IL CASO DELLE DONNE ITALIANE STUPRATE DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE AL CENTRO DI NUOVE RICERCHE

 

Studi Cassinati, anno 2002, n. 3/4

di Giovanni De Luna

Vennero a combattere in Italia da tutti gli angoli del mondo: americani, francesi, inglesi, tedeschi, neozelandesi, indiani, polacchi, senegalesi, marocchini, algerini, tunisini, nepalesi, ecc…. Per quasi due anni, dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una durissima legge del contrappasso: il fascismo che aveva inseguito i suoi deliri imperiali in terre lontane, portò la guerra sull’uscio delle nostre case, in un turbinio di stragi naziste (15 mila vittime civili), bombardamenti (65 mila vittime civili), rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti, comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all’Italia come a un paese vinto. E si comportarono di conseguenza. Si materializzò così l’incubo delle violenze e degli stupri, l’altra faccia della «guerra al femminile». Anni fa, un bel libro curato di Anna Bravo, (Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, 1991) ospitava un saggio di Ernesto Galli della Loggia che utilizzava quell’espressione per indicare nella seconda guerra mondiale una straordinaria occasione di protagonismo per le donne, chiamate a interpretare ruoli inediti (per esempio sul lavoro), a svolgere compiti difficili, con il peso sulle spalle della salvezza dei propri uomini e della sopravvivenza delle proprie famiglie. Il lato oscuro di questa visibilità fu l’ondata di violenza di cui furono vittime.
Lo spiega bene un libro più recente (Donne guerra e politica, a cura di D.Gagliani, E. Guerra. L.Mariani e F.Tarozzi, Clueb, 2001): gli stupri diventano per gli eserciti vittoriosi l’occasione per l’esercizio di un potere anche simbolicamente straripante, in grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione pubblica (il loro Stato, il loro territorio nazionale) ma anche di quella privata, penetrando nelle loro case, squarciandone gli interni domestici, spezzandone i legami di cittadinanza insieme a quelli familiari e parentali.
Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla «linea gotica», i tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a voler reiterare la strage in altre forme (Dianella Gagliani, La guerra totale e civile: il contesto, la violenza e il nodo della politica ); sull’appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei mesi, si registraroono 262 casi di stupro ad opera dei «mongoli» (i disertori dell’Asia sovietica arruolati nell’esercito tedesco). Ma niente può eguagliare l’orrore che investì le «marocchinate»: è una brutta parola, ma allora la usavano tutti e si capiva subito di cosa si parlava.
Nel 1960, Vittorio De Sica ne immortalò le sofferenze in un film che valse l’Oscar a Sofia Loren. La ciociara era tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Paradossalmente, mentre il cinema e la letteratura trovarono subito i modi per raccontare le scene che si svolsero allora nelle terre in cui, a combattere i tedeschi, arrivarono le truppe delle colonie francesi (non solo marocchini, ma anche tunisini, algerini, ecc…), gli storici furono come bloccati, lasciando praticamente sguarnita di studi e ricerche quella pagina dolorosa della nostra storia.
A rompere questo inquietante silenzio è ora un libro appena uscito in Francia e di prossima pubblicazione anche nella sua traduzione italiana: Jean-Christophe Notin, La campagne d’Italie. Les victoires oublièes de la France, 1943-1945, Perrin, 2002. In realtà, come si capisce immediatamente dal titolo, a Notin preme soprattutto indicare nella campagna d’Italia, «l’occasione per la Francia di provare agli Alleati, ma anche a se stessa, che continuava a essere una grande nazione». Grazie al loro impegno a Cassino, nei furibondi combattimenti che si accesero sulla «linea Gustav», i francesi riuscirono a riconquistare la stima degli angloamericani, facendo dimenticare l’ignavia della capitolazione del giugno del 1940, il collaborazionismo di Vichy, le ambiguità di Giraud e delle truppe rimaste nell’Africa del Nord. E alla fine vennero premiati: il trattato di pace del 1947 sancì una rettifica delle frontiere alpine con l’Italia che assegnò alla Francia uno spicchio di territorio pari a 709 chilometri quadrati. Pochi, ma come sottolinea Notin, anche l’unico ingrandimento territoriale conquistato in guerra dalla Francia in tutto il Novecento!
