Studi Cassinati, anno 2006, n. 1
di Sergio Saragosa
A chiunque si avventura con sistematicità, per i più disparati motivi, sulla catena di colline e di montagne che fanno da corona alla valle in cui sorge Cassino e impara a conoscerne ogni più riposto angolo, balza subito agli occhi un particolare curioso: la presenza di numerose grotte di ogni dimensione. Questo particolare è sicuramente dovuto alla natura carsica delle rocce delle montagne della nostra zona, ma anche di tutta la catena appenninica, formatasi alla fine del Pliocene, nel Periodo definito Terziario della storia del nostro pianeta e completatasi nel Pleistocène, durante il Quaternario.
Queste grotte costituirono il primo e più sicuro rifugio per gli adulti che dovettero abbandonare le famiglie per sfuggire ai soldati tedeschi che li prendevano per lavorare all’approntamento della Linea Gustav. In un secondo tempo, quando anche per le famiglie nacque il pericolo di essere prese e trasferite lontane dalle proprie zone, diventarono la seconda provvisoria e temporanea abitazione. Certo le grotte non erano pronte per ospitare i nuovi inquilini e fu necessario ripulirle, mimetizzarne l’apertura e renderle appena accoglienti con quanto ognuno era riuscito a portarsi da casa, rendendo meno duro il fondo delle stesse e riparandosi dallo stillicidio dovuto all’eccessiva umidità. In alcune grotte dalla volta abbastanza alta, come quella in cui si rifugiarono alcune famiglie del Monterotondo di Caira, furono addirittura ricavati un piano terra per gli adulti e un primo piano per le donne e i bambini. La presenza di queste grotte fu sicuramente uno dei motivi che negli ultimi mesi del ‘43 convinsero tante famiglie ad optare per questa soluzione per ovviare alla eventualità di essere caricati sui camion ed essere trasferiti chissà dove.
Le nostre montagne erano all’epoca brulle perché tutti si procuravano legna da far ardere nei camini ed anche perché i tedeschi avevano provveduto ad abbattere ogni tipo di vegetazione che fosse di intralcio ai tiri delle loro armi. Quindi, escluse le poche stalle e le rare abitazioni, sarebbe stato impossibile per gli sfollati trovare altri rifugi in montagna.
Ci fu infatti chi, in alternativa, attraversò il Rapido e cercò rifugio presso i parenti sul lato opposto della valle, chi si rifugiò tra le mura solide e ritenute sicure dell’abbazia di Montecassino, chi si trasferì in paesi alle spalle della Linea Gustav e chi addirittura, tappa dopo tappa, valicò le montagne coperte di neve fino a paesi lontani come Arpino. Intanto dal sud, incalzata dall’avanzare del fronte, sopraggiungeva altra povera gente in cerca di salvezza e, siccome le notizie di posti sicuri dove rifugiarsi venivano trasmesse da fonti sempre aggiornate e sicure, fu necessario compiere immediati e necessari lavori di ampliamento e di consolidamento delle grotte già occupate. Ma siccome non tutti potevano essere accolti, a volte, quando il terreno lo permetteva, si era costretti a scavarne delle nuove. Chi prima arrivava o chi già occupava la grotta sceglieva per la propria famiglia il posto migliore. I posti vicino all’imboccatura erano i migliori in quelle strette e lunghe perché si poteva respirare meglio, ma erano più pericolosi in caso di cannonate e i più freddi. A quelli a cui toccava stare nel fondo, mancava l’aria e spesso svenivano. A volte l’alto numero di occupanti serviva a generare più calore che, unito all’umidità e alla scarsissima igiene , favoriva la proliferazione dei parassiti. La notte per andare al bagno fuori della grotta, bisognava destreggiarsi tra i corpi raggomitolati in tutte le posizioni e con la speranza di ritrovare libero il posto al ritorno. Assistere ai magri pasti altrui, per chi non aveva proprio niente era duro e penoso, ma quasi sempre ci si aiutava.
