Studi Cassinati, anno 2003, n. 1
di Sergio Saragosa
Nell’anno 1742, Carlo III di Borbone fece effettuare nel suo regno un rilevamento fiscale che è conosciuto sotto il nome di Onciario. Ad esso fu soggetta anche la città di S. Germano (Cassino), che faceva parte del regno di Napoli, con i due suoi Casali (oggi frazioni) di Caira e Pignataro. Siccome nell’Onciario sono riportati tutti i dati relativi non solo alla composizione delle famiglie, ma anche a quello che esse possedevano come terreni, abitazioni, animali, debiti e relative tasse, è possibile ricavarne un quadro chiaro della situazione economico-sociale anche degli abitanti del Casale di Caira (così era denominato all’epoca).
Caira era abitata in quell’anno da 63 famiglie (“fuochi”) del posto e da 6 famiglie definite di “abitanti forastieri”, in quanto non originarie del paese, delle quali 4 provenivano da Terelle, una da S. Elia e una da Serra monacesca. Il totale delle 69 famiglia formava una popolazione di 324 abitanti.
Dei 324 abitanti del Casale di Caira, 38 erano i “forastieri”, solo 12 i bambini “in fascia”, cioè quelli appena nati o di pochi mesi e circa 80 quelli compresi tra uno e 9 anni di età. Gli adulti maschi (circa 120) e le donne (circa 120) erano quasi in perfetta parità. Il più vecchio del paese aveva 97 anni, un’età eccezionale per quei tempi e si chiamava Francesco di Rienzo, cognome da tempo scomparso nel paese. La famiglia più numerosa era quella di Francesco Vecchio con 13 componenti, seguita da quella di Luca Nardone con 11, mentre la vedova di Gelardo Schiavi, Antonia Nardone di 40 anni, viveva sola nella casa di sua proprietà. Un fatto però resta strano ed inspiegabile, ed è quello relativo alla differenza di età tra mariti e mogli. Su 69 famiglie, infatti, escluse 6 di vedove e 7 di vedovi, delle 56 restanti, in ben 20 le mogli erano più anziane dei mariti, con uno scarto di età che variava da uno ai 35 anni, come nel caso dei coniugi Silvestro Nardone (38 a.) e Elisabetta Fardillo (73). In quest’ultimo caso probabilmente la moglie era una vedova risposatasi, ma in tutti gli altri la ragione doveva essere un’altra, perché diversi erano i giovani di 20 anni sposati con donne di 25 /26.
Analizzando l’Onciario risulta che quasi tutte le famiglie, escluse 4 che vivevano in affitto, erano proprietarie della casa in cui vivevano. Di queste sappiamo che “alcune erano ad un ordine (piano), e parte a due ordini” come risulta da una indagine effettuata agli inizi del ‘700 e che tra l’altro annota anche che “gli abitanti sono tutti di campagna, vestono di lana con scarpe, le femine ancora sono addette alla campagna”.
Il risultato dell’indagine fiscale portò alla tassazione complessiva per il Casale di Caira, di 1720 once, pari a 516 ducati, con una media pro-capite superiore a quella dei bracciali (contadini) di S. Germano. La situazione economica generale non era messa quindi tanto male, anche se alcune famiglie, oltre all’orto, non possedevano altro, “vivendo del solo lavoro delle proprie braccia”, come è annotato nell’Onciario. Tutti i capifamiglia risultano essere bracciali tranne un massaro (proprietario). Le monete in uso a quei tempi, in ordine di valore, erano il ducato, il carlino, l’oncia, la grana e il cavallo, mentre le misure agrarie erano il tomolo (tommola) e il coppo.
