Tradizioni popolari a S. Elia Fiumerapido – I giochi del «Lunedì di Casalucense»

 

Studi Cassinati, anno 2016, n. 2
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di Giovanni Petrucci

 

foto-08Un richiamo ai secoli passati sono i giochi popolari del pomeriggio del lunedì della Festa di Casalucense, chiamato per antonomasia «Lunedì di Casalucense», che risalgono, come è testimoniato dalla loro stessa natura, a tempi remotissimi del Medio Evo. Alcuni di essi si sono mantenuti fino ai nostri giorni, grazie all’impegno e all’interesse sempre vivi del Comitato dei Festeggiamenti, presieduto da oltre un cinquantennio dall’ex direttore della Banca Popolare, Bonaventura Fiorillo.
Una volta vi partecipava in massa la popolazione locale, senza distinzione di ceto sociale e costituivano una fonte di allegra spensieratezza, necessaria all’inizio della primavera a interrompere i lunghi periodi di duro lavoro. Accorrevano anche genti dai paesi vicini, ansiose di assistere a un divertimento sano, espressione di amore alla terra e ai suoi prodotti.
Erano attesi con ansia e i gruppi di partecipanti si organizzavano con anticipo di settimane sulla data fissata. Quelli arrivati fino a noi hanno subito delle varianti imposte dalle esigenze dello spettacolo, mutate nel corso degli anni.
I maestri di festa provvedevano fin dalle prime ore della mattina a nominare i giudici delle varie gare, i quali dovevano adempiere il loro compito con giustizia ed imparzialità; oltre tutto i giochi comportavano una diretta e immediata valutazione degli spettatori, e difficilmente potevano sbagliare.
Il tiro della fune
Il tiro della fune apriva i giochi nel primo pomeriggio. Favoriva l’esibizione in piazza della pura forza fisica e solleticava i contendenti a far bella mostra dei muscoli di fronte alle ragazze.
La fune doveva avere la lunghezza di oltre venti metri e un diametro da due a tre cm., ma si ricorreva a quelle comunemente in uso tra i muratori. Alla sua metà veniva legato un nastro colorato e a terra, in corrispondenza, era tracciato un segno trasversale. Le squadre, allineate e disposte in quinconce, cioè a scacchiera, una da un lato l’altra da quello opposto, l’afferravano alla distanza di m. 1,80 circa. Queste erano composte per lo più da sei fino a dieci atleti.
Vinceva la squadra che riusciva a tirare dalla propria parte quella avversaria oltre il limite segnato a terra.
Risale a tempi molto antichi e a rituali diversi anche in regioni molto lontane. Alcuni pensano ad una spiegazione di lotta tra forze contrastanti della natura. Una iscrizione riportata sulla tomba di Mezera-Ku di Sakkara del 2500 a. C. la fa risalire a questo periodo e anche a prima. Si è tramandato come uno sport e come tale apparve in Francia nel XVI secolo e in Gran Bretagna nel 1800. Fu introdotto nei Giochi Olimpici dal 1900 al 1920 e sport era considerato in Italia, tanto che nel 1930 si disputavano addirittura campionati nazionali.
Albero della cuccagna
Veniva piantato per lo più fuori Porta Napoli, in piazza Mercato, oggi Piazza Enrico Risi, un palo liscio e dritto, alto non meno di venti metri, unto di morchia ed insaponato abbondantemente, in cima al quale erano poste appetitose cibarie, tra le quali non poteva mancare la «scella di baccalà» e il fiasco di vino.
Vinceva chi riusciva a raggiungere e a staccare i premi appesi; ma ciò si verificava dopo numerosi ed estenuanti tentativi fra le risate e nel divertimento degli spettatori.
Il gioco era ed è conosciuto in molti centri dell’Italia e dell’Europa e vanta origini antichissime. Alcuni studiosi lo ricollegano a culti arborei diffusi in Europa. Intorno ad esso si celebravano fantasiose feste contadine, con intenti propiziatori di ingraziarsi gli dei per un abbondante raccolto.
Le pentole
Venivano attaccate con pece delle monete al centro del fondo nero di fumo di vecchie pentole, usate nei tempi passati al fuoco del camino, e sospese a funi tra la Chiesa di S. Biagio e palazzo Carinola, oggi Comune e Palazzo Picano. Vinceva il premio chi riusciva a staccarle con i denti, avendo le mani legate dietro alla schiena.
È ampiamente diffuso ancora oggi nell’Italia Meridionale, con varianti suggerite da tradizioni locali ed ha il semplice scopo di solleticare spensierate risate.
Pignatte
Le pignatte erano legate per il manico ad una fune tesa tra i due fabbricati precedentemente indicati.
In una erano poste delle monete con dolci; nelle altre acqua, morchia, cenere, crusca, pietre ed altro. I concorrenti, una volta bendati, venivano fatti roteare perché perdessero l’orientamento e la possibilità di individuare quella regina, colma di regali. Ad un segnale convenuto potevano iniziare la caccia e colpire il bersaglio e così essi davano legnate all’aria, a volte addosso all’amico, o spesso a quelle piene di sostanze puzzolenti. Si assicurava la vittoria chi riusciva a rompere l’unica contenente il tesoro.
