Anime sorde. Dal Diario di Gaetano Di Biasio (prima parte)

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Studi Cassinati, anno 2016, n. 2
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di Gaetano de Angelis-Curtis

foto-13Il 15 giugno 1952 Gaetano Di Biasio scriveva: «Ho ripreso il mio Diario ’49-’50. Ci sarà qualcuno che vorrà sfogliarlo un giorno?», una frase che sembra riecheggiare, in qualche modo, l’avvertenza ai venticinque lettori di manzoniana memoria.
Lo stesso avvocato aveva consegnato il manoscritto a Torquato Vizzaccaro perché ne provvedesse alla pubblicazione, cosa che però lo storico cassinate non riuscì a fare. Ora la lacuna appare colmata con la veste tipografica data al Diario (1943-1957), pubblicato a cura di Silvana Casmirri e Gaetano de Angelis-Curtis , F. Ciolfi edit., Cassino 2012. Formato da 318 pagine e corredato da quasi 1500 note, ricomprende le pagine scritte in un arco temporale di quasi un quindicennio dal noto avvocato, di umile estrazione familiare, nato a Cassino il 21 maggio 1878, dove morì il 26 novembre 1959, che coltivò anche impegni politico-amministrativi (consigliere provinciale di Terra di Lavoro, consigliere comunale e sindaco, anzi il primo sindaco della ricostruzione di Cassino) e letterari. Il Diario inizia con l’esperienza che l’autore stava vivendo in quei frangenti, e cioè il suo sfollamento (al pari di altre migliaia di persone che risiedevano nelle città e nei paesi interessati dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale) prima da Cassino a S. Elia Fiumerapido, poi a Valvori, quindi nei monti circostanti e infine a Fiuggi. Prosegue con gli anni del dopoguerra per arrivare, con salti cronologici più o meno accentuati, fino al 1957, anche se con il trascorrere del tempo le annotazioni fanno sempre meno riferimento a vicende della quotidianità.
Atteso da tempo a Cassino, probabilmente ha suscitato l’interesse di più di «qualcuno», con l’avvertenza che nelle pagine l’avvocato ha inteso più dare sfogo al suo stato d’animo, sempre più cupo e corrucciato col passare degli anni e con l’accumularsi di esperienze negative, piuttosto che fornire una visione, seppur di parte, su alcune questioni prodottesi nella «città martire» prima e dopo la guerra, oppure utilizzarlo come autodifesa.
La robusta preparazione letteraria acquisita negli anni giovanili e coltivata quotidianamente con letture e continui confronti con gli amici che componevano quel cenacolo di intellettuali formatosi nella Cassino d’inizio Novecento, e, come scrive la prof.ssa Silvana Casmirri nell’Introduzione, la «familiarità con la scrittura, il suo solido bagaglio culturale di tipo umanistico, l’assidua frequentazione di studi e letture che spaziano dalla filosofia ai classici greci e latini» offrono al lettore delle pagine caratterizzate da una «densità di contenuti e di richiami di non facile intellegibilità».

Lo sfollamento
Le personali sofferenze vissute quotidianamente nei giorni dello sfollamento assieme alla moglie e condivise con chi gli offriva ospitalità, la famiglia Pirolli di S. Elia Fiumerapido, cui Di Biasio non nasconde il senso di gratitudine di cui è animato mentre solo in qualche rara occasione traspare il suo disappunto, evidentemente indotto dallo stato di nervosismo dovuto alle difficoltà contingenti, appaiono descritte dall’autore «con linguaggio conciso e asciutto». Ossessivo è il richiamo a Cassino, la sua Cassino che, sotto i suoi occhi, giorno dopo giorno, veniva distrutta, fino all’annientamento totale del 15 marzo che seguiva quello dell’abbazia di Montecassino del mese precedente, così come appare angosciato per la sua casa in cui erano custodi i suoi affetti maggiori (le foto e i ricordi dei genitori, in particolare la madre, gli amati gatti e i venerati libri), tormentato dalle precarie condizioni di salute (tra diabete, ernia, sciatalgia, alimentazione insufficiente, cure sanitarie pressoché nulle), ricordando con tenerezza i nipoti Lidia («Titti», «Titinella») e Dario (morto ventisettenne il 14 settembre 1943) e gli amici di cui aveva avuto notizie dolorose, angustiandosi per le giovani madri, per le famiglie, e, infine, registrando anche i mutamenti nella condotta e negli atteggiamenti della popolazione fin dai primissimi istanti successivi all’arrivo degli Alleati, dei “liberatori”.

