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Studi Cassinati, anno 2017, n. 3
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di Giovanni Patrucci*
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Sabato, 11 dicembre
Sono circa le sei. La frazione di Valleluce è immersa in un silenzio di tomba nel sonno delle ultime ore della notte.
Un gallo saluta e disubbidiente dà la sveglia dal campo, un altro gli fa eco dal pollaio di Ciccopeppe. Sono canti isolati, restii agli ordini, ai tentativi di ammaestramento e vengono subito ingoiati dalle tenebre ovattate dei vicoli. Se avvicini l’orecchio con tutta la cautela di questo mondo alla porta di una stalla, non riesci a sentire il respiro di un animale. Il pericolo ha aguzzato l’ingegno di cui i valligiani hanno in abbondanza. Le cioce ai piedi e la mente acuta. Quando le papere vogliono starnazzare, come sono solite, Errico le sa zittire con chicchi di granoturco nella mano e riesce a comunicare loro le sue ingiunzioni. Dicono che una mattina, mentre i Tedeschi rastrellavano gli uomini per costruire le piazzuole su a Cifalco, riuscì nell’ardua impresa con alcune di esse e con una scrofa impertinente, che sbatteva lestamente il grugno or di qua or di là come per dire di no a dispetto, insensibile alle voci affettuose di preghiera, mentre gli scarponi da cacciatore scricchiolavano sulla scala di legno.
In genere le pecore non belano, gli asini non ragliano, i maiali non grugniscono, i galli non annunciano la giornata che sorge. I Valleluciani hanno portato poi i buoi in luoghi isolati e appartati, dove è imprudente avventurarsi anche per il Tedesco più ardito. Si devono salvare per quando si tornerà a lavorare in pace; altrimenti come si potrà arare la terra?
Sul caldo del cuscino Cola ripete alla moglie l’itinerario della giornata per sfuggire alle retate:
– Io arrivo a Cese con Nanduccio, Peppe e zi’ Bitto. Dalla quercia grande che domina la valle possiamo scrutare chi arriva. Tu non stare in pensiero! Ci rivedremo questa sera.
Tende nel frattempo l’orecchio a sentire se tirano la funicella per avvertire che è il momento d’andare.
In camere vicine si sussurrano gli stessi discorsi, si ripetono le stesse raccomandazioni; ma per le «strette» di un metro di larghezza non si sente nulla. Le case, le une addossate alle altre, riposano con le finestre chiuse.
Tonino, credendo che sia tardi, si lava il viso bagnandoselo appena, come il gatto, con le mani immerse nell’acqua gelata del bacile posto sull’alto treppiedi dietro alla porta; non si pettina nemmeno i riccioli d’oro ed esce.
È un ragazzo più basso di me, col viso tondeggiante, gli occhi azzurri, il naso a patatina all’insù, dalle larghe narici. Il sorriso aperto e chiassoso, con la fossetta che gli si forma sul mento, gli cattiva l’amicizia dei coetanei e degli adulti. È un simpatico monello. Guai a dargli fastidio! Quando gli amici più grandi lo stuzzicano, si difende in tutti i modi, ricorrendo anche alle sassate. Al primo tiro riesce a colpire un barattolo poggiato sul muretto a venti metri di distanza.
Con il bottiglione del latte nella sinistra corre e, per darsi coraggio e farsi compagnia nelle tenebre ancora fitte, fischia allegramente, cadenzando il passo sul motivo della canzone che gli ricorda il padre lontano, forse prigioniero:
Caro papà, / Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra, /
Con fede, con amore e disciplina, / Desidero che frutti la mia terra
E curo l’orticello ogni mattina. / E prego Iddio
Che vegli su di te, babbuccio mio
In piazza Chiesa vede un soldato con l’elmetto calato sugli occhi e il mauser 98 ad armacollo. Alzando la destra, saluta romanamente, aggiungendo:
– Buongiorno, camerata.
– Guten tag! il Tedesco risponde; percorsi pochi passi, si ferma, fischia tre volte e grida:
– Soldatenkompagnie, muss man austehen, es ist Zeit aus Gebirge zu gehen.