I 130 mila francesi furono schierati sul fianco sinistro della V° Armata americana e subito scaraventati al fronte, nella fornace ardente di Cassino. E furono proprio i soldati agli ordini del generale Juin i primi a sfondare, il 13 maggio 1944, i capisaldi della linea Gustav. Poi, «la furia francese» (nel libro viene usato proprio questo termine) rotolò lungo la valle del Liri, sconvolse il frusinate, proseguì verso Nord, verso Roma, verso la Toscana e lì si fermò. Nell’agosto del 1944, dopo lo sbarco alleato sulle coste della Provenza, le truppe di Juin furono richiamate in patria. Alle loro spalle lasciarono ben 7485 caduti ma anche una scia di lagrime.
Per Notin i «marocchini» non si arruolarono per patriottismo ma per altre ragioni: la prospettiva di un salario sicuro, la possibilità di acquistare prestigio guerriero, la fedeltà ai loro clan. Non erano solo «marocchini» ma provenivano da tutte le popolazioni più povere del Maghreb, gente di montagna, analfabeti nei cui confronti gli ufficiali francesi dovevano essere di volta in volta padri, saggi consiglieri spirituali, capi tribù. Le loro figure intabarrate nei mantelli marrone (burnous), i pugnali alla cintura, le voci di sgozzamenti notturni, di orecchie e nasi mozzati ai nemici, alimentavano una fama da incubo ancestrale.
Se dobbiamo credere a Notin, andavano all’attacco salmodiando la Chahada, («la Allah illah Allah! Mohammed Rassoul Allah!»), catturavano i tedeschi per rivenderli (500-600 franchi per un soldato semplice, il triplo per un ufficiale superiore) ai militari americani desiderosi di costruirsi una reputazione guerriera senza rischiare. La prima notizia di un loro stupro è dell’11 dicembre 1943; si tratta di 4 casi che coinvolgevano – secondo fonti americane – i soldati della 573° compagnia comandata da un sottotente francese «che sembrava incapace di controllarli». Notin annota: «sono i primi echi di comportamenti reali, o più spesso immaginari, di cui saranno accusati i marocchini».
Tanto immaginari però non dovevano essere se, già nel marzo 1944, De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parla di rimpatriare i goums ( o goumiers, come venivano chiamati) in Marocco e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico. In quello stesso mese gli ufficiali francesi chiesero insistentemente di rafforzare il contingente di prostitue al seguito delle le truppe nordafricane: occorreva ingaggiare 300 marocchine e 150 algerine; ne arrivarono solo 171, marocchine. Dopo lo sfondamento della linea Gustav, la «furia francese» travolse soprattutto il paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71° divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio oltre 600 donne furono violentate; identica sorte subirono anche numerosi uomini e lo stesso parroco del paese. Il 17 maggio, i soldati americani che passavano da Spigno sentirono le urla disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa». Ma gli alleati erano sinceramente scandalizzati: un rapporto inglese parlava di donne e ragazze, adolescenti e fanciulli stuprati per strada, di prigionieri sodomizzati, di ufficiali evirati. Pio XII sollecitò (il 18 giugno) De Gaulle in questo senso, ricevendone una risposta accorata accompagnata da un’ira profonda che si riversò sul generale Guillaume, capo dei «marocchini».
Si mosse la magistratura militare francese: fino al 1945 furono avviati 160 procedimenti giudiziari che riguardavano 360 individui; ci furono condanne a morte e ai lavori forzati. A queste cifre sicure occorre aggiungere il numero, sconosciuto, di quanti furono colti sul fatto e fucilati immediatamente (15 «marocchini» solo il 26 giugno).