 Il dopoguerra
Gaetano Di Biasio e la moglie Antonietta, dopo essersi fatti «profughi per ignota destinazione dalla terra [loro] per non rivederla più o per ritrovarla [come] un mostruoso cimitero, dopo aver emigrato qua e là con i cenci addosso e la fame nello stomaco» (25 marzo 1951), tornarono nelle vicinanze dei luoghi che erano stati costretti ad abbandonare il 18 settembre 1943, ma vi fecero ritorno da «pezzenti, con quattro soldi in tasca. Non una coperta, un lenzuolo, una camicia da notte» (14 giugno 1944). Qualche giorno dopo, mentre Cassino si presenta come un desolante ammasso di macerie ancora fumanti, l’avvocato fu individuato dal prefetto della provincia di Frosinone, appena liberata, come l’uomo giusto cui affidare l’incarico di gestire l’Amministrazione comunale. In tale ruolo rimarrà fino al 17 ottobre 1946 quando assumerà quello di sindaco della città, eletto dal ricostituito Consiglio comunale di Cassino, funzione in cui permarrà sino alle dimissioni presentate nel giugno 1948. I quattro anni della sua amministrazione sono tra i più difficili della storia di Cassino, caratterizzati da continue, pressanti, impellenti, angosciose richieste di aiuto della popolazione, priva di tutto, e le risposte offerte dalle istituzioni e dagli apparati statali i cui interventi appaiono assolutamente scarsi e inadeguati. Di Biasio vive profondamente il disagio di non poter offrire delle misure concrete e idonee ai suoi concittadini. Per affrontare tali incresciose situazioni poteva contare solamente su «Dio, che solo [lo] sapeva e [gli] dava la forza di levare la fronte», avendo accanto a sé «il pianto di tante creature che salivano la scaletta del Comune per il sussidio, per il pane che non fu mai negato a nessuno» (27 aprile 1951). Armato soltanto della sua dignità e della sua eloquenza, eccolo, dunque, fare appello ai potenti della terra, in particolare al presidente americano Roosevelt e poi al suo successore Truman, cui scrive lettere e lancia radiomessaggi. Cerca di far leva anche sull’estrazione territoriale del sindaco di New York, Fiorello La Guardia, e del governatore militare in Italia, Charles Poletti, due italoamericani. Quando poi si rende conto che non ha risposte eccolo sollecitare e invocare la solidarietà umana lanciando radiomessaggi rivolti «ai popoli di tutte le terre» e, poco dopo, «agl’Italiani d’America» al fine di riuscire a ottenere aiuti e sostegno a favore delle popolazioni del Cassinate. Allo stesso momento si rivolge alle nuove autorità nazionali, presidenti del Consiglio e ministri, che invita a Cassino in occasioni di celebrazioni ufficiali nel corso delle quali li incalza chiedendo soccorsi, sollecitando concreti interventi per la ricostruzione, risposte tangibili e non promesse. Parimenti si porta presso gli uffici ministeriali a Roma a rappresentare importanti e delicati problemi locali, come quello delle «marocchinate», ma, molto spesso, senza ottenere soluzioni adeguate («anime sorde» fu un’altra felice espressione dibiasiana con cui definì i sordi interlocutori ministeriali e in genere tutti quelli che si mostravano insensibili ai patimenti, ai sacrifici di un intero popolo). Non cerca carità, non cerca commiserazione, non cerca favori ma solo che si mantenesse fede alle promesse di ricostruzione. In occasione di una manifestazione pubblica di sostegno e offerta di aiuti ai bambini di Cassino, tenutasi nella primavera del 1946, ammonì «che con la carità non si risolve[va] il problema di Cassino e lo [si] gridasse forte in alto e in basso, che Cassino deve rifarsi tutta da capo, dalle fondamenta, e che se Roosevelt mentì allora, sapendo di mentire quando promise di rifare Cassino e, con Cassino, Montecassino; e che il Tr[uman] al messaggio radio del 6 ottobre [1944] non ha risposto, ciò non esime[va] il governo italiano dal dovere di mantenere la promessa del 15 marzo ’45». Per tentare di alleviare i gravi problemi in cui si dibatteva il territorio individua una serie di proposte, molte, però, cadute nel vuoto non perché fossero irrealizzabili o utopistiche ma perché non riuscirono a fare presa sulle popolazioni locali, maggiormente inclini a sostenere chi offriva soluzioni per l’immediato, e soprattutto perché rimasero inascoltate presso la nuova classe politica nazionale, che comunque finì per deludere l’avvocato per le forme di trasformismo e opportunismo adottate, e anche a livello locale presso gli esponenti dei partiti in via di ricostituzione. A prescindere dall’intuizione, tutta dibiasiana, della definizione di «città martire» (fin dal 3 aprile 1944 scriveva che «Cassino si [era] adunque assicurata la palma del martirio, ben più nobile di quella dell’eroismo, ben più sacra di quella che i preti dispensano al popolo adunato in chiesa la domenica delle Palme», per poi, nelle primissime istanze trasmesse alle autorità del tempo, definirla «Città sacrificata», «Città martire»), che trovò poi ufficializzazione affiancando il nome di Cassino in seguito all’approvazione del Consiglio comunale del 7 febbraio 1947, quello stesso che avanzò la richiesta alle istituzioni italiane affinché la martoriata città venisse insignita della Medaglia d’oro al valore militare (poi concessa «in omaggio riverente al Suo martirio» e solennemente consegnata dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi il 2 aprile 1949), l’attività del sindaco Di Biasio si esplicò nella predisposizione, ad esempio, dei primi piani di ricostruzione, nella strenua difesa del Tribunale, nella presentazione di proposte di istituzione di enti pubblici di gestione amministrativa e territoriale cui affidare la ricostruzione di Cassino e degli altri Comuni del comprensorio distrutti dalla furia bellica