Da Sant’Ambrogio del Garigliano a Berlino e ritorno La medaglia d’onore a un ex Internato Militare Italiano (IMI): Antonio Tudino

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Studi Cassinati, anno 2015, n. 2
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di Alessandro Tudino*

L’opera di divulgazione svolta dal Centro Documentazione e Studi Cassinati-onlus parallelamente alle sue attività più significative di studio e ricerca ha dato la possibilità di conoscere le opportunità offerte dalla legge 27 dicembre 2006 n. 296 in merito alla «Concessione della medaglia d’onore agli IMI (internati militari italiani)». Prodotta la domanda e riconosciuto il diritto alla concessione nella sua qualità di ex IMI, la medaglia d’onore è stata consegnata ad Antonio Tudino nel corso di una toccante manifestazione tenutasi il 27 gennaio 2015 a Roma presso la Camera dei Deputati.

foto-06«Arrivato a casa, mia madre e le mie sorelle mi videro e di corsa vennero ad abbracciarmi. Le lacrime di gioia e di tristezza insieme si mescolavano». Termina così il piccolo libro La mia prigionia a Berlino. Dall’11/09/1943 al 16/04/1945 di mio nonno, Antonio Tudino. Poche pagine in cui egli ha provato a raccontare 3 dei 5 anni vissuti lontano da casa, lontano, cioè, da Sant’Ambrogio sul Garigliano, paese collocato, come hanno scritto illustri concittadini, su «una ridente collina», «fra le morbide anse del Garigliano». In questo territorio mio nonno, classe 1920, è nato e tuttora vive. Una vita che avremmo potuto dire vissuta interamente a Sant’Ambrogio. Ma così non è. Il periodo fu interrotto, infatti, da quegli anni, anni particolari, anni di guerra. Era il 1940 quando ricevette la chiamata alle armi: da Sant’Ambrogio a Vercelli, a Calamata (Grecia) fino a Berlino, prima prigioniero e poi IMI (Internato Militare Italiano). Una storia, quella degli IMI, che è stata per tanti anni accantonata e inesplorata.
Quando nonno Antonio tornò a casa intese raccontare nel suo ambito familiare l’esperienza maturata in quei terribili frangenti. Ogni momento della giornata era una buona occasione per lui per riportare alla luce alcuni episodi di quel periodo. Sicché, sotto la spinta della moglie, nonno comincia a scrivere e a fissare su carta tutti quei ricordi che instancabilmente, con un po’ di confusione, riaffioravano alla mente. Un racconto, quello di mio nonno, di una guerra meno conosciuta, meno raccontata, rimasta nell’interesse di pochi. Ricordi e maggiori dettagli che si rincorrono ancora adesso:
«Mi trovavo con la mia Brigata (63° Cagliari) a Calamata in Grecia. Il 9 settembre 1943, di prima mattina, veniamo a sapere dell’Armistizio. Solo in quel momento pare ci rendemmo conto che non era rimasto alcun Generale e Colonnello a comandare il nostro gruppo. Era rimasto solo un Maresciallo. Alcuni compagni fuggirono in montagna e continuarono la guerra al fianco dei partigiani greci. Il resto decise di abbandonare le armi e arrendersi ai tedeschi. Di lì a pochi giorni ci radunarono tutti e, ammassati su treni bestiame, ci portarono in Germania. Il viaggio fu tremendo: il freddo era tanto e in territorio serbo una mitragliata ci fece morire di paura. Ci salvammo solo perché i proiettili colpirono la parte alta del vagone e noi ci eravamo subito stesi a terra. Dopo sei giorni di viaggio arrivammo a Berlino. Ci stiparono dentro delle baracche in un campo recintato, sorvegliati a vista. Poi ci diedero da mangiare un po’ di zuppa. Cominciammo così a lavorare forzatamente per la Germania. Ogni giorno c’erano delle persone civili e militari che ci venivano a prendere per portarci a lavorare. Iniziai a lavorare in una fabbrica di mine da mare (Fabrick Lutf Mine) dopo che per alcuni giorni ero servito a sgomberare le macerie. Il cibo era pochissimo (un po’ di zuppa e un po’ di pane per l’intera giornata) e il lavoro tanto e duro. In quella fabbrica stavamo veramente male fino a quando un bombardamento ne distrusse buona parte. Io e altri compagni rimanemmo una notte bloccati nel seminterrato sotto le macerie. Anche in quella occasione fui fortunato. Alcuni giorni dopo ci radunarono tutti. Il proprietario della fabbrica distrutta era insieme a un altro signore. Scoprimmo in quegli istanti che quel signore era il proprietario di un’altra fabbrica e che era venuto lì perché aveva bisogno di manovalanza. A un certo punto, “Tudino! Tudino….Tudinoooo!” cominciò a chiamare il proprietario della vecchia fabbrica. Mi nascondevo in mezzo agli altri. Decisi di non rispondere alla chiamata. Dopo aver chiamato invano il mio cognome per diverse volte, si decisero a continuare. Allora ci spostarono, camminando a piedi e di notte, in un campo di concentramento ubicato nella periferia di Berlino dove c’erano già altri prigionieri italiani, russi, francesi e dove si pativa fortemente fame e freddo.
