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Studi Cassinati, anno 2017, n. 2
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di Fabiana Di Fazio
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Nel Museo della città di Aquino in provincia di Frosinone, tra le preziose testimonianze culturali, tangibili segni di identità del territorio, è conservato anche il «sarcofago delle quadrighe», del quale ci si accinge ad approfondire le vicissitudini che lo hanno interessato e che hanno fatto sì che esso salisse alla ribalta delle cronache internazionali1.
Attraverso la suggestiva discorsività elaborata dalla archeologa Elisa Canetri e ricondotta nell’opera Capolavori dell’archeologia. Recuperi, ritrovamenti, confronti. Catalogo della mostra tenutasi a Roma dal 21 maggio al 5 novembre 2013, è sapientemente valorizzata ogni peculiarità di questo rilevante bene artistico in marmo giallo, scolpito a rilievo, così descritto:
«Da sinistra verso destra si svolge la gara: quattro quadrighe s’inseguono lungo il circuito. Gli aurighi indossano una tunica corta a maniche lunghe; sul torace un corsetto aderente; pantaloni; un casco a calotta tonda. Nella mano destra tengono il frustino; nella sinistra le redini, che girano anche intorno alla vita. I cavalli, con briglie, finimenti, criniera ordinata e coda annodata, sono rappresentati in posa rampante per l’impeto della corsa. I carri sono di piccole dimensioni. Quattro sparsores sono impegnati, uno sotto ogni tiro, a rinfrescare i cavalli con lanci di acqua da vari tipi di contenitori e tali inservienti appaiono quasi distesi o in ginocchio sotto gli zoccoli dei cavalli, come travolti nel corso dell’ardua e pericolosa impresa. Lo sparsor a destra della scena è particolarmente caratterizzato nella fisionomia. Sullo sfondo della scena si individuano alcuni monumenti tipici della spina del Circo Massimo: alle due estremità le tre metae o coni, marcatori del giro di pista. Tra le metae si vedono, da sinistra verso destra, le seguenti strutture: un edificio a colonne lisce, con capitelli dorici e frontone decorato; una costruzione a colonna, con capitelli dorici e architrave modanato, sormontato da quattro delfini contagiri, e una seconda costruzione con colonne tortili e capitelli dorici, sul cui architrave modanato sono sette uova, anch’esse contagiri; un’edicola circolare con colonne scanalate e rudentate e con capitelli corinzi, cupola a spicchi con cornice ad elementi circolari alla base e con lanterna al vertice; un obelisco coronato da un oggetto sferico; un edificio a colonne lisce, con capitelli dorici, frontone figurato e acroteri; una costruzione con sette uova/contagiri, su colonne scanalate e rudentate, con capitelli corinzi; una statua alata della Vittoria stante, con corona nella mano destra sollevata e ramo di palma nella sinistra; un altro edificio, con porta con ante a rombo centrale, a colonne lisce, con capitelli corinzi, frontone a timpano, decorato con sagome di animali anguipedi e acroteri, sormontato da una sagoma poco leggibile. Il sarcofago aquinate rientra in un numero molto ristretto di esemplari con rappresentazione realistica di corsa delle quadrighe, destinata alla sepoltura di un adulto. La scelta iconografica potrebbe essere stata dettata da motivi di “autorappresentazione” del committente e/o defunto, ma certamente è influenzata da motivi metaforici e legati al simbolismo funerario. Iconografia, stile e uso limitato del trapano, rimandano almeno alla fine del III d.C. Elementi tettonici e decorativi consentono di attribuire il manufatto ad uno stile artistico delle officine di Roma, ma destinato a contenere le spoglie di un illustre personaggio aquinate, forse appartenente ad una delle più importanti famiglie senatorie o equestri, attestate dalle iscrizioni di Aquino fino almeno al III secolo»2.