Quindi gira a sinistra, rivolge lo sguardo verso vicolo Ciociaria e replica con la sua voce metallica la frase di comando:
– Soldatenkompagnie, wacket auf, es ist Zeit zur Arbeit gehen.
Esegue il dietro front con un risonante schiocco di tacchi e procede rapido verso piazza Fontana; anche qui alza il volto in direzione delle finestre chiuse:
– Soldatenkompagnie, wacket auf, schnell, es ist Zeit zur Arbeit gehen.
Ormai è fuori del borgo; si aggira sotto le case isolate e limita l’uso delle parole:
– Kompagnie, aufstehen, Kameraden aufwiederschen.
Ripercorre a ritroso tutto il cammino, sillabando queste ultime:
– Kompanie, aufstehen, aufwiederschen.
Il ragazzetto le afferra, le sostituisce alla canzone, ripetendole prima mentalmente, poi ad alta voce, e salta fra i sassi di via Campo. Arrivato alla porta di Nilo Di Cicco, si ferma, cambia la bottiglia vuota con la piena e ripete, prova a ripetere:
– Kompanie, aufstehen …
L’uomo già sveglio e con i piedi pronti a scappare verso il bosco, resta sorpreso e senza fiato nel petto; esamina nel complesso la situazione, soppesa il pericolo per sé e per gli altri e risponde lesto:
– Vengo subito, camerata; vengo subito!
Tonino capisce …, sorride e si allontana senza esitare.
Al ritorno assiste ad una vera operazione militare: giungono soldati già pronti, prendono il latte nel gavettino e consumano la colazione in piedi; poi si mettono in fila per due e si avviano tutti per il vicolo con la stradetta che sale verso monte Cifalco, coprendo col passo cadenzato il comando del caporale:
– Ein zwei; ein zwein …
Il biondino il giorno ripensa al fatto e lo racconta con ogni particolare agli amici Fernando, Elio, Enrico e al fratello. Si procura un fischietto e si esercita a ripetere sveltamente la frase imparata.
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Domenica, 12 dicembre
La mattina Tonino è sveglio più presto del solito, alle cinque. Si prepara e in due salti è nella piazza col suo piccolo strumento tra le labbra. Qualche stella brilla smorta nell’oscurità del cielo e una lama ricurva di luna crescente manda giù di quando in quando un tenue barlume. Questa volta è contento più del solito; e sceglie una canzone intonata all’impresa, quella che il sabato fascista faceva marciare i ragazzi col petto in fuori, allegramente, al Campo Sportivo e alimentava sogni di conquiste:
Temprata da mille passioni / la voce d’Italia squillò!
“Centurie, coorti, legioni /in piedi ché l’ora suonò!”
Avanti gioventù! / Ogni vincolo, ogni ostacolo / superiamo!
Spezziam la schiavitù / Che ci soffoca / prigionieri del nostro mar!
Vincere! Vincere! Vincere! / E vinceremo in cielo in terra in mare!
È la parola d’ordine / d’una suprema volontà / Vincere! Vincere! Vincere!
ad ogni costo! nulla ci fermerà! / I nostri cuori esultano / nell’ansia di obbedir
Le nostre labbra giurano: / o vincere o morir!
Elmetto, pugnale, moschetto: / a passo romano si va!
La fiamma che brucia nel petto / ci sprona, ci guida, si va!
Avanti! Si oserà / l’inosabile! / L’inesorabile, l’impossibile / non esiste!
La nostra volontà / è invincibile!
Mai nessuno ci piegherà! / Vincere! Vincere! Vincere!
Poi sibila e grida con quanta voce ha in gola:
– Kompanie, aufstehen, aufwiederschen …
Si avvia quindi verso il lavatoio; percorre il rettilineo fin sotto l’altura dei Mandroni. Qui si ferma e ripete l’avviso frettolosamente: le gambe gli tremano anche perché si è allontanato di parecchio. Torna indietro di corsa; alla fontana è più sicuro e disinvolto: il fischio prolungato e pulito, le parole chiare e ben aspirate. Ormai è certo che l’imbroglio andrà bene; ha ragione: infatti chi è in grado di proporre sottili questioni di ortoepia nel destarsi?
