La diaspora cassinate.

Andrea Paliotta, Cassino 2014.

> Locandina di presentazione

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INTRODUZIONE

6_2014 Diaspora Paliotta«Un romanzo o si scrive o si vive» affermava il poeta, scrittore e drammaturgo Luigi Pirandello. Invece questa ragguardevole pubblicazione su La diaspora Cassinate si presenta come un tutt’uno. Un intreccio quasi da romanzo con tre personaggi dai nomi di «vetero» fantasia dovuti a ragioni di «discrezione», che hanno in comune la stessa terra di estrazione o di adozione e in cui un ex alunno intervista un suo ex docente alla presenza di un ex militare di carriera. Un «narrator cortese» pesca nella sua mente ricordi rimasti indelebili di avvenimenti accaduti in uno specifico arco di tempo compreso tra l’estate del 1943 e la primavera del 1944, dunque vissuti in prima persona, e quindi fatti riemergere per essere fissati nella pagine del volume. Nel corso di settant’anni già vari altri autori-testimoni hanno inteso raccontare la propria drammatica esperienza bellica vissuta nei nove mesi in cui la guerra mondiale ha fatto sosta nel Cassinate, alcuni, come Carlo Baccari e Gaetano Di Biasio, scrivendo dei Diari proprio nel corso di quei tragici e dolorosi giorni, altri, per la maggior parte, accantonandola in qualche angolo della propria memoria per poi farla riaffiorare quando hanno sentito il bisogno di evitare che il ricordo si disperdesse e si perdesse. Di quell’esperienza che ha segnato fortemente migliaia di persone, ogni autore-testimone ha offerto, dal proprio punto di vista, un tassello necessario alla ricostruzione di ciò che è accaduto settant’anni fa su questa martoriata terra con l’intenzione di affidare alle nuove generazioni i ricordi delle sofferenze, delle angherie, dei soprusi, delle violenze, delle paure, dei patimenti perché non accadano mai più.

L’Italia era entrata in guerra il 10 giugno 1940 ma per i primi tre anni gli eventi bellici furono percepiti nella loro drammaticità soprattutto da quelle famiglie i cui componenti era stati inviati a combattere sui vari fronti. Poi la guerra giunse con il suo carico di terrore e morte direttamente sul territorio italiano in seguito allo sbarco alleato in Sicilia svoltosi nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943. Solo nove giorni dopo fece la sua comparsa nel Cassinate con il bombardamento dell’aeroporto di Aquino avvenuto il 19 luglio, lo stesso giorno del primo bombardamento di Roma, sul quartiere di San Lorenzo. Nei ricordi e nelle testimonianze l’attacco aereo ad Aquino ha rappresentato un momento di forte cesura non solo perché è stato il primo evento bellico subito dal territorio, oltretutto percepito distintamente da molte persone anche a diversi chilometri di distanza a causa dello scoppio dei depositi di munizione e di carburante presenti nell’aeroporto, ma soprattutto perché da quel 19 luglio le condizioni di vita andarono peggiorando giorno dopo giorno. Tutti i Comuni del comprensorio subirono nei mesi successivi il primo di una lunga serie di bombardamenti (Cassino il 10 settembre, solo due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio di Cassibile, Esperia il 30 settembre, Pontecorvo il primo novembre, ecc.) che per alcuni di essi ha comportato la distruzione totale o quasi. In varie ondate la popolazione locale subì lo sfollamento in paesi dell’Italia centro-settentrionale (Umbria, Veneto), ma molti furono quelli che decisero di rimanere sulla propria terra cercando rifugio in montagna. Ecco dunque il notaio Baccari salire sui monti circostanti Pontecorvo «dirimpetto Montedoro» (per poi giungere il 26 maggio proprio a Esperia e rimanervi fino a metà del mese successivo), ecco Gaetano Di Biasio trasferirsi a Valvori e poi rifugiarsi nella stalla di «maletiempo» e nella capanna del bosco lì vicino e poi sfollare a Fiuggi, ecco il «narrator cortese» ogni mattina prendere la via della montagna, addentrarsi sempre più nella fitta boscaglia dove “acquattarsi” e trattenersi fino a sera, oppure fare la spola tra la propria casa e i ricoveri di fortuna (i «pagliai») approntati in zone isolate, quasi inaccessibili, in «residenze di montagna» cioè baracche dislocate in piccole valli sui monti Aurunci. Mesi vissuti convivendo quotidianamente con freddo, gelo, neve, fame, paura finché alle 23 dell’11 maggio scattò l’offensiva finale delle truppe alleate quando, con uno «spettacolo terribile, ma tanto atteso» dalle popolazioni locali, migliaia di cannoni aprirono il fuoco su tutto il fronte, lungo i circa 35 chilometri tra Cassino e la foce del Garigliano. Nell’arco di qualche giorno fu spezzata la resistenza dei tedeschi il cui cedimento fu dovuto proprio alla conquista del bastione di monte Maio che rappresentò, dunque, lo snodo decisivo per il superamento della «linea Gustav». L’azione di attacco continuò in quelle aree raggiungendo un monte dopo l’altro, una valle dopo l’altra con le unità tedesche che andavano disgregandosi. Le truppe del Corpo di Spedizione Francese raggiunsero Vallemaio il 14 maggio, Sant’Apollinare, San Giorgio a Liri e Ausonia il 15, monte Petrella il 16, Esperia e la catena dei monti Aurunci il 17. Il 18 mattina, alle ore 10.30 i Polacchi del gen. Anders piantarono la loro bandiera sulle macerie dell’abbazia evacuate nella notte dai paracadutisti tedeschi. La «linea Gustav» era stata sfondata ma alle sue spalle i tedeschi si riorganizzarono sulla «linea Hitler» o «sbarramento Senger» che congiungeva Piedimonte San Germano-Pontecorvo-Pico fino al mare, contro cui si lanciarono le truppe alleate. Pico fu conquistata il 19 maggio, Pontecorvo il 24, monte Cairo il 25 e nello stesso giorno vennero liberate Piedimonte San Germano, Aquino, Castrocielo e Roccasecca. Ormai la Casilina era percorribile, la via per Roma era aperta e il 4 giugno il gen. Clark entrò nella capitale italiana.