Le prime notizie riguardanti il sarcofago si attestano attorno alla fine della seconda guerra mondiale quando, cioè, il parroco di Aquino, don Battista Colafrancesco3, data l’evidente mancanza di risorse risultante quale conseguenza del perdurarsi della guerra e dei bombardamenti, decide di utilizzare il sarcofago come altare della chiesa della Madonna della Libera. Ecco, dunque, che la chiesa ebbe il suo bellissimo altare, posto su altrettanti considerevolmente belli leoni in marmo, e al di sopra venne posta una lastra anche essa di marmo.
Senonché, nel 1990, approfittando del trambusto generato da lavori di ristrutturazione previsti appositamente per la chiesa, il sarcofago venne trafugato una prima volta, ma le autorità riuscirono prontamente a recuperarlo. Nel 1991 il sarcofago, assieme ai due leoni che lo sostenevano nella sua configurazione di altare, fu oggetto di un nuovo trafugamento e, sfortunatamente, di esso si finì col perdere le notizie.
Solo nel 2011, a distanza di venti anni da quel trafugamento, emerse, in seguito a ricerche brillantemente condotte a livello internazionale dagli agenti del «Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico» della Guardia di Finanza, come l’altare implementasse la collezione inglese di un antiquities art dealer di fama mondiale, di cui, solo successivamente alla chiusura delle indagini, è stata compresa l’identità: Robert Hecht, già in passato responsabile di gravi reati concretizzatisi nel traffico illecito di beni culturali. Alla morte del de cuius, l’attività condotta dal comandante Massimo Rossi, coadiuvato dalla valente collaborazione dell’avvocato dello Stato Maurizio Fiorillo, ha reso possibile il recupero del sarcofago, ampiamente conteso.
La vicenda del recupero offre uno spunto interessante per riflettere più approfonditamente sulla normativa dettata dalle norme di diritto comunitario e di diritto internazionale in materia di restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio italiano.
L’esecutore testamentario, al quale venne affidata la funzione di provvedere all’amministrazione del patrimonio facente capo al signor Hecht, si occupò di destinare il sarcofago alle autorità e ai cittadini italiani, innescando così l’attivazione di un meccanismo di restituzione spontanea rispetto al quale l’ereditando aveva manifestato il proprio consenso. Il tutto in virtù di un accordo nel quale si è specificato che il nome del donatore non venisse svelato.
Ci si chiede quali atti aventi natura giuridica (e dotati di un carattere di vincolatività e obbligatorietà) siano stati invocati dalle autorità italiane per avanzare ed evidenziare la legittimità stante dinanzi alla volontà di recuperare il sarcofago.
Nell’ambito del diritto internazionale, l’interesse alla salvaguardia del patrimonio culturale venne a maturarsi nel corso delle guerre mondiali, animate da continue depredazioni dei beni culturali. Una volta che il patrimonio culturale venne, finalmente, considerato meritevole di tutela, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (quale organo preminente nella storia e nell’evoluzione dello Ius Gentium) ha adottato una serie di Convenzioni volte a promuovere l’identità del patrimonio culturale quale strumento di pace e comunicazione tra i popoli, forte dell’istituzione dell’Unesco quale presenza specializzante per l’educazione, la scienza e la cultura. Fu così che, nel 1970, venne alla luce la Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali4. La Convenzione è elaborata al fine di patrocinare e caldeggiare un proficuo clima di collaborazione tra Stati; per questo motivo nell’azione di recupero e restituzione dei beni culturali vengono individuati obblighi a carico sia dello Stato richiedente che dello Stato richiesto tramite canali diplomatici. Lo Stato richiedente è tenuto, di fatti, non solo ad affrontare economicamente tutte le spese e gli oneri con i quali avanzare le indagini di accertamento del diritto violato e con i quali procedere, in caso di esito favorevole, alla reintroduzione del bene culturale in patria, ma anche a dimostrare in modo chiaro, preciso ed esaustivo il fondamento della propria pretesa. Ma, nel favorire un ampio spazio di esecutività a tutti gli Stati aderenti, la Convenzione richiama l’attenzione esclusivamente tramite obblighi di portata generale e non fornisce una soluzione a questioni di carattere pratico poste in essere dal diritto internazionale privato5.