Mentre si precipita da Nilo sottraendosi al pericolo di essere scoperto, i Tedeschi si svegliano di soprassalto all’ultima ora di sonno, la più gustosa e ristoratrice. Mezzo nudi, con le cinture pendenti e le bretelle calate, ma con il mauser 98 stretto in pugno, si riversano sotto la torre dell’orologio. Ognuno desidera conoscere la causa della sveglia improvvisa e chiede spiegazione al camerata. Che sarà stato?
Il capitano non ne sa nulla; si sente qualche imprecazione, poi un colpo improvviso sibila di lato alla campanella: un sassolino, di rimbalzo, la percuote, producendo un tintinnio argentino.
Avranno provato l’efficienza dell’arma. Infine tutto viene riassorbito nella calma.
Intanto la compagnia è al completo; i soldati girano di qua, di là, battono i piedi a terra per riscaldarsi, in attesa delle disposizioni: sembra che marcino in ordine sparso, come facevamo noi alle «istruzioni» del sabato. Oltre tutto pioviggina e l’acqua infastidisce. Tonino non li ha mai visti così disordinati, simili a pecore: se la ride di cuore dietro alla finestra, insieme col fratello Enzo. Passano pochi aerei diretti verso Sud, verso Cassino che ribolle come la polenta nella pentola; continua l’azione delle artiglierie.
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Lunedì, 13 dicembre
Il ragazzo questa mattina tenta lo scherzo più presto ancora e comincia dalla parte alta del caseggiato; e mette così in allarme col suo fischio chi è di sentinella.
Con due salti è all’ingresso della piazza, sotto la lapide dei caduti della Grande Guerra Mondiale. Sorride di cuore e pregusta la scena cui assisteranno tutti gli amici che ha avvertito la sera precedente. L’acuto va bene, ma sta per scandire la frase, quando un soldato tutto di ferro, impugnando il mitra con ambo le mani, proteso a scoprire chi osa attentare all’ordine dell’esercito del Fürer, gli si para davanti e gli vomita alcune incomprensibili parole soffiate dalla gola.
Tonino si ferma quando sente:
– Alt… Kaputt…
Alza le mani, lasciando cadere il bottiglione dalla destra, rimanendo pietrificato dallo spavento e grida con quanta voce aveva preparato per altro scopo:
– Mamma, mammina, mi uccidono! Sono dieci e io sono solo!
Il lieve scoppio del vetro, ingigantito dall’eco nel silenzio dell’alba, richiama i camerati sul posto, che spianano biecamente il fucile. Tra questi viene fuori Otto, un giovanottone che, incurante del pianto e delle lacrime, si carica in spalla il frugoletto scalciante come un puledro. Anche gli altri comprendono che causa di tutto lo scompiglio è lui; ridono allegramente e lo accarezzano persino. Poi lo portano al deposito e gli danno da mangiare pane nero e marmellata e stringono un patto: Tonino ogni mattina provvederà alla sveglia e per compenso avrà mezza pagnotta e un po’ di companatico.
I Tedeschi hanno adibito il locale situato a lato sinistro della Chiesa a deposito di viveri, di munizioni di sigarette, anche di quelle del monopolio italiano, «Popolari», «Indigene», «Tre Stelle», «Macedonia».
È sempre con la porta spalancata, ma sorvegliato da un soldato, anche se disarmato. Per lo più vi si aggira Otto, che deve piegarsi per entrare. Questi ha le mani lisce: forse era uno studente e non aduso ai lavori con il piccone e la pala.
Il soldatone incute timore a tutti e ne è consapevole, perciò desidera fare amicizia e saluta per primo ogni passante. È un bravo figlio, amante della musica e non delle armi; dietro alla porta su una sedia è poggiato il suo violino con il quale trascorre i suoi pomeriggi.