o come la richiesta di creazione di una circoscrizione amministrativa provinciale. Se, inizialmente, aveva aderito al primo e suggestivo progetto di ricostruzione di Cassino che prevedeva una integrazione delle aree distrutte con quelle nuove da riedificare, ponendo un vincolo di inedificabilità sulle macerie conservate a ricordo delle distruzioni operate dalla «grande battaglia» affinché fungessero da monito per le generazioni successive, dovette ben presto rivederlo in quanto il prospettato intervento diretto dello Stato con aiuti speciali alle zone colpite, rivolto a rilevare l’area andata distrutta, a individuarne un’altra effettuandone l’esproprio, a indennizzare velocemente i proprietari immobiliari in modo che potessero provvedere velocemente alla costruzione delle case, non si andava realizzando. Il mancato sostegno statale, dovuto anche al fatto che l’Italia era ancora in guerra, impegnata nella lotta al nazi-fascismo, e che disponeva di scarsissime risorse finanziarie, comportò l’accantonamento del progetto della conservazione delle aree distrutte per cui si dovette ripiegare su un nuovo piano che prevedeva la ricostruzione dell’abitato nel vecchio sito, con la sola esclusione della zona pedemontana, e il ripristino dei vecchi allineamenti stradali. In merito alla questione del Tribunale, dopo il suo trasferimento, negli anni di guerra, prima a Picinisco e poi a Sora, con quest’ultima città che operò intensamente per trattenerlo o per essere dotata di nuovi uffici giudiziari, Di Biasio si adoperò, nella sua duplice veste di sindaco e avvocato, per riportarlo nella sue sede istituzionale o per evitare che fosse soppresso o trasferito, oppure per allontanare il pericolo di ulteriori decurtazioni della sua circoscrizione giudiziaria. Nonostante gli sforzi profusi e le soluzioni individuate, che si rivelarono alla prova dei fatti inidonee a causa della gravissima situazione immobiliare in cui versava in quei frangenti Cassino, il Tribunale poté tornare nella sua sede solo il 1° marzo 1949 al momento dell’inaugurazione del nuovo palazzo di giustizia (avvenuto oltretutto in un momento di vuoto amministrativo dopo le sue dimissioni da sindaco e il commissariamento del Comune). Tuttavia le deliberazioni adottate dalla sua Giunta, le convocazioni di assemblee di avvocati (il 5 luglio 1946 e il 27 giugno 1947), i comizi, gli incontri con i massimi rappresentanti istituzionali, le manifestazioni di protesta (gli scioperi del 13 ottobre 1947 e del 6 maggio 1951) concorsero a salvare, in quei frangenti, il Tribunale dai pericoli di soppressione, o di trasferimento, o di ridimensionamento. Di Biasio non mancò, comunque, di criticare l’atteggiamento assunto dagli esponenti nazionali e da quelli locali della Democrazia Cristiana (i primi per essersi schierati a favore dell’istituzione di un nuovo Tribunale a Sora, i secondi per non aver preso posizione, con decisione e fermezza, in difesa della permanenza dell’organo giudiziario nella «città martire»), assieme a quello dei suoi concittadini che nel corso della campagna elettorale per le elezioni amministrative del 15 maggio 1949, in cui fu sconfitto dalla lista democristiana capeggiata dal sen. Pier Carlo Restagno, si erano mostrati maggior- mente interessati alla rapida ricostruzione del patrimonio edilizio distrutto dalla guerra che alla difesa del Tribunale. Affinché si potesse realizzare con concretezza e celerità la ricostruzione della terra martoriata da nove mesi di guerra prospettò l’idea di evitare la frammentazione politica invocando la costituzione di un solo partito, «quello della Città Martire da rifare», in modo che si potesse innalzarne una sola bandiera «a difesa dei diritti d’una regione che ha tanto sanguinato e che sanguina e sanguinerà ancora nell’avvenire» (editoriale pubblicato su «La Voce di Cassino e dei Comuni della battaglia», a. II n. 9, del 15 aprile 1946), ma, come registrava amaramente qualche anno dopo, fu «deriso» per quanto aveva prospettato (21 giugno 1952). A parte tale proposta caduta nel nulla, al fine di dare concretezza all’opera di ricostruzione istituì, subito dopo la sua elezione a sindaco nell’ottobre 1946, l’«Associazione dei Comuni dalle Mainarde al mare», un ente cui attribuire speciali poteri tali da non farlo impantanare nelle pastoie e nelle lungaggini burocratiche. All’Associazione aderirono immediatamente ventinove Comuni, saliti a quarantacinque dopo due soli mesi e poi, nel 1948, costituì il modello di riferimento per l’istituzione dell’Ericas (Ente per la Ricostruzione del Cassinate). Con il «tormento d’una fatica senza risparmio» iniziò «a percorrere la via della Ricostruzione tra Cassino-Roma e altri paesi» (27 aprile 1951) rilanciando un progetto perseguito a Cassino da tempo, teso a soddisfare un’aspirazione che affondava le radici nella breve esperienza della Repubblica napoletana del 1799 e ciclicamente ripresentato. Infatti Di Biasio pose nuovamente la questione dell’istituzione di una circoscrizione amministrativa il cui «naturale» capoluogo venisse posto nella «città martire». Però in tale occasione l’idea veniva riproposta alla luce dell’esperienza bellica maturata. Non a caso i Comuni che avrebbero dovuto essere inclusi nella istituenda provincia di Cassino erano gli stessi che, per la maggior parte, nel versante laziale, si erano venuti a trovare dislocati lungo la Linea Gustav, la poderosa linea difensiva costruita dai tedeschi. Di Biasio la definì, infatti, la «provincia della battaglia», coniando anche il motto «una croce, una voce», estrema ed efficace sintesi dei patimenti sofferti negli anni di guerra e della richiesta condivisa da tutte le popolazioni locali di ricostruzione materiale e morale.