Si tratta comunque di alcune centinaia di casi. Le fonti italiane danno cifre molto diverse. Una ricerca in merito (Vania Chiurlotto, Donne come noi. Marocchinate, 1944-Bosniache, in DWF, n.17, 1993) parla di 60 mila donne stuprate. Un numero enorme, spaventoso.
Fu proprio a Esperia che nacquero le prime voci sulla «carta bianca». Come premio per aver sfondato la linea Gustav, gli ufficiali francesi avrebbero concesso 24 ore in cui tutto era permesso. Notin smentisce con forza. Resta il fatto che la disposizione dei francesi nei nostri confronti non era delle migliori: nessuno aveva dimenticato la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940, il bombardamento di Blois senza necessità militari, i mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira.
Però pur ammettendo una certa riluttanza delle autorità francesi nel punire le violenze, la disparità con le cifre di parte italiana resta enorme. I nostri dati si fondano sulle 60 mila richieste di indennizzo presentate dalle donne italiane. I francesi pagarono da un minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila fino al 1 agosto 1947. Da quel momento a pagare fu lo Stato italiano, stornando i fondi dai 30 miliardi dovuti alla Francia per le riparazioni di guerra. Molti problemi nacquero dal fatto che le donne, oltre all’indennizzo, chiesero anche la pensione come vittime civili di guerra e che per legge i due benefici non erano cumulabili. Ne scaturì un groviglio di questioni burocratiche, ritardi, lamentele. A organizzare le proteste furono soprattutto le comuniste dell’Udi. Nel 1951 un’affollatissima assemblea di donne in un cinema di Pontecorvo affrontò la questione delle marocchinate, provocando un infuocato dibattito parlamentare. Il Pci, in piena guerra fredda, si fece paladino del nostro onore nazionale; nel 1966, in un clima politico radicalmente diverso, toccò al monarchico Alfredo Covelli risollevare la questione dei 60 mila stupri. Nel 1993 su quegli eventi è tornato Tahar Ben Jelloun, (Gloria Chianese, Rappresaglie naziste, saccheggi e violenze alleate nel Sud, in Italia contemporanea, n.202, 1996).
Ma, indipendentemente dalle ragioni dell’«uso pubblico della storia», in tutta quella vicenda restano interrogativi pesanti e angosciosi. Ammettere di essere stata stuprata è per una donna un’esperienza devastante. Eppure furono in 60 mila a farlo. La spiegazione di Notin è raggelante. Su quegli stupri furono messe in giro molte «voci» interessate: dalle autorità francesi in Marocco che volevano sollecitare un rapido rientro delle truppe a casa; dalla Santa Sede che ingigantiva le dimensioni del pericolo islamico; dai tedeschi per spaventare le popolazioni e per nascondere i propri massacri. Per il resto, la colpa fu in parte della rilassatezza dei costumi delle donne italiane, in parte delle abitudini tribali dei marocchini.
Per parte nostra, solo una constatazione. Nei paesi colpiti spesso furono i sindaci a raccogliere le richieste di indennizzo e, nell’interesse della comunità, si arrivò a dichiarare la violenza anche quando non era stata subita. Il fatto è che la miseria travolse anche il pudore e le 60 mila marocchinate furono costrette a scegliere lo scandalo e la vergogna di uno stupro «falso» per ottenere i soldi «veri» che servivano alle loro famiglie e alla loro comunità.

Il libro cui accenna Daria Frezza nelle pagine precedenti, di Jean Christophe Notin, La campagne d’Italie – Les victoires oubliées de la France, 1943-1945, riapre il dibattito sulla questione delle “marocchinate” nostrane. È un tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità morali da parte dei Francesi di oggi riguardo ai misfatti delle truppe di colore in Italia nella seconda guerra mondiale?
Diamo la parola a Giovanni De Luna che entra nel dibattito con un articolo apparso su LA STAMPA del 25 novembre scorso, sperando che altri facciano altrettanto: il nostro spazio è a disposizione.

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