qui i numeri risulteranno molto più significativi di qualsiasi commento. Nel gennaio del 1861 la chiamata alle armi, organizzata in tutta fretta dai governanti piemontesi nelle province meridionali (si aveva un disperato bisogno di impinguare l’esercito per non correre il rischio di sguarnire pericolosamente altri fronti caldi, specie nel nord Italia), fruttò soltanto l’arruolamento di 20.000 persone mentre negli elenchi della leva ne erano iscritte più di 72.000. Ciò significa che oltre 50.000 meridionali disertarono, imboccando, nella gran parte dei casi, una strada che li conduceva al di fuori della legalità. Infine, in tale elenco, per forza di cose incompleto e lacunoso, vanno inseriti tutti coloro che incapparono nei rigori della legge Pica che, varata dal governo sabaudo il primo settembre del 1863, restò in vigore fino al 31 dicembre 1865. Tra le altre misure particolarmente spietate nei confronti dei briganti o presunti tali (molti, soltanto in base ad un sospetto o a un determinato tipo di abbigliamento, vennero sommariamente fucilati sul posto), si dava al governo la possibilità di assegnare a domicilio coatto, per un tempo non inferiore ad un anno, oziosi, vagabondi, sospetti, manutengoli e camorristi14. Ciò comportò che, in quel tempo, una gran massa di poveracci, senza lavoro e di diseredati, finisse negli ingranaggi mostruosi e perversi di questo provvedimento, andando incontro a misure restrittive della libertà che, spesso e volentieri, non avevano ragione alcuna di essere.
Cercando di tirare le somme, quindi, furono decine e decine di migliaia i meridionali che incapparono nei metodi repressivi dei piemontesi, sempre più desiderosi di normalizzare con le buone ma, soprattutto, con le cattive, una situazione che rischiava di sfuggire loro di mano. Molti, anzi, moltissimi di essi furono trasferiti come bestie nel nord Italia dove vennero ammassati, senza ritegno, nei centri di raccolta, nei campi di concentramento, una sorta di “lager” ante litteram. E se la “soluzione finale” escogitata dal governo sabaudo in un’isola sperduta dell’Atlantico o nella inospitale Patagonia, non andò in porto, fu soltanto perché qualcuno, intuendo l’abnormità della richiesta, pensò bene di opporvisi. E costoro non furono, di certo, i governanti della neonata nazione italiana. Eppure, nei loro proclami, riferendosi ai napoletani, li chiamavano “fratelli”! Ecco, quindi, delineata, sia pure per sommi capi, una triste vicenda che per tanto, troppo tempo, è stata completamente rimossa dalla storiografia ufficiale, sempre più smaniosa di far risaltare l’inclita epopea risorgimentale. Questa sistematica operazione di “damnatio memoriae” che storici compiacenti e partigiani hanno messo in atto con ferrea determinazione e inappuntabile dedizione, non ha tenuto conto, però, della esigenza di verità che accompagna ogni umano anelito. E così ricercatori instancabili, alieni da qualsivoglia logica politica e di schieramento, desiderosi di far conoscere e di rendere note vicende sepolte ad arte sotto la densa polvere del tempo, hanno, pian piano, scalfito quella dura e quasi impenetrabile corazza, iniziando ad estrapolare dagli archivi documenti inequivocabili che aspettavano soltanto di essere tirati fuori e di essere letti con rigorosa obiettività. È venuta fuori, in tal modo, un’altra storia, una storia diversa, inedita, sorprendente, forse meno fulgida di quella ufficiale, sicuramente ancora poco conosciuta, considerata di serie B, ma che, nonostante tutto, inizia a farsi largo un po’ dappertutto, persino negli ingessati “sancta sanctorum” del mondo accademico, ancora troppo sospettoso di fronte a realtà che sfuggono al suo rigoroso controllo. Tali documenti, tali carte, parlano chiaro e, soprattutto, possiedono una forza, un’energia che non sarà facile debellare né piegare a perniciose logiche di parte: quella della verità, verità che per tanto tempo è stata negata, bandita e che, invece, ora, sempre più prorompente e inarrestabile, sgorga copiosa e cristallina. Qui non si vuole mettere in discussione alcunché né sminuire la tempra di personaggi che hanno fatto la storia del nostro Paese e che, proprio per questo, meritano imperituro rispetto e ammirazione. Né si sente il bisogno di inseguire sogni nostalgici o anacronistiche restaurazioni. Si tratta, invece, di raccontare gli accadimenti così come si sono verificati, di piegarsi alla realtà dei fatti senza avere più timore di soffermarsi su episodi che oggi possono apparire anche spiacevoli o discutibili. È questa la vera forza di un paese, questa la più pura connotazione di una democrazia che aspira a definirsi compiuta. E, sul fatto che la nostra grande nazione, l’Italia, sia davvero tale, nessuno puó minimamente eccepire.