Per le zone del Cassinate iniziò l’attesa e agognata liberazione che però, fin dai primissimi istanti, ebbe aspetti ed esiti nettamente differenti per le persone a seconda della loro ubicazione. Se per una parte della popolazione l’arrivo dei soldati alleati significò concretamente la fine della guerra, per un’altra parte, invece, la liberazione rappresentò l’inizio di un nuovo incubo. Infatti nei giorni immediatamente successivi allo sfondamento della «linea Gustav» nel tratto di territorio del Lazio meridionale che parte da Esperia per risalire verso nord a cavallo tra i confini delle due province di Frosinone e Latina, il passaggio dei «liberatori», rappresentati dalle truppe coloniali franco-africane inquadrate nel Corpo di Spedizione Francese, si caratterizzò per l’elevato livello di violenza perpetrato ai danni delle comunità locali. Non si trattò solo di furti e saccheggi commessi dai soldati «marocchini», termine utilizzato per comprendere i militari nordafricani del Maghreb (marocchini, tunisini e algerini) oltre a senegalesi, ma soprattutto di violenze sessuali che colpirono indifferentemente donne e uomini, giovani e anziani. Fiaccata e demoralizzata dalle pessime condizioni di vita a cui era stata costretta negli ultimi nove mesi e proprio nel momento in cui la liberazione aveva riacceso la speranza per l’inizio di una nuova e migliore vita, ecco che la popolazione locale fu colpita inaspettatamente e su larga scala dalle violenze sessuali. Dell’appetito e delle esigenze sessuali delle truppe coloniali africane sembravano esserne già a conoscenza i comandi militari, quelli tedeschi che avevano invitato la popolazione locale rifugiatasi sui monti Aurunci «ad abbandonare la montagna» per salvarsi dalle violenze, quelli francesi che, fatto unico fra i vari e diversificati schieramenti militari presenti lungo la «linea Gustav», avevano fatto arrivare dal nord Africa delle prostitute arabe, pagate dall’esercito transalpino e definite come femmes de réconfort. Organizzate in Bordel Militaires de Campagne (BMC), ognuno formato da 80 donne, nella primavera del 1944 ce n’erano 320 dislocate nelle vicinanze di Sessa Aurunca, dove era ubicato il quartier generale francese.

