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Studi Cassinati, anno 2016, n. 4
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di Giovanni Petrucci
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Seguivo mio padre con la testa girata verso l’alto, contando le squadriglie che solcavano lentamente il cielo sgombro ed azzurro, perciò ero rimasto indietro. Molti venafrani come me dalla mattina avevano il viso rivolto all’insù per ammirare il volo; mai avevano assistito ad un passaggio così continuo e compatto di formazioni di fortezze volanti. Esse tutte uguali a punta di frecce emettevano un rombo lamentoso di organo, grave, lugubre che trasmetteva un certo tremolìo per le membra, anche se si era al sicuro nella cittadina tutta francese e statunitense. Tuttavia restavano silenziosi e preoccupati. Difficilmente parlavano. A qualcuno sfuggiva la solita espressione:
– Chissà quest’oggi chi piangerà?
Entrò nell’ampio androne del palazzo Morra e riconsegnò gli attrezzi agli uffici di fureria francesi. Si era licenziato perché aveva sentito dai soldati delle parole di denigrazione nei riguardi degli Italiani e lui che ancora non aveva smaltito una certa educazione giovanile, non tollerava.
Improvvisamente gli aerei produssero un rumore più forte, assordante e scesero di quota pavoneggiandosi grandi e temibili, poi si sentirono tonfi cupi, boati che conoscevo molto bene. Non erano scoppi assordanti delle granate, dal suono metallico delle schegge che ti scoppiavano vicino e lontano, ma esplosioni attutite e come inghiottite dalle immense distruzioni che causavano. Quanto durò? Il tempo di rifare il breve tratto di Via Napoli e Via Caserta per arrivare a Palazzo Ferri, dove avevamo lasciato i nonni, mamma, Elide e Maria, non più di dieci minuti!
Erano tutti salvi.
I tonfi continuavano ancora a farsi sentire, ma provenivano da lontano perciò ero tranquillo! Le «fortezze volanti» si abbassavano di quota spaventosamente: si riconosceva il colore argenteo della fusoliera. Gli stessi soldati americani, accampati nel giardino, miravano con le loro carabine Winchester e sparavano contro i mostri che scendevano in picchiata sulle abitazioni, quasi a sfiorale. Forse erano coscienti della inutilità di quanto facevano, ma era un modo di rispondere al ferro con il ferro. Bob, lo conoscevo bene, eravamo divenuti amici, mirava attentamente e sparava dopo un attimo. Voleva essere sicuro di aver centrato il suo nemico, il suo compatriota!
Gridava, minacciava con le mani tese in alto, bestemmiava contro i suoi commilitoni aviatori!
Ci avevano portato in salvo a Venafro, dove soccombere miseramente!
Per fortuna durò poco tempo, il danno, però, fu incalcolabile. Subito si diffuse la notizia che avevano colpito la zona nord della cittadina, quella che si stende da Portanova, dalla Chiesa di S. Sebastiano fino alla Cattedrale medioevale e più su, ad iniziare dai caseggiati di via De Utris terminanti al Colle, tra i caratteristici campanili delle chiese di Cristo e dell’Annunziata. Corse subito voce che era stato centrato il Comando Statunitense e che il Generale era scappato via per la vergogna1.
Fu un’ecatombe improvvisa e traditora, ai danni di una popolazione ignara, non abituata agli eventi terribili delle bombe piovute dall’alto e in una zona dove si erano stipati centinaia di sfollati. Le case qui si erano accartocciate in mucchi di pietre e calcinacci dai quali si levavano nuvolaglie di polvere che rendeva l’aria irrespirabile.
Molti erano ancora vivi sotto alle macerie e chiedevano aiuto. I venafrani, incuranti del pericolo incombente iniziarono subito a scavare con le mani e poi con gli attrezzi che nel momento di terrore si poterono trovare nelle case rimaste in piedi.
Immediatamente accorsero i soldati con i dodge per il trasporto del materiale. Fu una lotta contro il tempo per evitare che si affievolissero le grida di aiuto.
Nella strada che curva verso l’alto della Chiesa del Carmine, Marciano si affrettava a scavare perché aveva riconosciuto la voce di ‘Mmaculatella, Immacolata Palazzo. Voleva a tutti i costi tirarla fuori prima di sera; ma non ci riuscì. Trovarono finalmente il suo corpo esanime e lo coprirono con un lenzuolo; poi lo portarono giù al Palazzo Armieri.