Alcune grotte furono testimoni anche di lieti eventi come la nascita di bambini e allora per assicurare un minimo di privacy alla puerpera veniva appeso alla parete un lenzuolo o una coperta. Ai più coraggiosi veniva affidato il compito di effettuare delle escursioni per trovare un po’ di cibo scendendo fino alla periferia dei centri abitati e spesso non si faceva ritorno.
Le grotte più frequentate della zona furono quelle di di S. Silvestro1, quelle alle spalle dell’abbazia, quelle di Montemaggio, del Monacato, del Monterotondo e quella conosciuta come La Grotta dei Banditi. Quest’ultima si trova nella parete del Torrente del Dente, sopra Caira. La sua imboccatura si trova ad alcuni metri dal fondo del torrente e per raggiungerla era necessario servirsi di una fune. In essa, come ricorda Mario Amendola in un libro di memorie di prossima pubblicazione e intitolato “La mia guerra”, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio del ’44, si trovavano ben 120 sfollati, da lui contati ad uno ad uno in una notte insonne. A turno le famiglie usufruivano di un esiguo spazio antistante l’entrata della grotta per poter accendere un fuoco e cucinare qualcosa. Accendere il fuoco o farsi vedere in gruppi era pericolosissimo per gli sfollati delle grotte perché venivano presi di mira dai tedeschi che non volevano che attirassero l’attenzione degli alleati che subito cannoneggiavano perché, vedendoli, pensavano a movimenti del nemico. A volte, quando infuriava la battaglia, si era costretti a rimanere al coperto per giorni interi con gli inevitabili inconvenienti che ne derivavano. Anche l’acqua mancava e la poca che si riusciva a trovare veniva razionata come il cibo.
La grotta che ospitò le 120 persone ha questa denominazione perchè è sempre stata rifugio di banditi nelle varie epoche per la sua posizione nascosta e quasi inaccessibile.
Erasmo Gattola, archivista di Montecassino, racconta nel secondo volume dell’Historia (del 1733) che il 6 agosto del 1593 nove briganti provenienti da razzie, stavano per rifugiarsi in quella grotta quando furono sorpresi “… dalla corte e dalli huomini di S.Germano …” e trucidati
Alcune grotte oggi non ci sono più. Quelle esistenti nelle pareti dei torrenti hanno avuto l’apertura sepolta dai detriti delle alluvioni e solo chi ne conosceva l’esistenza, puó indicarne con sicurezza l’ubicazione; altre sono rimaste occultate dagli effetti delle esplosioni ed altre ancora sono state pietosamente chiuse con i resti di chi in esse è morto. Altre ancora, molto piccole, che ospitarono esigui nuclei familiari, sono crollate per eventi naturali o in seguito ad ampliamenti di antiche mulattiere.
Di sicuro resta il fatto che con le tragedie, le miserie, la degradazione e le morti di chi in esse è rimasto, queste grotte hanno scritto una triste pagina delle vicende del secondo conflitto mondiale per la popolazione del cassinate e per gli sfollati che in esse trovarono rifugio.
1 La grotta di S. Silvestro, detta della “péntëca” (con più varianti), dal dirupo sovrastato da Rocca Janula – la radice “pen-” indica appunto un dirupo o costone roccioso – ospitò molti rifugiati di Cassino; di essa scrive Fernando De Rosa (“L’ora tragica di Montecassino”, Ediz. Tracce, Pescara, 2003. pag. 54): “La grotta sotto la ‘Pentola’ è un ricovero antiaereo a prova di bomba, sovrastata com’è da oltre cento metri di roccia. Quando ci sono gli spezzonamenti notturni con lanci di razzi incendiari e luminosi, ci ritroviamo in tanti nella grande grotta e spesso vi pernottiamo stipati da poter appena respirare”.
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