Le persone però non si fidano di lui e del suo sorriso, rispondono con un’alzata di mano e camminano alla svelta e senza voltarsi. Negli scaffali del deposito, o “saletta”, così viene comunemente chiamata dai Valleluciani, si scorge ogni ben di Dio e tutti invidiano Tonino che ormai ne è divenuto il vice re. Ma anche lui non può toccare nulla e, soffrendo la fame come tutti gli sfollati, rimane con gli occhi sbarrati e l’acquolina che gli scorre simile al Rapido nella gola.
Riceve, secondo gli accordi, la parte di pane nero e a volte qualche scatoletta o un pezzetto di formaggio. Impara da Otto un motivetto orecchiabile che lo tiene sempre allegro e va ripetendo in casa, suscitando le ire di Enzo. È contento dell’incarico, gli rende bene anche per un altro motivo: ogni giorno riesce a raccogliere una ventina di mozziconi di sigarette. Opera sveltamente per evitare che le scarpe chiodate dei camerati li spiaccichino; una volta ne riempì quasi una tasca dei calzoni: erano trentadue.
Tornando a casa porta tanta allegrezza al fratello, che può così aspirare tabacco vero.
A Valleluce, come in ogni località si utilizzano per lo più foglie di noce scelte accuratamente, lavate ed essiccate su pietre infocate; per le cartine si ricorre alle parti più interne dei cartocci del granturco. Ma, nonostante tutti gli accorgimenti adottati, causano una tosse convulsa e certe persone mostrano gli occhi di fuori e rossi per lo sforzo; inoltre fanno una lunga fiamma all’estremità.
Enzo è divenuto incontentabile e pretende dal piccolo un pacchetto di sigarette, sigarette vere; la sorella Eva poi gli suggerisce di chiedere il sale e la mamma esige un pane intero. Ma le vicende cominciano ad andare male anche per le cicche. Un bel giorno Arnaldo Pacitto nota anche lui i mozziconi che a volte volano lontano, lanciati abilmente dai giovani armati; ne raccoglie alcuni e va via.
Poi interviene il fratello Antonio; poi ancora Elio La Marra, Mimì Di Iorio e altri ancora. Questi, fingendo di giocare con un pallone fatto di stracci stretti accuratamente, sbirciano il fumo e la lunghezza delle sigarette pendenti dalle labbra dei camerati.
Così al povero Tonino resta poco o niente: è una vera iattura!
Quando torna a casa con le tasche vuote, Enzo lo rimproverava e lo fa piangere:
– Non sei buono a nulla. Ti fai fregare da quelli più fessi di te! Non sei capace di portare una sigaretta vera e di farmi rifare la bocca!
Se non che Otto da giorni ha osservato i suoi scatti improvvisi, si è reso conto delle necessità; forse ha compreso che a casa il padre (ma questi è prigioniero forse in India) aspetta le sigarette.
Un giorno, un felice giorno, gli dà un pacchetto di «Serraglio»!
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Venerdì, 7 gennaio
Arnaldo, Tonino, Elio mi raccontano tanti fatti che accadono a Valleluce: di Pippione, degli avanzi che vanno a prendere alla cucina dei Tedeschi che questi distribuiscono volentieri, della paura che provano quando sentono sparare, delle imprese di Sistuccio e di altri ancora.
Ha fame Tonino; hanno fame tutti a Valleluce. Le limitate risorse della frazione e il buon cuore dei Valligiani non possono bastare per gli sfollati che qui si sono addensati da ogni dove, da Cassino, persino da Teano.
Essa si legge dai chiari segni che ciascuno porta impressi nel viso; l’esperto è in grado di capire che cosa in genere l’interlocutore trova a pranzo o a cena e dagli atteggiamenti e dal nervosismo sa addirittura intuire da quanto tempo ha ingoiato l’ultimo boccone. Sono scomparse le pance; i seni si sono afflosciati e cadono giù senza vitalità; la pelle si è rinsecchita ed è segnata da tante rughe sia sul volto dei giovani, sia su quello degli anziani; gli abiti sono larghi e pendenti; tutti camminano lentamente e senza energia.
A Tonino danno fastidio certi discorsi di Fernando, il suo coetaneo di undici anni; questi rimarca le parole più grasse, si sofferma su particolari che trasmettono trafitture allo stomaco:
– Oggi ho mangiato l’uovo col pane mischiato! Mia sorella mi ha dato metà della sua fetta e sono pieno! Senti, senti come sono gonfio! Mamma ha promesso che domani preparerà le tagliatelle con i ceci.