Poi in un’ottantina ci fecero tornare a Berlino. Ci divisero ed ebbi la fortuna di essere assegnato a lavorare alla Sarotti, una fabbrica di prodotti alimentari destinati alle truppe tedesche in guerra. La fabbrica produceva pane, biscotti, cioccolate, caramelle, marmellate. Vi erano impiegati 700-800 operai. Per la maggior parte russi ma anche francesi, italiani e polacchi. Fin dal primo giorno mi resi conto che la mia scelta era azzeccata. Il rancio giornaliero era più abbondante e il lavoro maggiormente sopportabile. Il mio compito era quello di smistare le materie prime ai vari reparti. Passai lì il resto della mia prigionia apprendendo anche un po’ di russo. Già nei giorni precedenti l’arrivo dell’Armata Rossa avevamo la possibilità di fuggire dalla fabbrica. Infatti i militari tedeschi erano tutti scappati via. Dopo la liberazione decidemmo allora di andare via da Berlino. Eravamo un gruppo di 8/9 persone. Non si contano i chilometri che abbiamo fatto a piedi e con mezzi di fortuna (cavallo e biciclette) con l’intento di avvicinarci il più possibile all’Italia. Così arrivammo fino a Norimberga. Da lì con i camion, su disposizione delle truppe americane, ci portarono a Innsbruk e poi con i treni finalmente in Italia. L’accoglienza che ci riservarono a Bologna fu uno schifo. Ci trattarono come delle bestie! Meno male che dopo una settimana riuscii finalmente ad arrivare a casa».
Insomma, la seconda guerra mondiale vissuta da mio nonno non è una storia comunemente sentita: non è una storia di milioni di caduti, di ebrei deportati, di forni crematori e di torture. È una storia diversa, unica, dovuta alle conseguenze delle importanti decisioni adottate dai governanti. Tra esse, ad esempio, l’Armistizio annunciato l’8 settembre 1943, una notizia inaspettata, inizialmente anche mal interpretata come la fine della guerra. Tuttavia l’annuncio dato da Badoglio non riportava alcuna istruzione sul comportamento da tenersi se non la cessazione di «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane» e un generica indicazione alle forze italiane di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Nell’immediato la posizione più difficile fu quella dei militari italiani, soprattutto di quelli schierati sui vari fronti di guerra, in particolare nei Balcani e in Grecia che furono decisamente abbandonati al loro destino. I militari italiani sui vari fronti furono catturati dai tedeschi e condotti in Germania. All’incirca furono 800 mila1. Subito dopo la cattura o nei campi di internamento fu loro proposto a più riprese di continuare la guerra al fianco delle truppe tedesche prima e della Repubblica di Salò dopo: l’alternativa era la prigionia e il lavoro forzato in Germania. Ciò nonostante quei militari non voltarono le spalle alla Patria. Avrebbero sì potuto imbracciare nuovamente, sotto pressione tedesca, le armi per Mussolini e combattere contro i loro stessi fratelli, ma la stragrande maggioranza rifiutò decisamente, sacrificandosi alla fame, al lavoro forzato e alla lontananza da casa per anni. Pochissime furono le adesioni al reclutamento. I soldati italiani decisero di scegliere la prigionia, il lavoro forzato ovvero, utilizzando il termine che più di qualche storico ed esperto ha ritenuto maggiormente corretto, la schiavitù.