La coscrizione obbligatoria, totalmente estranea alle popolazioni meridionali fino all’avvento dei Savoia, deve essere considerata uno dei fattori scatenanti del brigantaggio. Il 20 dicembre del 1860 il ministro della guerra Fanti “varò un decreto reale in base al quale vennero richiamati alle armi, secondo le modalità della legge borbonica del 19 marzo 1834, tutti gli individui delle province napoletane obbligati a marciare per le leve 1857, ’58, ’59 e ’60, ivi compresi i già renitenti; venne stabilito come termine per la presentazione il 31 gennaio 1861… Le autorità militari… facevano affidamento sopra un gettito complessivo di 72000 uomini” (Franco Molfese: “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, Feltrinelli, Milano 1964, p. 31). I risultati, però, furono, come facilmente preventivabile, poco più che modesti. “Il governo unitario subì nelle province meridionali, sul terreno della coscrizione obbligatoria, uno scacco bruciante. Infatti il richiamo urtò in un impressionante fenomeno di renitenza, al punto che il termine del 31 gennaio, con un decreto del 24 aprile, dovette essere rinviato al primo giugno 1861 e che a questa ultima data i soldati presentatisi furono in tutto 20000” (Franco Molfese, op. cit., p. 32). Tale fenomeno di diserzione alle chiamate di leva proseguì praticamente immutato e con alti picchi di renitenza per tutto il corso del decennio 1860-1870. E, come è facile intuire, l’approdo più naturale per i disertori fu la montagna dove imperversavano le bande brigantesche
2 Le fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, resistettero per parecchi mesi all’assedio e ai cannoneggiamenti dell’esercito piemontese, nel tentativo di dimostrare al mondo intero che il vessillo borbonico sventolava ancora in qualche piccolo angolo di meridione. Fu, però, un sacrificio eroico ma inutile: nessuno volle o seppe venire in aiuto di quel manipolo di prodi che combatteva una guerra ormai abbondantemente persa. E così, ad una ad una, anche quelle fortezze si arresero alla preponderanza del nemico. La prima a cedere fu Gaeta (13 febbraio 1861); seguirono, poi, in rapida successione, Messina (12 marzo 1861) e, infine, Civitella del Tronto (20 marzo 1861).
3 La “legge di repressione del brigantaggio”, detta “legge Pica” dal nome del promotore e primo firmatario, il deputato abruzzese Giuseppe Pica (1813-1887), recante la firma di altri 41 deputati, fu pubblicata, con 174 voti favorevoli e 33 contrari, il 15 agosto del 1863 (n. 1409) ed entrò in vigore il primo settembre dello stesso anno. Si trattava di un provvedimento eccezionale in virtù del quale la competenza sugli episodi di brigantaggio passava dalla giurisdizione ordinaria a quella militare con un sensibile inasprimento delle pene e delle misure di sicurezza. La “legge Pica” inizialmente doveva restare in vigore fino al 31 dicembre del 1863; fu poi estesa fino al 28 febbraio del 1864. Quindi, mutato il nome ma non il contenuto (si chiamò “legge Peruzzi” dal nome del primo deputato firmatario Ubaldino Peruzzi), restò in auge prima fino al 31 dicembre 1864 e poi fu prorogata ancora fino al 31 dicembre del 1865. Sul declinare di quell’anno il governo finalmente comprese che era arrivato il momento di eliminare, dopo ben 28 mesi (all’inizio la legge doveva restare in vigore solamente 120 giorni) questa normativa di carattere eccezionale che tanti risultati positivi, grazie soprattutto alla sua durezza, aveva raggiunto. Non a caso, a partire dal 1865, il brigantaggio nelle regioni meridionali del nostro paese inizia a segnare decisamente il passo (Fernando Riccardi: “Piccole storie di briganti”, Associazione Culturale “Le Tre Torri”, Caprile di Roccasecca, Bollettino n. 2, Anno VII – 2003, Tipografia Arte Stampa, giugno 2003, pp. 19/20, nota n. 18).
4 “Civiltà Cattolica”, serie IV, vol. XI, 1861, p. 752.
5 “L’Armonia”, 3 settembre 1861, n. 206.
6 “Civiltà Cattolica”, serie IV, vol. IX, 1861, p. 367.
7 Fulvio Izzo: “I lager dei Savoia”, Edizioni Controcorrente, Napoli 1999, pp. 110/111.
8 “Civiltà Cattolica”, serie IV, vol. IX, 1861, pp. 306 e seguenti
9 “I prigionieri, infatti, preparano per il pomeriggio del 22 agosto (1861, nda) un piano di sollevazione tendente ad impadronirsi della fortezza. Approfittando dell’assenza degli ufficiali che alle sei di sera sono in paese per la mensa, e dei soldati che a quell’ora sono in libera uscita, i cospiratori, circa un migliaio, divisi in quattro gruppi, avrebbero dovuto impadronirsi del comando di piazza isolando l’ufficiale di guardia e gli altri militari estranei alla congiura, chiudere le porte della fortezza, impossessarsi del magazzino delle armi ed occupare tutti gli altri punti strategici. Attivato, poi, un servizio di difesa dell’intero forte e preso possesso del denaro del Corpo, sarebbero usciti in bande allo spuntar del giorno seguente per occupare la cittadella e i paesi viciniori. Poche ore prima, però, il disegno viene scoperto e, grazie all’energia del comandante e degli ufficiali, i rivoltosi sono disarmati, arrestati e messi in condizione di non nuocere; oltre alle armi, viene sequestrata una bandiera borbonica” (Fulvio Izzo, op. cit, p. 66).
10 Franco Molfese, op. cit., pp. 181/182.
11 Fulvio Izzo, op. cit., p. 146
12 Fulvio Izzo, op. cit. p. 147 e seguenti.13 “L’Armonia”, 26 gennaio 1861, n. 23, rubrica “Ultime notizie”.
14 L’articolo n. 5 della “legge Pica” così recitava: “Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, a’ vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re, e di due Consiglieri Provinciali”.
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