Un giorno ha persino il cattivo gusto di riferire che hanno cucinato un pollo:
– Era saporito! A me è toccata solo un’aluccia, ma ho avuto tante patate: erano squisite, specialmente quelle croccanti, incurvate e rimaste attaccate al tegame. Veramente mamma lo aveva visto con la testa penzoloni ed allora, prima che morisse, gli ha torto il collo. Era buono lo stesso; d’altra parte solo io sapevo della malattia, se malattia era.
– Vammi a prendere una fetta di pane, soggiunge l’amico.
– Domani te la porto.
E la promessa, accompagnata da mille giuramenti sui Santi, si ripete uguale ogni pomeriggio. Il fatto che maggiormente angustia Tonino è sapere che Fernando a casa è fornito di ogni ben di Dio. Il padre gestiva un negozio di generi alimentari e avevano portato tutto in salvo a Valleluce. Si dice che a qualcuno hanno dato, previo pagamento e senza bollino della tessera annonaria, zucchero e riso.
– Vammi a prendere una fetta di pane mischiato, ché ho fame!
– Domani te la porto.
Il pomeriggio è freddo; i raggi di sole, però, che scendono allegri dal cielo pulito, riscaldano un pochino. Stormi di fortezze volanti solcano lentamente l’azzurro dirette verso la valle, che bombardano a varie riprese. Del cannoneggiamento giunge l’eco prolungata.
Tonino questa volta si decide e parla, o meglio si fa capire per mezzo di larghe alzate di mano e precise imitazioni del verso della gallina, dal suo amico Otto; al suo servizio egli si era posto da quando fischiava per la sveglia lungo le stradette del paesello.
Partono dal deposito di piazza Chiesa e il soldato finge di andare a spasso, piuttosto che in missione. Arrivati sotto la porta della casa di Fernando, Tonino strizza l’occhio al camerata e questi bussa violentemente con un paio di calci.
Viene ad aprire donna Filumena, la quale, nel vedere un santantonio alto, con l’elmetto in capo e il fucile in spalla, come tante volte aveva sentito raccontare, sbianca in viso; ma si dà coraggio, perché sente alla spalle il passo dei figli piccoli:
– Buona sera, Hitler! Voi volere?
– Buona sera, mama! Io volere un coccodè.
La Signora, volgendosi al piccolo e parlando in fretta gli ingiunge con accento preoccupato ed imperioso, che non ammette spiegazioni:
– Ferna’, va a prendere un uovo. Sbrigati, ché se il camerata si arrabbia, siamo fritti!
E Tonino, alquanto discosto, udendo ogni parola, sorride tra sé, ammiccando al soldato.
L’uovo viene portato immediatamente e messo nella destra del biondo. Questi lo restituisce e, allungando la
mano in segno di minaccia e sorridendo, aggiunge con tono arcigno di voce:
– Mamà buona, Otto buono e un coccodè; mamà cattiva, Otto cattivo e due coccodè!
Fernando capisce perfettamente; allora, prima che la madre continui il discorso che può divenire da un momento all’altro burrascoso, chiama Giustino, il fratello più grande, lo informa e chiede parere; scende nell’orto, afferra una papera che si trova subito tra i piedi, torna da lei che sta ad attendere e gliela porge. La donna non si rende perfettamente conto di quanto sta accadendo e la consegna al nemico.
Otto la strappa dalle mani con mal garbo ostentato, impone la consegna anche dell’uovo e si tira con forza la porta alle spalle.
Appena girato il vicolo, Tonino prende la vittima sospirata nella sinistra. Con un colpo violento le tira il collo e, salutando affettuosamente con una pacca sui fianchi l’amico, cerca di scappare via.
Ma questi lo ferma dicendogli fieramente ma con gli occhi lucidi:
– Oggi andare in prima linea Cassino; se non vedere me dopodomani, non aspettarmi più.
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* Dal Diario 1943-44.
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