Verso sera giunse anche Zi’ Rumineche, Domenico Di Cicco, sfollato di Portella, con il sacco della cerca quasi pieno; allungò lo sguardo avido dove era la sua casa, la casa che ospitava lui e la numerosa famiglia2. Ma non riuscì ad identificarla. Chiese, cercò spiegazioni e poi quelli che sapevano di più gli indicarono, senza parlare, il mucchio di rovine.
Stamattina era lì.
Stavano tutti di sotto a sopportare l’immane peso. Forse qualcuno si sarà salvato?
Domenico si mise a sedere, stanco, sfinito per i lunghi giri fatti nelle masserie della campagna venafrana e
in paesi lontani e cominciò a piangere. Aveva portato il sacco pesante per potere sfamare tutti! E piangeva, piangeva con le lacrime che gli colavano a terra direttamente dagli occhi. Era un pianto dirotto, irrefrenabile, che gli saliva dal petto. Uno scuotimento di tutto il corpo!
Stava vicino ai suoi ma non li poteva toccare, né vedere. Non sentiva l’aria della sera che cominciava a raffreddargli le braccia. Restò immobile, pietrificato dal dolore per molto tempo. Passavano i Venafrani e lo vedevano con il viso tra le mani e i gomiti poggiati sulle ginocchia; passavano e gli rivolgevano un gesto di pietà, ma non osavano avvicinarsi. E che cosa potevano dirgli? Quali parole si potevano proferire ad un uomo che in pochi attimi aveva perso l’intera famiglia?
Nicandro da tempo lo aveva scorto sempre lì fermo, immobile: gli si squarciò il cuore e soffrì anche lui, appoggiato ad un troncone di muro sopravvissuto. Gli si avvicinò e senza parlare lo prese per una mano e se lo tirò a sé, con tutto il sacco che aveva ancora pendente dalle spalle. Se lo trascinò a casa e senza parlare, gli offerse il caldo della fiamma del focolare; poi gli indicò della verdura con pane, il giaciglio e lo lasciò solo, con il suo dolore. Quando esso è vero e grande, l’uomo non avverte il conforto di nessuno!
Non parlò l’uno, né gli rispose l’altro. Regnò il silenzio e il piatto sul tovagliolo.
Domenico restò sveglio per tutta la notte, seduto al tavolo sul quale a volte poggiava la testa. All’albeggiare uscì ed andò a sedere alla solita pietra. Sperava che da un momento all’altro spuntassero vivi i suoi piccoli e gli chiedessero del pane, come facevano solitamente la mattina. No e nemmeno comparivano di sotto il mucchio di sassi e di terra bruna alto come un pagliaio, con tante travi che fuoriuscivano come croci.
Arrivarono degli operai e tanti soldati e cominciarono a scavare; Domenico si allontanò perché non voleva vedere. Tornò nella casa di Nicandro che ormai gli era divenuto amico. Si mise seduto vicino al fuoco.
Lo chiamarono per il riconoscimento di rito il maresciallo dei Carabinieri e il giovane parroco don Luigi Valente. Questi se lo mise sotto braccio, lo accarezzò e lo avvicinò a quelli allungati per terra. Scoprì il lenzuolo e lui biascicò:
– Mia moglie Benedetta. Sia con Gesù, perché ieri mattina mi invogliò ad andare; io non me la sentivo ma lei mi spinse: I figli debbono mangiare. Si inginocchiò e le baciò il volto, come non aveva mai fatto in tutta la sua vita. Era freddo, ma era della sua Benedetta, ancora fresco; non aveva che cinquanta anni.
– Pulitele la faccia, lavatela, non me la fate guardare così, in parte coperta di terra; era brava ed attaccata ai figli ed a me: viveva solo per la famiglia …
Lo dovettero portare di peso nella cucina di Nicandro, perché non assistesse al ritrovamento dei figli, sepolti vivi. Egli sentiva. Riconosceva ogni caratteristica del rumore prodotto dal piccone o dalla pala e gridava:
– Non fate male ai miei con gli attrezzi di ferro; usate le mani e molta cautela. Voglio rivederli come erano ieri mattina!
Li trovarono tutti e come Domenico aveva imposto li pulirono per bene. Si prestarono molte donne e con squisiti gesti li lavarono accuratamente. Purtroppo a Rocca le vesti si erano strappate, ma Nicandrina riuscì a nascondere le aperture della stoffa sgualcita e a ricucirle per benino. Poi il saluto: volle inchinarsi, stringere al petto tutti i suoi figli e dialogare con loro come quando gli correvano intorno all’arrivo della sera. Specialmente ai due più piccoli, a Giovanni di otto e a Battista di dodici anni, riservò le parole più dolci ed affettuose che fecero piangere tutti gli astanti.