Per quel che concerne il diritto comunitario dotato di vincolatività, è opportuno far riferimento, rispetto a questa circostanza, alla direttiva 93/7/CEE del Consiglio. Nell’ambito del diritto amministrativo europeo, per potersi parlare effettivamente di restituzione, è fondamentale che del bene in questione: 1) sia stato appurato il valore culturale di connotazione; e che 2) si dimostri che sia stato oggetto di “uscita illecita dal territorio di uno Stato membro”. Conseguentemente, deve venire in rilievo una violazione di quanto stabilito in seno all’ordinamento giuridico interno dello Stato interessato oppure in seno al Regolamento CEE 3911/92 del Consiglio. La direttiva 93/7/CEE6 del Consiglio, adottata nel 1993, prevedeva che l’operazione di restituzione possa riferirsi esclusivamente a vicende verificatisi a partire dal 1° gennaio 1993. Sorge spontaneo il quesito: «Possono le norme richiamate dalla direttiva riferirsi a vicende avvenute antecedentemente a tale data e, quindi, essere punto di riferimento rispetto alla reintroduzione in suolo italiano del “Sarcofago delle Quadrighe”?». La risposta è di natura affermativa. Nell’adottare la direttiva in questione, un ampio margine di operatività è stato affidato agli Stati membri, depositari di una missione di tutela del patrimonio culturale in virtù della quale è consentito loro agire in questa direzione.
L’estrema abilità evidenziata dall’intero Comando Guardia di Finanza è stata funzionale rispetto al conseguimento dell’obiettivo, conducendo al superamento di credenziali ritenute di ostacolo alla restituzione del sarcofago: motivo di contrasto e divergenza si riteneva fossero le misure e il materiale impiegato nella realizzazione dell’opera, differenti da quelle riportate nei documenti allegati all’opera. Va notato infatti che, ai sensi della direttiva comunitaria delineata, nel primo processo, avente natura amministrativa, nel quale si consolida la restituzione, lo Stato rivendicante diritti rispetto ad un bene individuato nel territorio di un altro Stato, è tenuto (trattasi di un vero e proprio obbligo) ad allegare documenti validi, da cui risultino attestazioni veritiere e precise. Questa prima fase è l’unica che viene necessariamente a realizzarsi. La seconda, di carattere giudiziario, può mancare qualora ci si avvalga di mezzi differenti, quali ad esempio quelli ricondotti nell’alveo del diritto internazionale, come i canali diplomatici. Di questi ultimi le autorità italiane hanno deciso di avvalersi per ottenere la restituzione del Sarcofago delle Quadrighe, nel momento in cui hanno agito ponendo in essere una relazione con l’ambasciata italiana di Londra, soggetto giuridicamente rilevante il cui compito è stato certamente rilevante nella trattativa tra i due Stati interessati.
L’avvocato di Stato Maurizio Fiorilli, in un’intervista rilasciata alla testata «L’Espresso», discorrendo in merito al recupero di opere trafugate illecitamente, ha evidenziato in modo eccelso le arduità che si individuano nel rivendicare la proprietà di beni provenienti dal territorio italico e tali ragionamenti, in questo caso rapportati a musei, sono da disaminare validi anche in riferimento a patrimoni privati: «[…] Le restituzioni […] sono il risultato di un paziente e sapiente lavoro di “diplomazia culturale”. […]». È stata una sfida di dossier, contro-dossier, rapporti, analisi, descrizioni, lunghi carteggi al vetriolo con acquirenti che negavano ogni responsabilità e complicati incontri vis à vis per convincere collezionisti e istituzioni a restituire il maltolto: «I direttori dei musei fanno sempre un discorso di proprietà: è mio, ripetono, è provato, guardi quanto l’ho pagato». Spiega Fiorilli: «Noi facciamo invece un discorso di cultura. Quei musei rischiano di essere enormi supermercati di opere “belle”, ma completamente decontestualizzate; con le quali non si entra in una cultura, non si arriva a capire una civiltà, come avviene invece quando le testimonianze restano vicine al luogo del ritrovamento. Quei pezzi, esposti in quel modo, non sono altro che cadaveri. Oltre che spesso ambasciatori di furti»7.