Dall’Onciario risulta che solo due erano le attività svolte dalla popolazione del casale di Caira: l’agricoltura e l’allevamento del bestiame. Quasi tutte le famiglie possedevano un orticello, mentre poche possedevano altri terreni coltivati a viti o olivi. Chi non aveva altre proprietà, oltre all’orto, coltivava i terreni dati a parsenalia. Gran parte del terreno collinare era “arbustato”, coperto di querce o roccioso e quindi poco coltivato, mentre la parte pianeggiante, la migliore, era quasi tutta paludosa. Sommando le estensioni di tutti i terreni dichiarati, non si arriva nemmeno ad un centinaio di tomoli di cui solo una parte coltivata a oliveti e vigneti e ciò era dovuto alle difficoltà di dissodamento del terreno. Se si considera che i prodotti agricoli e le tecniche di coltivazione non erano allora quelle in uso oggi, se ne deduce che per arricchire l’alimentazione e per variare la dieta occorreva ricorrere ad una fonte alternativa che era costituita dall’allevamento del bestiame. Dal nostro documento risulta che gli animali allevati dalle famiglie di Caira, oltre a quelli da cortile, che non venivano dichiarati, erano i buoi da lavoro, le vacche da latte e i vitelli, gli asini, le pecore e le capre. Strano è che una sola famiglia, quella di Francesco Zola della Terra di Terelle, cioè un abitante “forastiero”, dichiara di possedere 12 porcastri. In totale, nell’anno 1742, nel Casale di Caira venivano allevate 656 capre, e ciò è spiegato dalla presenza di molto terreno arbustato in quanto è risaputo che questi animali preferiscono strappare le foglie dei rami alti, 41 pecore, poche perché mancava il terreno prativo, 20 somari che aiutavano per il trasporto della legna e per il lavoro dei campi per chi non poteva acquistare i buoi e 108 tra mucche e vitelli e buoi, che rappresentavano il benessere per chi li possedeva. Il maggior numero di capre era posseduto da Benedetto di Miele che ne aveva 150 di sue e 31 a “parsenalia” per conto di Gaetano e Marcellino Carrozza di S. Germano, mentre Domenico di Nardone di Germano era padrone di 2 buoi e 8 vitelli che gli assicuravano una cospicua rendita. Alessandro Fardillo custodiva nella sua stalla 3 buoi, una somara con figlio e 149 capre di d’Antone e Villa di S. Germano. Alessandro Nardone custodiva 3 vacche sue, e in più aveva a parsenalia ben 21 vacche e un toro di Gregorio Terentj di S. Germano. Come si puó notare, diversi erano gli abitanti di Caira che custodivano animali di proprietà di ricchi abitanti di S. Germano. Altri ancora coltivavano terreni di proprietà non solo di privati, ma anche della Chiesa di S. Basilio di Caira, della Chiesa dello Spirito Santo, della Chiesa Maggiore, del Regio Ospedale, del Regio Seminario, del Monastero di S. Scolastica e del demanio di S. Germano.
Oltre a Pietro e Antonio de Antone, a Gregorio Terentj, ai fratelli Gaetano e Marcellino Carrozza e a Nicola e Gregorio Villa, possedevano beni nel nostro Casale altri abitanti di S. Germano: G. Battista Schiavi, Giuseppe di Fatio, Domenico Monaco, Domenico Evangelista, Giovanni Galasso, Filippo di Rienzo, Gregorio e Eugenio Pollastrella, Filippo Graniero e Massimino Nacci.
Il maggior proprietario terriero del Casale di Caira era Francesco Vecchio, con 19 tomoli di terra, ma che aveva anche 2 buoi, 1 vacca, 1 annecchione (vitello), 20 pecore e 9 capre. Erasmo Vecchio, con 15 tomoli di terra, 2 buoi, 1 vacca con vitello, una somara e Francesco Pittiglio, con 7 tomoli di terra e con 5 buoi, 3 vacche, 1 genco, 1 annecchio, 2 annecchioni (vitelli) e 2 somare, gli contendevano il primato di più ricco del Casale. Altre famiglie agiate, con un discreto numero di vacche, vitelli, buoi e somari erano quelle di Domenico di Nardone fu Erasmo, Matteo di Nardone, Tomaso di Rienzo e Domenico Roscillo. Le famiglie che non possedevano altro che l’orto erano quelle della già citata vedova Antonia di Nardone, dell’altra vedova Anna del Duca di 48 anni, che aveva in casa un garzone di 9 anni, Andrea Giannini di S. Elia e alcune altre che avevano però uomini in casa che lavoravano terre a parsenalia o a giornata. Le famiglie che possedevano o che custodivano animali di grossa taglia (buoi, vacche, vitelli e asini) erano in totale 26.
La maggior parte delle circa 70 abitazioni che costituivano il paese, erano ubicate in gran parte intorno alla Chiesa di S. Basilio che dava appunto il nome al quartiere e nell’attuale centro storico che andava sotto il nome di Vicinato, mentre altre costituivano l’attuale contrada del Monacato e altre poche abitazioni sparse erano dislocate alla località Castiello, dove, in casa del fratello Silvestro, viveva il curato del Casale di Caira don Cosmo Nardone di 48 anni, e in altre zone che è impossibile individuare perché le antiche denominazioni non esistono più. Certo è che non esistevano nemmeno allora al di sotto dell’attuale località Camarda, data la natura paludosa e malarica della zona pianeggiante, una parte della quale conserva ancora oggi, come allora, la denominazione di “Pantana”, che significa appunto luogo ricco di acqua.