In questo volume sulla Diaspora Cassinate più capitoli sono dedicati a una delle pagine più dolorose e vergognose di quella liberazione riservata alla popolazione civile dei monti Aurunci, delle valli dell’Amaseno e del Sacco come «travolte da un uragano». Si tratta delle violenze sessuali perpetrate fin dalle ore successive allo sfondamento della «linea Gustav» e che erano già state precedute da altre avvenute tra la fine del 1943 e il nuovo anno nell’alto casertano e nella zona delle Mainarde (Vallerotonda, S. Elia, campagne di Cervaro) anche se si trattò non di stupri di massa, ma di casi isolati. Invece delle violenze immediatamente successive alla «liberazione» e iniziate proprio nella zona di Polleca, la radura sita sopra Esperia, il «narrator cortese», che non le augurerebbe «nemmeno al peggior nemico», ne ebbe immediata percezione già alla data del 15 maggio, cioè solo quattro giorni dopo l’avvio dell’attacco alleato, testimoniando così la «terribile, incredibile, terrorizzante, imbarazzante, verità: quei soldati strani dalla pelle scura» (di cui aveva fatto “conoscenza” poco prima quando, assieme ad altri amici, era stato intercettato da militari che, gridando ordini imperiosi in una lingua sconosciuta, non esitarono a sparare sui giovani e inermi italiani pur riconoscibili poiché indossavano pantaloni e magliette, ferendolo al torace) «che vestivano un lungo saio a strisce, calzavano strani sandali e portavano un affilatissimo coltellaccio appeso alla cintola, erano i malfamati, feroci stupratori marocchini». Riporta un elenco di vittime dei nordafricani, le vicende di due sorelle e del parroco del paese e «ancora altre tragedie inenarrabili». Un’altra guerra stavano conoscendo quelle popolazioni, con le famiglie e le donne che appena dopo essere state «liberate» si videro costrette a nascondersi nei rifugi e ad adottare stratagemmi come fingersi invalide, ferite, ammalate, deformi per sottrarsi alle violenze. Anche Carlo Baccari nel suo Diario annotò, fin dal 23 maggio, l’orrore provato nei confronti di quelle «bestie umane», come definì le truppe «marocchine», che non si erano fermate nemmeno di fronte a un’anziana signora paralitica e che battevano palmo a palmo il territorio con la scusa di individuare tedeschi nascosti ma in realtà alla ricerca di «signorine». Parallelamente il notaio riporta l’accusa, precisa e diretta, rivolta alle autorità militari francesi che si tiravano dietro quei bruti «pur sapendo cosa andavano facendo!». Uomini lasciati liberi di agire impunemente o che comunque potevano contare su una «complicità omertosa» (come l’ha definita Giovanni De Luna) da parte degli ufficiali francesi, se non addirittura incitati per vendicare la dichiarazione italiana di guerra di quattro anni prima a una Francia già sul punto di capitolare ai tedeschi. Delle violenze compiute dai «marocchini» se ne era avuto immediato riscontro tra le autorità militari e civili italiane, francesi e alleate. Già il 28 maggio una relazione delle forze militari italiane aveva provveduto a informare i comandi superiori. Anche papa Pio XII aveva chiesto a De Gaulle il suo personale intervento. Il sindaco di Esperia, Giovanni Moretti, aveva scritto al comando militare francese per denunciare le violenze delle «truppe marocchine». A fine maggio il gen. Juin subì forti pressioni da parte del comando anglo-americano, sollecitato dal governo italiano, per far cessare le violenze e punire i colpevoli. Nell’arco di qualche settimana il ministero dell’Interno inviò in quei luoghi degli ispettori sanitari che ebbero la possibilità di interrogare il personale sanitario e i medici condotti locali che avevano prestato le prime cure nonché alcune delle donne violentate (molte altre non vollero incontrarli così come avevano rifiutato il ricovero in ospedali come forma di reazione di pudore e di dolore). Secondo le stime redatte dagli ispettori sanitari, i casi di violenza sessuale subite dalle donne furono circa un migliaio, così come non mancarono anche quelli ai danni di uomini e bambini. Già nell’estate 1944, dunque, la Direzione nazionale della Sanità Pubblica aveva preso pienamente coscienza della situazione. Nelle numerose relazioni stilate si fornivano soluzioni da adottare nell’immediato e a più lungo termine prospettando e sollecitando gli interventi da attuare sia in campo sanitario sia sotto forma di risarcimento economico. Tuttavia sulla questione delle «marocchinate» sembrò stendersi, giorno dopo giorno, un velo di silenzio come a volerla allontanare, cancellare dalla memoria. Bisognò attendere il novembre 1946 perché la vicenda esplodesse in Parlamento e nell’opinione pubblica. Ci volle il coraggio dell’avv. Giovanni Moretti che, nel corso di un incontro dei sindaci dei Comuni del Cassinate tenuto a Cassino il 12 novembre 1946, intervenne per denunciare con forza le violenze patite dalla popolazione di Esperia. Le parole deflagrarono nella riunione, ebbero un forte impatto su tutti i sindaci presenti e un «grido elevato di commozione dolorosa» si levò da quel consesso, come scrisse Ezio Antonio Grossi sul giornale «Il Rapido». Fu proprio l’articolo sul resoconto della riunione dei sindaci, in cui veniva riportato l’intervento del sindaco Moretti, che fece da cassa di risonanza riuscendo a porre la questione a livello dell’opinione pubblica nazionale, in quanto suscitò «profonda impressione in tutta Italia», e anche internazionale. Immediatamente la questione fu ripresa da altre testate giornalistiche. Vari «giornali italiani e stranieri» telefonarono alla redazione de «Il Rapido» al fine di avere maggiori informazioni e inviarono loro redattori a Esperia. Fu il caso, ad esempio de «Il Tempo», che inviò un proprio giornalista, Felice Chilanti, nelle zone colpite e che si occupò a più riprese della questione (il 27 novembre, il 30 novembre, il 7 dicembre 1946), così come «Il Messaggero» che pubblicò due articoli il 29 e il 30 novembre, mentre, a livello internazionale, la questione fu ripresa, il 20 dicembre 1946, dal giornale «La Libre Belgique» di Bruxelles. Nel frattempo gli onorevoli Giovanni Persico e Aldo Bozzi avevano provveduto a depositare all’Assemblea Costituente due distinte interrogazioni rivolte al presidente del Consiglio, all’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità e al ministro dell’Interno per conoscere quali provvedimenti il governo intendesse prendere a favore delle donne «marocchinate» sia in termini di risarcimenti con sussidi alle vittime che di erogazione di servizi sanitari specializzati. Oramai il dramma delle violenze sessuali aveva travalicato la ristretta cerchia locale e quella degli uffici ministeriali per giungere in Parlamento e nelle coscienze degli italiani. Nella seduta del 6 febbraio 1947 dell’Assemblea Costituente fu data risposta all’interrogazione dell’on. Persico nella quale si evidenziava l’erogazione «di speciali sussidi a favore delle donne della zona che avevano subito violenza da parte delle truppe marocchine e di colore» per un ammontare complessivo di L. 3.600.000 (probabilmente da intendere come L. 7.600.000) di cui L. 100.000 al Comune di Pontecorvo, L. 500.000 ad altri nove comuni (Castro dei Volsci, Pico, Vallecorsa, Pastena, Amaseno, Ceccano, Esperia, Giuliano di Roma, Villa Santo Stefano), L. 1.000.000 a quello di Campodimele e L. 2.000.000 a quello di Lenola. All’interrogazione posta dall’on. Bozzi rispose l’Alto commissario per l’igiene e la sanità che elencò gli interventi sanitari effettuati e le cure prestate alle donne violentate. A  due nuove interrogazioni depositate in Assemblea Costituente nel 1947, una presentata ancora da Giovanni Persico l’11 marzo e l’altra il 18 aprile successivo dall’on. Giacomo De Palma, avvocato di Frosinone, il governo offrì una risposta che appare identica a quella dell’anno precedente riproponendo l’elenco delle cifre stanziate e dei Comuni beneficiati.