Cassino e la «canaglia»
L’atteggiamento di Di Biasio nei confronti di Cassino e dei suoi abitanti viene a mutare nel corso degli anni, influenzato dagli insuccessi elettorali e dalle perfide e false accuse di qualche suo detrattore. Mentre erano in corso le operazioni belliche di bombardamento della città scriveva: «Cassino! Che devo dirti di più? Non mi sei stata mai tanto cara e sì addentro nel cuore quanto adesso» (8 novembre 1943); «Povera Cassino! Tutto è finito» (11 novembre 1943); «Povero amor mio, mio nido, mia casa, mia fossa eterna. La nebbia ti circonda come una corona, ti copre come un lenzuolo pietoso» (27 novembre 1943). Gli stessi sentimenti animavano Di Biasio nei confronti di Montecassino. Alla notizia della distruzione del millenario cenobio e delle devastazioni nelle aree circostanti («di rimpetto, monte Caira, e di sotto i boschi di pini, di querci, di palme dell’Albaneta. E la quercia di S. Benedetto!») riporta i nomi dei monaci cassinesi di cui contraddittorie voci non riuscivano a precisare la sorte e, allo stesso tempo, ricorda di aver «dormito tanti sonni su quelle rocce», così come «nessuno mai le [aveva] cantate» e celebrate quanto lui, riportando persino brani di alcune sue poesie inedite. «Tutto è profanato, tutto è distrutto, tutto!» scrive riferendosi alla «bella e cara e santa Ab[b]azia. Bella la Chiesa tutta azzurra e oro, bello e sonoro l’organo, belli e armoniosi gli affreschi di Luca Giordano, la loggia del Paradiso» (15 febbraio 1944). Città e abbazia sono accomunate dallo stesso tragico destino. «Cassino è tutta distrutta, da[l] 15 [marzo]: non una pietra è salva! … O mio Montecassino, mio per la vita e per la morte» (17 marzo 1944); «Tutta Cassino è distrutta, polverizzata, massacrata. Neppure un albero, oppure un pilastro … in piedi, e Montecassino e Rocca Janula e persino il Cimitero» (20 marzo 1944); a Cassino che «si è adunque assicurata la palma del martirio … passarono i barbari e la schiantarono col suo monte, col suo fiume, coi suoi monumenti antichi, dalle fondamenta» (3 aprile 1944); e ancora qualche giorno dopo rievocava con nostalgia la tranquilla vita domestica vissuta fino a poco tempo prima, scrivendo: «Sono un uomo distrutto. La mia vita era tutta lì, tra quattro mura, tra quattro libri, tra quattro volti casalinghi, tra due bestiole, tra pochi pochi amici, ed era sovratutto sulla montagna, sul mio bel monte, sulle rive del Gari, davanti al volto sorridente di mia madre in effigie, e aspettando la mia grande ora, guardando le due punte dei cipressi dalla loggia di casa laggiù al camposanto dove speravo dormire accanto a loro» (16 aprile 1944). Già mentre infuria la battaglia il suo pensiero è rivolto al futuro, a quali azioni avrebbero dovuto essere intraprese al termine di quella cruenta fase. Scrive, dunque, che bisognava impiantare «una rivista, un giornale, e chiamare a raccolta le intelligenze migliori a collaborazioni, fascisti e non fascisti, ma studiosi tutti, prepar[andosi] a cose serie, perché il momento è grave, grave, c’è da rifare le coscienze» (31 dicembre 1943), tuttavia nell’amara consapevolezza che con la pace «verrà la sanatoria generale. Chi ha avuto ha avuto … I ladri e gli assassini si daranno la mano e i morti sono morti e non tornano più» e il «popolo ha sofferto tacendo e basta. E i morti non tornano più, mai più, mai più» (6 aprile 1944. Qualche anno più tardi, il 21 ottobre 1951, scriveva che nel dopoguerra «ognuno è tornato al posto di prima, più su ancora, cambiando casacca»).
Il rapporto tra Di Biasio e Cassino e i suoi concittadini inizia ad apparire incrinato fin dall’estate del 1946, per peggiorare progressivamente nel tempo. Mentre ancora gestiva l’Amministrazione comunale sulla base della nomina prefettizia, scrive della «canaglia», definendo in tal modo la parte più retriva della popolazione, quella usa alla delazione, secondo cui approfittava del suo ruolo allo scopo di distrarre fondi pubblici per farne un uso personale poiché il sindaco «“Si sta[va] facendo i palazzi!”. (Naturalmente co’ soldi del Comune)». Appare talmente amareggiato da questa infamante accusa di appropriazione, ancor più grave se si pensa alle scarsissime risorse finanziarie gestite dal Comune, da manifestare l’intenzione di volersi dimettere salutando «tutto e tutti per sempre» (14 luglio 1946). Ciclicamente torna sulla questione per registrare amaramente le voci di frode e imbroglio che circolavano tra la popolazione: «Non ha mangiato esso pure sul Comune? E la casa come se la faceva? … E la moglie? Anche quella! Che superbia aveva messa! La salutavi tu? Io neppure. Perché chi si credeva di essere? Meglio di te, di me?» (9 ottobre 1952). Come amministratore della città lamenta «quante viltà e ipocrisie, quanto odio e livore e imprecazioni: e maledizioni e denunzie e minacce, da mandar[lo] in galera se [si] foss[e] per poco piegato sotto il peso di tanta infamia» (27 aprile 1951). All’inizio degli anni Cinquanta accusa chi lo aveva «rinnegato, calunniato, schernito» e lancia un grido amaro quasi a voler allontanare anche fisicamente accusatori e delatori «Via! Via, canaglia! Per l’ultima volta. Via!». Si interroga su «chi dirà a questo popolo quanto l’[abbia] amato e quanto, per esso, [si sia] sacrificato!» (28 luglio 1951), domandandosi anche «chi saprà mai la fatica di quattro anni interi per la ricostruzione!», per poi finire per essere «rinnegato» e addirittura «sospettato di malversazione» (29 luglio 1951). Sempre più sprezzante