Il gioco è oggi diffuso, con varianti che cercano di coinvolgere i presenti, anche nelle feste di famiglia e nelle comunità, ma ha perso la gioiosa partecipazione di un tempo.
Maccheroni pepati
Venivano predisposti sul muro, ai piedi della Chiesa di San Biagio, ora Palazzo Comunale, dei tavoli con tanti piatti fumanti di «panemmolle» e peperoncini rossi e amari, oggi di maccheroni conditi abbondantemente di sugo al pomodoro e pepe rosso piccante; vicino era un aiutante di squadra con fiasco di acqua gelida occorrente per attutire il bruciore al palato. I concorrenti dovevano mangiare alla svelta, con le mani legate dietro alle spalle. Vinceva chi riusciva a finirlo per primo.
Il gioco era ed è tipicamente santeliano, testimoniato dalla natura dell’originario pasto messo in gara nei secoli passati; era gioioso e arrecava tanta allegria agli spettatori causando risate a crepapelle.
«Gliu Mammoccio»
Si trattava di un gioco più modesto rispetto agli altri, ma aveva ed ha una radicata tradizione in paese e tutti lo aspettavano con ansia. Fu ripreso per volontà di Benedetto Genovese nel dopoguerra, nel 1946, e dal Comitato dei Festeggiamenti, con la decisa volontà di Oscar Fiorillo.
Si ricollega probabilmente alla civiltà di Roma. Ricorda infatti gli allenamenti dei gladiatori: questi soldati, armati di lancia, correvano lungo una pista per colpire sempre in movimento lo scudo di un fantoccio girevole.
Ma ha più stretti legami con la «corsa all’anello»: un cavaliere al galoppo deve infilare con la lancia il centro di un cerchio pendente da una catena; con la «giostra del Saracino», ampiamente diffusa in città europee e d’Italia: si svolge tra cavalieri a squadre o a coppie, a piedi o a cavallo, armati di lance, o di spade o mazze ed era regolamentata da norme precise, da non trascurare. Queste traevano certamente origine da esercitazioni militari di preparazione a scontri, con studio di mosse di astuzia, che dovevano portare alla vittoria; poi divenne uno spettacolo, con sfide tra contendenti di una stessa città o di città vicine, precedute da un cerimoniale raffinato e spettacolare. Ad Arezzo era chiamato «Torneo del Saracino»: il cavaliere a cavallo doveva avere l’abilità di centrare il bersaglio posto al centro dello scudo di un fantoccio girevole, chiamato Buratto, raffigurante il re delle Indie. Ad Ascoli Piceno, «Quintana»: il cavaliere doveva seguire di corsa un tracciato obbligato e colpire il centro di un cerchio situato al braccio sinistro, altrimenti avrebbe ricevuto un colpo di flagello dalla destra della sagoma mobile.
A Sant’Elia il «gioco del Mammoccio» potrebbe essere stato introdotto da usanze cono- sciute da immigrati giunti nella cittadina per ragioni di lavoro, oppure per invenzione degli abitanti oppure per imitazione delle giostre diffuse in città italiane. Quest’ultima ipotesi può essere la più accreditata, visto che in origine la popolazione era composta anche da cavalieri1. Anzi annotiamo che un giorno del 1287 questi furono obbligati dall’Abate Tommaso I a marciare verso Pietrabbondante per difendere Montecassino dai soprusi di nobili signori locali.
I cavalieri santeliani di quell’epoca, di sicuro nei periodi di stasi, erano solleticati a destreggiarsi, pavoneggian-do, nei tornei locali in abiti eleganti delle grandi parate, e si saranno cimentati in sfide tra di loro; ma poi, nel corso degli anni, per il costo dell’organizzazione, mano a mano tali giostre saranno state trascurate e avranno perso di importanza. Sicuramente il popolo, però, ad esse rimase legato, le avrà semplificate e avrà introdotto le modalità delle tenzoni ridotte a quanto compare ancora oggi nella tradizione.
Normalmente a Sant’Elia erano in genere i giovani che si dedicavano alla sfida nel gioco del «Mammoccio»e si raggruppavano secondo i rapporti di amicizia e di vicinanza della residenza: Dietro a Porta Napoli, Fuorisancataldo, la Portella, Rione San Pietro, La Cortiglia, La Cartèra. Il gioco, arrivato fino ai nostri giorni, consiste nell’abilità del concorrente nell’infilare un piolo, appuntito a una estremità e con comodo manico all’altra, in un foro praticato al gomito del «Mammoccio», un fantoccio di legno pesante, girevole intorno a un palo verticale. L’altro braccio del fantoccio, aperto e disteso, al momento alla spinta da parte del giocatore poteva colpire violentemente alle spalle il giocatore, se non riusciva a fare centro. Il giovane sicché doveva correre e si racconta che gli spettatori per costringerlo a ciò gli assestassero bacchettate alle spalle. Questi a volte, paventando una dolorosa manata di dietro, era costretto a rallentare suscitando allora lo schiamazzo degli spettatori e la squalifica. Proprio per evitare un’andatura tranquilla, il fantoccio veniva issato al termine di un tracciato scosceso, dinanzi alla vecchia Chiesa di S. Antonio, oggi Bar di Germano.