Della questione dei risarcimenti a favore delle «marocchinate» se ne occupò anche Gaetano Di Biasio, nei momenti in cui alla carica di sindaco di Cassino cumulava quella di presidente dell’«Associazione dei Comuni dalle Mainarde al mare». «Anime sorde» definì i funzionari statali che lesinavano «al centesimo» i sussidi per quelle sventurate donne. Nel corso di una riunione presso il ministero degli Esteri, Di Biasio, persa la pazienza, esclamò con la forza della sua voce possente a uno dei suoi collaboratori che lo accompagnava: «andiamocene, queste sono anime sorde!». Allontanatosi sdegnato, «quelle eccellenze lo rincorsero e ciò che non fu fatto in ore di defatiganti chiacchiere si fece in pochi minuti», elevando immediatamente l’importo a venti milioni. I ritardi, gli scarsi stanziamenti, gli insufficienti provvedimenti adottati, il crescente disinteresse della questione a livello nazionale e istituzionale portarono la popolazione locale ad attivarsi, a scendere in piazza e protestare. Una prima manifestazione, sebbene sconsigliata dalle autorità di pubblica sicurezza, si tenne il 16 febbraio 1948 nella piazza del municipio di Pontecorvo cui presero parte, secondo la relazione del prefetto di Frosinone Siragusa, circa 1000 persone. Alcuni dimostranti riuscirono a penetrare nello stesso palazzo comunale per porre ai dirigenti locali la questione degli indennizzi e dell’assistenza sanitaria. Ai manifestanti si aggregarono gli onorevoli Persico e Carboni, sopraggiunti «con strana sollecitudine» scriveva il prefetto, i quali, a suo giudizio, avevano «agito evidentemente dietro le quinte» tenendosi «pronti a intervenire al momento opportuno» e promettendo «ai dimostranti il loro interessamento». Il prefetto sembra dare alla manifestazione una connotazione politica, di scontro pre elettorale in vista delle elezioni del 18 aprile successivo, cioè di una conflittualità generata pretestuosamente dalle forze politiche avverse alla Democrazia Cristiana che attraverso Giulio Andreotti aveva già sollecitato la definizione della questione.