è il giudizio, in generale, sulla «plebe» a cui «basta la carità di un tozzo di pane o d’un cartoccio di pasta per vedersela a massime nelle elezioni – curva a’ piedi, nel nome profanato di Cristo, in combutta col prete» (15 febbraio 1952, data riportata come «15 !!! “1944”»), sulla gente con le sue «risa e urli e canti sguaiati e sventolii di bandiere e fischi e battimani e imprecazioni e le chiacchiere del foro e del caffè. Uh! che noia, che stanchezza, che puzzo, che ridere di denti come se mordessero, che turpiloqui!!!; (3 giugno 1952), sulla «canaglia [che] applaude» (1 ottobre 1952). Dunque «gente miserabile, vile, cattiva, pezzente, fanatica, incosciente, maledicente e maledetta, spregiatrice di chi ieri idolatrava, e perversa e pervertita, sozza e cenciosa e laida e pitocchiosa, con la mano sempre tesa al passante facoltoso che gli getti due soldi nel cappello, e soggetta ai più umili servigi, e quando a prender schiaffi e sculacciate» (5 marzo 1953). Sul piano personale, il rapporto con la sua città peggiora progressivamente. «Cassino, sì Cassino! Chi ti può dire quanto ti ho pianta ed amata?» scriveva il 25 marzo 1951 (riecheggiando Enea fuggito dalla distrutta città di Troia per rifarne una nuova), ma a un anno di distanza pone in dubbio che l’abbia mai effettivamente amata, anzi la definisce «terra maledetta» e afferma di odiarla (29 febbraio 1952). Poco dopo, tuttavia, ricorda ancora una volta quanto l’abbia «amata!», rimpiangendo che avrebbe potuto ancora essere utile, «fare qualcosa» per Cassino ma da essa era stato «cacciato via» (12 aprile 1952), per poi definirla «terra perfida, selva fosca e insidiosa» (11 maggio 1952). Si lamenta di aver dato alla città tutto quello che poteva ma di esser stato ricambiato con «fischi, urli, imprecazioni, addebiti, voltafaccia e infingimenti a non finire», e, infine, giunge, con una semplice operazione linguistica di elisione della doppia consonante, ad accostarne il nome a quello del primo omicida della storia dell’uomo, assassino del fratello, scrivendo: «Cassino! Cassino! … cioè: Caino!» (10 febbraio 1952).
Così sferzante nei confronti della «canaglia», della «plebe», della «folla», della «maledetta», della «piazza», essenze indistinte, Di Biasio, tuttavia, nelle pagine del Diario non si lascia mai andare a un giudizio critico, o oltraggioso, o sgarbato nei confronti di nessuno, mai una parola di troppo, al massimo un «disonorevole» con cui «squalificava» l’on. Giulio Andreotti nel corso della campagna elettorale del 18 aprile 1948 soprattutto in relazione alla questione dell’istituzione del Tribunale a Sora (6 maggio 1951). Nei confronti di Antonio D’Alba, giovane anarchico romano che, dopo l’attentato a Vittorio Emanuele III del 14 marzo 1912, lo fece finire in carcere con l’accusa di correità in regicidio, ben presto caduta, nel giorno in cui apprese della sua morte avvenuta in manicomio si lasciò andare a «Era evidente: pazzo! pazzo! Fu questo il mio grido alla Sezione Istruttorie» (18 giugno 1953), ma già lo aveva perdonato, al pari di tutti gli altri: «Ti ricordi di quel disgraziato giovine a Regina Coeli? E di un altro qui tanto vicino? Ho perdonato tutto e tutti» (10 febbraio 1952).

Il politico
Dal punto di vista politico Di Biasio si autodefinisce un «cristiano e mazziniano; più determinatamente socialista» (con riferimento a uno dei suoi primi lavori letterari, Cristo o la coscienza eroica). Con orgoglio scrive di essersi formato, in età giovanile, alla scuola dei maggiori esponenti socialisti: Ferri, Turati, Cavallotti, Imbriani, Bovio e «sovratutto i martiri dell’Indipendenza» (1° ottobre 1946). Si avvicinò anche ad ambienti dell’anarchia (a cui avevano aderito, a Cassino, anche il giovane Raffaele Valente, amico di Di Biasio, «dall’ingegno vivido tempra rivoluzionaria e naturalmente poeta», e il tipografo Raffaele Mentella, parente alla lontana dello stesso avvocato). Proprio dalla commemorazione del poeta anarchico Pietro Gori (quantunque Di Biasio precisi di averlo celebrato «naturalmente da … poeta (!) a Poeta») e di Carlo Pisacane si viene a sviluppare la vicenda dell’arresto con l’accusa di correità in regicidio. Prese parte attiva alla vita politica e amministrativa del tempo. Fu Consigliere comunale a Cassino precedentemente allo scoppio della prima guerra mondiale (da cui si dimise per il richiamo alle armi e la partenza per il fronte), presidente del Circolo generale operaio di Cassino, Consigliere provinciale di Terra di Lavoro con il partito socialista nel 1920 (carica da cui si dimise nel 1923 assieme agli altri membri di area socialista), candidato al Parlamento nazionale nel 1921 con il Partito democratico sociale, una lista di ispirazione socialista capeggiata da Alberto Beneduce. Molto spesso era chiamato a tenere pubblici comizi in occasione di varie manifestazioni, come le dimostrazioni organizzate a Cassino dalla locale Società operaia e da quella Progressista oppure le celebrazioni per la Festa dei lavoratori, quando, accompagnato dall’amico Ernesto Manna, si recava a Isola del Liri e Sora. Antifascista, nel corso del ventennio «sprezz[ò] l’invito a piegare la fronte a un meschino tiranno e vi[sse] solo, solo, per il pane quotidiano» (29 luglio 1951), dedicandosi esclusivamente all’attività professionale e ai suoi studi letterari. Dopo la nomina a capo dell’Amministrazione comunale di Cassino nell’estate del 1944, gli fu bocciata la candidatura alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente in seguito a un esposto che lo accusava di collaborazionismo con il nazifascismo durante i mesi di sfollamento. Ripropose la sua candidatura nelle elezioni del 18 aprile 1948, come indipendente nella lista del Partito repubblicano italiano. I primi resoconti pubblicati dai giornali riportavano la notizia dell’elezione di Di Biasio, ma l’avvocato appariva scettico preferendo aspettare la proclamazione ufficiale dei risultati. Nel frattempo, tornando a Cassino da Sora, fu accolto da «una esplosione di gioia … tripudio». Dopo aver tenuto un discorso «calmo, misurato, piaciuto a tutti», fu accompagnato «a casa con ovazioni etc.». Qualche ora più tardi, invece, giunse la smentita dell’elezione dovuta a un errore di stampa che aveva attribuito ben 21.000 voti in più al Pri rispetto a quelli effettivamente conseguiti, per cui Di Biasio, anche in base alle opzioni esercitate, divenne il primo dei non eletti. La delusione è manifestata nelle pagine del Diario con poche parole: «Domani, manifesto e comizio. Ciascuno prenda la decisione che vuole». L’avvocato intende solo «fare fagotto» e ha un solo desiderio «Pace, pace, pace!». Circa due mesi più tardi, proprio il deludente risultato elettorale, assieme a ben specifiche questioni amministrative, furono alla base delle dimissioni di Di Biasio dalla carica di sindaco di Cassino, cui seguì il commissariamento del Comune. Tuttavia decise di ricandidarsi alle elezioni comunali di Cassino del 15 maggio 1949. Capeggiò la lista civica «Rocca Janula» che subì una bruciante sconfitta, mentre l’affermazione della lista democristiana portò il sen. Pier Carlo Restagno ad assumere la carica di sindaco della città. L’ultima campagna elettorale che vide impegnato Gaetano Di Biasio fu quella per il Consiglio provinciale di Frosinone del 1952. Nonostante si sentisse «un essere finito» si lasciò convincere a candidarsi, ancora nelle file del Pri, potendo contare sul sostegno dei maggior esponenti del partito, Romita, Pacciardi e La Malfa e con la prospettiva che avrebbe potuto essere eletto con i «resti», cioè usufruendo del meccanismo elettorale dell’apparentamento delle liste (12 aprile 1952). Ugo La Malfa venne a Cassino a tenere un «comizio in piazza Diamare» che però non convinse Di Biasio in quanto, «poco conoscitore dell’ambiente forse», aveva parlato, a suo giudizio, «urtando a questi e quelli» (20-21 aprile 1952). Con l’approssimarsi della data delle elezioni, 25 maggio, l’avvocato registra la «gazzarra elettorale» con numerosi comizi e oratori, mentre invece lui preferisce stare «a contatto» con i suoi «cari Padri, e Santi, e Divinità nascoste» (11 maggio 1952). Manifesta anche l’intenzione di «ritirar[s]i dalla lotta» (15 maggio 1952). S’interroga sull’esito delle votazioni, mostrandosi disincantato su qualunque responso fosse uscito dalle urne. Nel caso fosse stato eletto, infatti, riteneva di non poter far nulla a favore della città in Consiglio provinciale, mentre, in caso contrario, avrebbe considerato la mancata elezione come una «prova di più per i [suoi] concittadini» (24 maggio 1952). Tuttavia l’esito del voto lo amareggiò profondamente. «E la commedia è finita! Appena seicento voti» con la lista del Pri «ultima delle cinque o sei liste» (27 maggio 1952). Fra tutte le sconfitte elettorali patite, sulla base di quanto riportato nelle pagine del Diario, sembra essere quella che maggiormente lo ferì sia per gli scarsi consensi ottenuti, sia per i numerosi voti conseguiti dal candidato del Partito monarchico. «Come!», commentava amaramente, «Cassino distrutta dalla guerra monarco-fascista, e voi [elettori di Cassino] acclamate coloro che furono gli artefici della sua rovina! Figli della Città Martire, voi? Così al maresciallo Grillone, monarchico 4 mila voti e al primo ricostruttore circa 600. Eh via!». La reazione di Di Biasio, come in altre occasioni, è tesa a voler abbandonare tutto e tutti, ad andare a «vivere lontano lontano», un desiderio, tuttavia, che non può essere esaudito perché non possiede «mezzi per allontanar[s]i» (13 giugno 1952). Una ferita che non appare rimarginarsi. L’anno successivo si tennero, in giugno, le elezioni al Parlamento nazionale e Di Biasio, ritenendo di essere stato «seppellito tra lo scherno e l’indifferenza», anticipava che nel corso della campagna elettorale si sarebbero visti «in processione santi e madonne e madonnine a braccetto col prete, e codazzi di contadini e di popolo misto salmodianti per il candidato crocesegnato», e, parimenti, sarebbero venuti nelle «piazze santoni di fogge diverse a cantare per la grandezza d’Italia in veste democratica repubblicana o monarchica o socialista o comunista o fascista». Giunge a paragonare le competizioni elettorali per il Parlamento o per un Consiglio provinciale o per «un seggio al Consiglio Comunale dove si forgiano i destini d’Italia e del nostro paese» alla gara dell’albero della cuccagna in cui i partecipanti, «per un cartoccio di vermicelli, un fiasco di vino, quattro cenci, quattro soldi» si affannano «ad ascendere, ascendere, a un tratto, precipitosamente scivolare aggrappati al palo lubrico tra i fischi e le urla della canaglia» e quando il vincitore «tocca la cima» è premiato dagli spettatori con «gli applausi tra qualche fischio anche, e gl’evviva», è portato in «trionfo per le vie della città» dalla folla che si sofferma «sotto il balcone del competitore caduto [per] fischiarlo sonoramente» (5 marzo 1953). Di lì a poco inviò le sue le dimissioni dal Pri (13 aprile 1953).