La presenza di più di mille animali, tra capre, pecore, buoi, mucche, vitelli e asini, di cui l’Onciario annota anche il sesso, la maggior parte dei quali veniva quotidianamente condotta al pascolo e rinchiusa la sera in stalle quasi sicuramente annesse all’abitazione, ci fa facilmente immaginare quali fossero a quel tempo le condizioni igieniche del paese e in quale stato si riducessero le strade nei giorni di pioggia. Ma sicuramente agli abitanti di Caira, a quelli cioè che ne potevano fare uso, il buon sapore dei vari tipi di formaggi e di ricotte e il profumo delle carni arrostite o cucinate nel paiolo, servivano a superare tutte le altre difficoltà. La maggior parte di questi prodotti, comunque, riforniva il mercato della vicina città di S. Germano e permetteva, a chi li possedeva, di incamerare il denaro liquido utile per le necessità della famiglia.
Queste poche note relative al Casale di Caira illustrano chiaramente anche quella che era la situazione generale dell’Italia meridionale a quei tempi. Le condizioni erano a dir poco misere dopo due secoli passati a languire sotto la dominazione spagnola sonnolenta e parassita. La realtà economica e sociale vedeva da una parte il clero, la nobiltà (baroni e principi) e la forza politica, spesso formata dagli elementi di queste due caste, vivere nel benessere senza però mai migliorare e dall’altra parte una massa di poveri affittuari che conduceva una ben misera vita di stenti. Le grandi proprietà erano in mano a poche persone e si tramandavano di padre in figlio con l’obbligo di non cambiare mai nulla sia come prodotti da coltivare, sia come quantità di terreno (istituto del Fidecommisso).
Con l’Illuminismo, però, molti stati europei e anche dell’Italia settentrionale avevano dato inizio ad una politica di cambiamenti e di miglioramenti, specialmente in agricoltura, spinti anche dal considerevole aumento demografico che si stava verificando. Per nutrire i milioni di persone in più erano necessari nuovi, migliori e più abbondanti prodotti.
La madre in Spagna e Carlo III nel suo regno, iniziarono una intensa attività riformatrice volta a limitare le prerogative del clero e della nobiltà, cercando di liberalizzare le grandi proprietà da assegnare a persone in grado di aumentare le aree coltivabili e di ammodernare mezzi e tecniche, ma il loro tentativo fallì. Nel 1749 Carlo III ereditò dal fratellastro Ferdinando VI il trono di Spagna e lasciò il regno di Napoli al figlio Ferdinando IV, di 8 anni, sotto la reggenza di B. Tanucci.
Questa era la realtà a cui era collegata la nostra zona e in questa realtà venne ad inserirsi il rilevamento onciario del 1742.
Le istruzioni per la formazione dei Catasti Onciari furono pubblicate il 28 settembre del 1742, con l’ordine che entro 4 mesi tutti i Catasti fossero completati. Pochi Comuni (allora “Universitates”), e tra questi la città di S. Germano, riuscirono a completarli entro quei termini; la maggior parte portò a termine i lavori entro l’anno 1753. Ogni capofamiglia era tenuto a dichiarare il nome e il cognome, la propria età e quella della moglie e la sua provenienza (la Padria), le generalità dei figli e delle altre persone che con lui convivevano, l’arte esercitata. Doveva inoltre dichiarare e descrivere tutti i beni che possedeva, anche quelli a “parsenalia”, cioè per conto di altri e gli animali che allevava, anche quelli “a estaglio”, cioè secondo un contratto stipulato con gli effettivi proprietari. Chi ometteva di dichiarare beni, non solo incorreva in una pena, ma subiva anche la confisca degli stessi. Le dichiarazioni venivano raccolte da una Commissione formata in genere da un Cancelliere, da 6 perone dell’Universitas, due per ognuno dei tre ceti sociali (Civili, Mediocri e Infimi), da 4 “stimatori”, di cui due locali e due del paese più vicino e da Deputati Eletti. Tutti costoro dovevano essere “timorati di Dio, non inquisiti, di ogni educazzioni maggiori e intesi delli affari dell’Universitas”, come recitano le raccomandazioni per la compilazione degli Onciari. Due abitanti del Casale di Caira, Cesare Miele e Gio. Battista Nardone fecero parte della Commissione della Terra di Terelle che iniziò i lavori il 4 settembre del 1752 e li portò a termine il 7 gennaio del 1753. Per curiosità di chi legge ricordiamo che Terelle a quei tempi contava ben 1520 abitanti: davvero tanti!
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