Di ben più ampia levatura fu una sorta di convegno organizzato da Maria Maddalena Rossi, deputata del Pci e presidente dell’Udi (Unione donne italiana), il 14 ottobre 1951 sempre a Pontecorvo. Vi presero parte circa 500 donne in rappresentanza delle 60000 vittime della violenza sessuale che, in quella domenica mattina nel cinema di Pontecorvo, per la prima volta parlarono pubblicamente delle violenze subite, senza più vergognarsi. Quindi seguì l’interpellanza della stessa parlamentare alla Camera dei Deputati il 7 aprile 1952. I due fatti furono seguiti da gran parte della stampa nazionale (l’«Avanti», «l’Unità», «Paese Sera», periodici come «Crimen»).

Per le martoriate popolazioni del Cassinate la liberazione non coincise con la fine delle sofferenze. Nell’immediato dopoguerra convissero ancora per anni con miseria, fame, scarsità di alloggi e di materiali edilizi per la ricostruzione, presenza di residuati bellici inesplosi, carenza di strutture sanitarie e di assistenza medica (ospedali, medicine, personale medico e infermieristico), pessime condizioni sanitarie e igieniche. Ad esempio allora si “combatté” l’«altra battaglia di Cassino» come è stata definita la campagna contro l’eccezionale epidemia di malaria che colpì il Lazio meridionale in quegli anni e che fu favorita dal dissesto idro-geologico del territorio, dagli allagamenti, dai bombardamenti, dalla mancanza di specifici medicinali ecc. La strategia antimalarica messa in atto dal prof. Alberto Coluzzi ebbe proprio in Esperia il centro di irraggiamento da cui partivano le squadre per i paesi delle valli del Liri e del Rapido che provvedevano alla disinfestazione con l’utilizzo di DDT, suscitando, per l’efficacia con cui fu condotta, oltretutto in tempi relativamente brevi, l’interesse dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che tentò di replicarla in varie altre parti del mondo.

In quel contesto il quadro economico-sociale e morale appariva drammatico. Una lettera inviata da alcuni «cittadini del comune di Esperia», conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gab. 44-46, b. 28, f. 2207, indirizzata al presidente del Consiglio all’inizio del 1945, può assurgere a stregua di manifesto-denuncia che nella sua brevità e laconicità, fotografando gli eventi del passato recente e del difficile presente non scevro di soprusi, delinea perfettamente la disperata condizione in cui erano costrette a vivere migliaia di persone:

Facendo propria una felice intuizione di Gaetano Di Biasio, il primo sindaco della ricostruzione, Cassino si è potuta fregiare del titolo di «città martire». Tuttavia tutte quelle persone che hanno vissuto la drammatica esperienza bellica nel corso dei nove mesi in cui il fronte ha sostato nel Lazio meridionale possono essere considerati come martiri nel senso etimologico del termine, quello di martýrion che significa testimonianza, cioè di chi ha testimoniato con la propria morte o le sofferenze subite le brutalità della guerra.

Il Centro Documentazione e Studi Cassinati, nel settantennale dalle drammatiche vicende vissute a cavallo tra il 1943 e il 1944, ha inteso aderire con piacere e convinzione al progetto editoriale che ha portato alla stampa de La diaspora Cassinate nell’ambito della quale sono stati raccolti i ricordi, raccontati in modo lucido, senza fronzoli e senza indulgere nella ricerca di una facile commiserazione e compassione, di un testimone-protagonista di quel tempo.

Gaetano de Angelis-Curtis

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