Il professionista
Dopo aver frequentato le Scuole Pie e le prime classi del Ginnasio a Cassino, si trasferì al “Tulliano” di Arpino. Ottenuta la licenza liceale classica si riprometteva «di seguitare gli studi all’Università di Bologna dove pontificava D[on] Giosuè Carducci». Riuscì a ottenere un sussidio dall’Amministrazione provinciale di Terra di Lavoro tramite Benedetto Nicoletti, già sindaco di Cassino, e avrebbe voluto iscriversi «naturalmente alle Lettere dove meglio [s]i sentiv[a] portato». Tuttavia una «domenica in piazza del Duomo» si imbatté in un suo vecchio insegnante, il prof. Enrico Cocchiara, «amico barbone e voce baritonale» che con quella sua «voce, quasi [lo] sgridò col dir[gl]i: Caro Gaetano, sei impazzito? Non vedi me, con 95 lire al mese che muoio di fame, che non ci posso comprare un libro, farmi un vestito, un paio di scarpe … Invece, guarda qui: e si voltò verso il Tribunale: con la stessa somma puoi iscriverti alla Legge e fare l’avvocato e guadagnare da signore». Di Biasio rimase colpito dall’incontro e all’istante decise di seguire il consiglio per cui si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza a Napoli per poi iniziare la professione forense e avviarsi a diventare uno dei più brillanti avvocati del Foro di Cassino. Nel 1922 inizia la collaborazione con il periodico «Battaglie Forensi», organo giudiziario di Terra di Lavoro diretto dell’avv. Matteo Maffuccini e stampato a S. Maria C.V. Nell’aprile del 1923 è eletto presidente dell’Ordine degli avvocati di Cassino. Nel corso del ventennio fascista svolse solo l’attività forense e pur se minacciato in qualche occasione dai fascisti di Itri, fu rispettato proprio per la sua reputazione professionale. Nel dopoguerra, le non floride condizioni economiche lo costrinsero a continuare ad attendere all’attività legale, che il trascorrere del tempo e l’avanzare degli anni gli resero sempre più faticosa e pesante. Alla fine degli anni Quaranta, ormai ultra settantenne, si sente come «un tronco di quercia inaridito, stanco di leggere, di scrivere, di affastellar parole, parole» e lascerebbe la professione «se non fosse per il pane quotidiano!» (1949). Da questo momento in poi il tema del lavoro svolto «per il pane quotidiano», per il «benedetto pane», ricorre spessissimo nei resoconti giornalieri, in quanto l’esercizio professionale è considerato, evidentemente, come l’unica possibilità che ha a disposizione per soddisfare i bisogni primari suoi e della moglie. Oramai avanti con l’età e senza «più … una causa etc.» si domanda quando finalmente potrà andarsene in pensione per potersi liberare «dalla fogna», cioè da quella poco gratificante attività professionale che, scrive, «vomisce puzzo da restarne ammorbato pure il tuo Inferno, Padre», facendo riferimento alla Divina Commedia di Dante (2 ottobre 1951). Parimenti dimostra di non ritenersi un maestro di scuola forense, convinzione evidenziata nel momento in cui si stupisce che «un giovine» gli abbia manifestato l’intenzione di voler «frequentare il [suo] studio», ma «per apprendere … cosa?» si domanda subito dopo (10 aprile 1951).
In molte pagine del 1950, 1951 e 1952 sono registrati numerosi riferimenti all’attività forense svolta, che appaiono alternati a momenti di sconforto per la scarsità del lavoro e per la stanchezza fisica e morale e a momenti di avvilimento per l’avversione che crede di cogliere nell’animo di alcuni suoi colleghi. Dopo l’accenno della discussione di una causa assieme a Guido Varlese (13 novembre 1950), passa a lamentarsi perché «si lavora pochissimo e i bisogni sono tanti!. Vengono [le persone] sì, ma per qualche favore o raccomandazione. Umiliato, ma ribelle e sdegnoso più di prima … Ed ora andiamo a lavorare. Per voi? E per che? O pane! Pane!» (7 dicembre 1950). Si rammarica nuovamente per il «lavoro scarso», cui seguono «letture poche, pensieri agitatissimi, insonnia. Sfiducia» (31 dicembre 1950), e anche con il nuovo anno «lavoro niente», per cui cerca di trovare «dolcezza [e] riposo con Dante e Virgilio e Goethe e Shakespeare … Avvocato, avvocato!! Ossia il pane … il benedetto pane» (12 gennaio 1951). Qualche causa in Tribunale a Cassino, «una misera cosa» (31 gennaio 1951), anche presso l’organo giudiziario di Frosinone (6 febbraio 1951), qualcuna «andata male», sperando nell’«appello del P[ubblico] M[inistero]», apprestandosi, tuttavia, «a vender frottole e a sentirne, sentirne per un tozzo di pane e non voglio altro … Tra quante canaglie bisogna pur muoversi odiando, imprecando, maledicendo» (14 febbraio 1951). Ancora «piccole cose al Tribunale. Poi?» si domanda (28 febbraio 1951). Va a Roma (25 marzo 1951), si prepara «per notizie da prendere in Tribunale», anche se si sente «stanco» e «non ce la fa più» (19 maggio 1951). Dopo qualche causa vinta (1° giugno 1951), pure in