Strinse tra le mani il volto di Benedetta, Rocca e Pasqualina ed infine quello di Antonietta: erano belle dai lineamenti delicati e lo guardavano fissamente con gli occhi spalancati, che esprimevano tutto lo spavento del trapasso; sarà stato lento doloroso e sofferto; la terra avrà soffocato il respiro. Si rivolse a Nicandro e gli chiese con parole pietose di nettare per bene il pianale del dodge.
Gli operai capirono e lo pulirono alla meglio; ci fu una donna dalla squisita sensibilità che passò uno straccio inumidito sul ferro. Ma Domenico esitò ancora:
– Fatemi una cortesia: vedo lì di fronte alcune piante di limoni: prendete delle foglie, riempitene qualche federa e fatene dei cuscini e altre spargetele sulla dura lamiera perché i miei cari non sentano freddo e il puzzo di olio bruciato del motore.
Corsero Marciana e le sue amiche e colmarono due ceste: erano tutte verdi, lucide e profumate.
– Ecco, mia moglie deve stare al centro, in alto e vicino a lei ponete delicatamente Giovanni e Battista, più in basso le ragazze Rocca e Pasqualina e tra queste Antonietta.
E fecero così come aveva richiesto. Fu pago, nel vedere la sua Benedetta come la Madonna del Soccorso, che protegge i suoi figli. Alzò ambo le braccia e con questo gesto mandò via il triste convoglio.
– Andate, andate pure! Vi seguirò, il dolore farà il suo dovere!
Tornò a Portella a dissodare il terreno a ricominciare la vita: il sudore della fatica e la stanchezza gli attenuavano l’angosciosa solitudine. Sentiva di venir meno a non ascoltare più la voce della sua Benedetta, o le grida spensierate dei piccoli che si rincorrevano nell’aia, o quando entravano con veemenza nella stalla per rigovernare gli animali.
Divenne un uomo duro, solitario, scontroso; gli amici lo ricordavano per il suo nervosismo di cui era consapevole, per l’irritabilità causata da un nonnulla. Ne pagarono lo scotto i figli che ebbe da una seconda moglie: questi dovevano ubbidire ciecamente alle sue imposizioni. Per tale motivo lo soprannominarono «brigadiere».
Finalmente all’avvicinarsi delle feste natalizie, qualche mese dopo quel maledetto giorno del quindici marzo 1944, tornò un raggio di sole ad illuminare il suo focolare: Giuseppe, militare in Sicilia, ed ormai dato per morto da tutti i suoi vicini, ricomparve improvvisamente sulla porta di casa! Era il figlio maggiore che lo aiutava nei duri lavori dei campi. Fu una festa grande per tutta la frazione: a sera suonarono le campane e ogni amico portò il suo fiasco di vino. Bevve anche don Benedetto Vacca, taciturno non aduso a certe baldorie. Ma la folla, tutti i Portellani lo coinvolsero. E fu un bene per Domenico, che seduto in un angolo dalla cucina non riusciva a raccapezzarsi di tutto quel rumore.
Ma arrivò all’improvviso il 23 agosto 1950: Giuseppe, senza rendersi conto dell’operato, colpì la spoletta di una bomba incrostata di terra, e ormai mimetizzata con le zolle, e saltò in aria, lasciando di nuovo solo il suo papà!
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* Dal manoscritto L’inverno 1943-44 a Sant’Elia. Ringrazio di cuore (post mortem) Luciano Di Mambro che il 4 giugno 1981 mi fornì le prime notizie sul triste avvenimento.
1 R. Derennes, Il triste episodio di Cassino del 15 marzo (Una testimonianza, un riconoscimento ai Polacchi e al CEF troppo spesso dimenticati), Bulletin de Liaison du C.E.F.I. n. 111 (documenti: pp. 31-33), «…Le bombe destinate ai Tedeschi caddero proprio su di noi; notate bene che esse piovvero su tutti, senza distinzione, bisogna essere giusti: per prima sui Francesi alla destra, poi sulle artiglierie e sulla fanteria degli Inglesi, Neozelandesi, Polacchi e sugli stessi Americani […]. Ne restarono poche per i nemici!».
2 La famiglia Di Cicco era composta dal capofamiglia Domenico, dalla moglie Benedetta Pacitto di 50 anni (2.12.1893), dai figli Giuseppe di 29 anni (30.09.1921-24.08.1950), Antonietta di anni 26 (1.12.1918), Pasqualina di anni 17 (11.12.1926), Rocca di anni 14 (11.6.1929), Giovanni di 12 anni (2.6.1932) e Giovanni Battista di 8 anni (12.6.35).
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