1 M. Lanni, Sant’Elia su Rapido, monografia, Napoli 1873, p. 14: «Nel secolo XIII oltrepassavano i cento gli uomini, che in S. Elia esonerati da ogn’altra prestazione baronale, non erano tenuti (per l’Adoa come dicevasi) che al servizio a cavallo, e con titolo di Milites erano reputati nobili. […] Nicola Mannese di Sicilia nel 1287 fu ascritto a quei del servizio a cavallo per la sua fedeltà ed adesione a Montecassino … Ed il maestro Nicola Leonardo de Clarita di Alvito […]». L’esistenza della classe dei cavalieri nel castellum di Sancto Helia si ricava anche da una narrazione del Gattola. In seguito alla ribellione del 29 aprile 1273 i Santeliani furono costretti a costruire il palazzo badiale e a pagare una penale di 100 once d’oro («sententialiter in centum auri uncias condempamus»). L’abate Tommaso I (1285-1288), successore di Bernardo I Ayglerio, di Montecassino, sempre «indignato contro la popolazione» nel 1287 ordinò che ottanta militi, cavalieri «inter alios fideles nostros de Abbatia infrascriptos nomine de castro nostro S. Eliae […] de servitio equi» andassero in una spedizione militare contro i nobili di Pietrabbondante che si erano impadroniti del casale e di una Chiesa, «[…] quinquaginta ad S.Germanum subeunt, ad locum praedictum proposito satis decenter parati»; ma qui giunti tornarono indietro. Allora l’Abate esperite le opportune indagini e trovati irregolari i loro titoli, li privò delle rendite che mantenevano ingiustamente (Gattola E., Ad Historiam Abbatiae Cassinensis Accessiones, p.379).

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