Il recupero del «sarcofago delle quadrighe», quale compimento di un’operazione impegnativa ma coronata da successo, è stato celebrato il 19 luglio 2012 nella chiesa sconsacrata di Santa Marta al Collegio Romano. All’evento presenziarono, oltre alle forze dell’ordine direttamente coinvolte nella qualificata impresa, autorità di spicco come Marina Sapelli Ragni, allora soprintendente per i Beni Archeologici del Lazio, l’architetto Roberto Cecchi, sottosegretario di Stato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nonché il sindaco della città di Aquino, Antonino Grincia.
La storia è sempre fonte di insegnamenti preziosi che debbono essere tenuti a mente e avvalorati. Violare, lacerare il patrimonio culturale equivale a violare le nostre origini. «Fattori determinanti di questa nostra identità italiana sono la lingua e la cultura, il patrimonio storico-artistico e storico-naturale: bisognerebbe non dimenticarsene mai»8.
NOTE
- «Studi Cassinati» si era già occupato della vicenda con l’articolo di C. Jadecola, Il sarcofago di Aquino è tornato a casa, «Studi Cassinati», a. XII, n. 3, luglio-settembre 2012, pp. 202-205.
- AA.VV., Capolavori dell’archeologia. Recuperi, Ritrovamenti, Confronti. Catalogo della mostra (Roma, 21 maggio – 5 novembre 2013), Gangemi Editore, Roma 2013.
- Sulla figura del «sacerdote, educatore, uomo di cultura» (1911-2002), cfr. C. Jadecola, Don Battista, parroco di Aquino. A dieci anni dalla scomparsa, «Studi Cassinati», a. XII, n. 3, luglio-settembre 2012, pp. 251-254.
- Convenzione successivamente ratificata dall’Italia con la legge 873 del 1975.
- Per questo motivo, l’Unesco si affidò all’Unidroit, l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato, affinché quest’ultimo elaborasse un atto con il quale ovviare alle carenze proprie della Convenzione di Parigi. Tra le caratteristiche vincenti della Convenzione Unidroit sui beni culturali rubati o illecitamente esportati, entrata in vigore il 1° luglio 1998, vi è certamente l’abilità nell’avanzare il superamento di ostacoli nella direzione della restituzione di beni trafugati illecitamente, quali possono essere il principio della lex rei sitae e l’acquisto a non domino. In ciò la Convenzione vuole indurre ad adottare quale criterio di valutazione il complesso di norme vigenti nel territorio di appartenenza del bene oggetto della controversia. Inoltre, non bisogna sottovalutare la sua portata di atto giuridico self-executing. A differenza della Convenzione Unesco, essa viene immediatamente ad avere efficacia in quegli Stati che hanno provveduto alla sua ratifica. Inoltre garantisce una più fruttuosa protezione dell’identità culturale, perché ritiene meritevole di tutela ogni bene culturale rispetto al quale viene dimostrato come la sua esportazione rechi «particolare pregiudizio a determinati interessi culturali e scientifici». La Convenzione si propone come strumento di risoluzione delle controversie, nel momento in cui si prefigge il raggiungimento di un focus nobile quale quello di porre l’etica e la morale come valori da rispettare nel sistema di gestione del patrimonio culturale, configurandosi come mezzo di armonizzazione volto ad appianare le divergenze tra ordinamenti giuridici differenti. Essendo non retroattiva, di essa non ci si poté avvalere nello scioglimento delle complicazioni sorte in merito al sarcofago aquinate.
- La direttiva della Comunità Economica Europea 93/7/CEE è stata successivamente oggetto di modifica e ricondotta nell’alveo della Direttiva 2014/60/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014.
- F. Sironi, Il cacciatore dei tesori perduti, intervista all’avvocato di Stato Maurizio Fiorilli, 11 febbraio 2014, in http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/02/06/news/il-cacciatore-dei-tesori-perduti-1.151557?refresh_ce.
- Dal discorso celebrativo del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dinanzi al Parlamento, per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
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