Calabria (29 giugno 1951), va a Pontecorvo (29 settembre 1951), poi alla «pretura d’Arce: scarso pane, ma contentiamoci» (22 ottobre 1951), quindi si appresta a difendere un giovane imputato di oltraggio ai Carabinieri (6 novembre 1951), passando una «nottata nera insonne», con i «nervi … scossi» e la mancanza di «fiducia nella vittoria» (8 novembre 1951). Ancora impegnato presso la Pretura di Cassino (30 novembre 1951) e nella discussione in un «processo di falsa testimonianza» (8 aprile 1952), scrive di avere «molto da fare al Tribunale, ma [gl]i mancano le forze, e quindi la volontà» (28 aprile 1952). Altri processi a Cassino (2 maggio 1952), a Bari presso il Tribunale militare (24 maggio 1952), a Frosinone (27 maggio 1952), quindi nelle Preture di Cassino e Pontecorvo, ma si sente «stanco – benedetto pane quotidiano» (20 giugno 1952). Dopo una «causa andata male. Oggi lavoriamo senza frutto» (26 giugno 1952), eccolo impegnato di nuovo nel Tribunale di Cassino (1° luglio 1952), in quello di Frosinone (3 luglio 1952), anche una decina di giorni dopo con «caldo asfissiante» (14 luglio 1952), poi «causetta in Pretura: remissione – pane quotidiano» (17 luglio 1952), quindi «a Roma. Tribunale Militare» (30 luglio 1952), ancora «alla Pretura a raccogliere briciole per il pane quotidiano!» (20 febbraio 1953), successivamente «a Latina per il pane quotidiano» (26 febbraio 1953) e, nel mese successivo, con «stanchezza e schifo» ancora nel capoluogo pontino (12 marzo 1953).
Nelle pagine del Diario il peregrinare di aula in aula in vari Tribunali si accompagna talvolta con le recriminazioni per gli eccessivi carichi di lavoro cui non corrispondono adeguati introiti, talvolta con le preoccupazioni per lo scarso lavoro e le lamentele per la scarsa clientela. «Aspetto qualcuno come grazia di Dio. Verrà?» (3 marzo 1951); «Aspetto un cliente di Terelle. E poi?» (21 giugno 1951); «ora? Non una causa. Non un amico» (17 febbraio 1952); «Lavoro a vuoto in professione, studio a vuoto, mi manca ogni energia. Perché? A che? Sono vecchio ormai e avrei bisogno di riposarmi» (3 giugno 1952); «Giornata laboriosa, infruttuosa. Aspetto clienti pel disastro di Mignano. Verranno?» (4 luglio 1952); «Notte insonne. Caldo da morire. Nessuno viene. Ieri in Pretura ho sofferto» (18 luglio 1952); «Lavoro disperatamente senza profitto» (12 settembre 1952). In sostanza il suo «morale» é «bassissimo» poiché, nonostante «le cause [fossero] molte», la professione «nulla più rende[va]» (22 aprile 1953).
I rapporti personali e professionali con i colleghi non sembrano essere improntati al meglio, così come, d’altra parte, con la maggior parte dei conoscenti in generale. «Amici? Uno solo o due» scrive il 7 dicembre 1951 e dunque non ha nessuno su «cui riversare questa [sua] insofferenza» essendo «tutti invisi, eccetto uno, specie se colleghi». Ritiene di non essere mai stato «amato, mai stimato se non per tornaconto». Si mostra sicuro che quando lo «vedono ancora camminare dritto a passo svelto, sussurr[ino] tra loro: “… e vive ancora? Quanti anni?”. Ci si crede?». Quando s’«incontr[a] con questo e con quello, specie se beneficati al tempo del sindacato», cioè negli anni del suo mandato amministrativo, essi giungono a voltare «la faccia» e si domanda «cosa gli h[a] fatto? Odiano senza un perché» (19 maggio 1951). Vorrebbe che gli fosse concessa «una grazia sola: un piccolo angolo di terra dove passare questi stanchi ultimi giorni d[ella sua] vita, lontano di qui; senza che vi veda ombra o fantasma d’uomo. Ne h[a] di troppo nella mente, gialli di odio di bile di scherno di avversione che» desidererebbe «discacciare», ma non vi riesce (19 agosto 1951). A distanza di qualche mese esprime nuovamente le stesse sensazioni. Si imbatte in conoscenti che «vedono e torcono lo sguardo da l’altra parte o l’abbassano», oppure in persone che si domandano «“… Quanti anni c’ha? Non muore ancora? Non muore mai?”» (7 dicembre 1951). Ancora due mesi dopo vede «facce livide e occhi torti dovunque. Qualcuno ancora ti dà il buon giorno, come di uso, o per scroccarti qualche soldo» (29 febbraio 1952), e gli sembra di sentir esclamare attorno a lui «Oh finalmente! … Finalmente!», intendendo che è morto, con tanto di ringraziamento per l’aiuto divino, «Uh! Ci ha fatta la grazia S. Antonio» (9 ottobre 1952). Dopo aver manifestato il suo sentimento di odio per «questa cappa di piombo che [lo] opprime: intelligenza e cuore» così come per «la chiacchiera del foro, la piazza, il caffè» (15 marzo 1952), si lascia andare a un ultimo duro e grave giudizio sull’«avvocatura [che] oggi fa schifo: strepiti, urli, battiti di mani e di piedi, e genuflessioni e omelie … e pianti … e logorree a non finire … Oh i grandi maestri dove sono più?» (27 marzo 1953).

[continua]

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