Un altro ‘dettaglio’ interessante ma carico di tragiche conseguenze è rappresentato dallo specifico inquadramento dei militari italiani fatti prigionieri: Italienische Militär-Internierten (IMI, Internati militari italiani). Inizialmente le direttive militari ordinavano che i «soldati italiani che non si mett[evan]ono a disposizione per continuare la battaglia a fianco dei tedeschi d[oveva]no essere disarmati e considerati prigionieri di guerra»2. Poi una nuova direttiva del 20 settembre 1943 disponeva che per «ordine del Führer e con effetto immediato, i prigionieri di guerra italiani non d[oveva]no essere più indicati come tali, bensì con il termine di ‘internati militari italiani’. Nell’ordine di riferimento le parole ‘prigionieri di guerra’ d[oveva]no pertanto essere sostituite con la suddetta nuova denominazione»3. Quest’ultimo provvedimento ebbe conseguenze non indifferenti. Innanzi tutto la scelta fu importante sul piano economico e militare in quanto consentì al Reich di aumentare al tempo stesso sia la forza lavoro nelle fabbriche (utilizzando coattamente gli italiani) sia le forze militari impegnate in guerra (con gli operai tedeschi chiamati al fronte e sostituiti dagli italiani). Altre forti conseguenze derivarono proprio dall’inquadramento: lo status di internato militare italiano, infatti, non rientrava nelle definizioni simili previste dagli accordi internazionali sui prigionieri di guerra. Pertanto i soldati italiani non erano tutelati dalla Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra e ciò si traduceva nell’impossibilità di ricevere aiuti e assistenza da parte della Croce Rossa Internazionale. Inoltre essi erano soggetti alle libere e insindacabili decisioni dei nazisti. Sistematiche furono le violazioni dei principali diritti umani degli IMI per tutto il periodo di prigionia. La qualità della vita, oltre che dal proprio grado militare, variava da campo a campo, da fabbrica a fabbrica, da mansioni a mansioni e dal personale tedesco addetto alla sorveglianza. Le condizioni degli IMI migliorarono solo a partire dalla fine di maggio del 1944 con la modifica, sebbene sempre in contrasto con la Convenzione di Ginevra, a lavoratori civili4. Le stime approntate calcolano in circa 45 mila gli IMI deceduti indipendentemente da azioni di combattimento, di cui all’incirca 20 mila nei campi: il deperimento organico dovuto alle pessime condizioni di vita sopportate e le patologie conseguenti furono fra le prime cause di morte5.
Un ultimo aspetto che va evidenziato è il ritorno in Italia. Dei tanti episodi che mio nonno racconta in relazione al lungo viaggio del ritorno, quello che più mi ha destato interesse, per certi versi rabbia, è l’arrivo a Bologna. Più in particolare, il comportamento che subirono una volta arrivati nel capoluogo emiliano. Furono accolti con spintoni, sputi e offese. Come mio nonno guardava incredulo i suoi compagni lì in quel giorno a Bologna, così io allo stesso modo leggevo le sue parole appena trascritte sul computer. Chiesi allora a mio nonno: «perché?». Mi ha sempre detto di non spiegarsi bene i motivi se non adducendo ragioni di una qualche “appartenenza politica”, presumibilmente e erroneamente ritenuta tout court diversa tra chi accoglieva e chi arrivava. Detto con le parole di mio nonno: «erano i Partigiani che ci trattavano male». Una spiegazione è offerta da Claudio Sommaruga, ex internato militare e deportato politico, ricercatore storico dell’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione), secondo cui il rimpatrio «fu accolto con gioia da milioni di mamme, spose, fidanzate, parenti e amici e con imbarazzo generale dagli italiani: con diffidenza dai politici (fascisti e antifascisti, monarchici e repubblicani, resistenti, dissidenti e attendisti, socialcomunisti e laico/cristiani) e con diffidenza e apprensione dalle autorità, tanto più che gli IMI, per venti mesi, erano stati camuffati dalla propaganda repubblichina come ”collaboratori” e, dall’agosto 1944, come “lavoratori liberi” volontari! Com’erano visti dunque gli IMI? (…) Gli italiani del Centro–Nord (resistenti, dissidenti e attendisti), tendenzialmente repubblicani, vedevano i reduci come relitti di un esercito monarchico, reo d’aver combattuto guerre perse fasciste!»6. Insomma, prima di rientrare nelle proprie abitazioni, ancora un’altra ferita per gli IMI: non essere riconosciuti come connazionali, come cittadini, come persone.
Infine un’altra ferita, l’oblio della loro storia. Per molti anni gli internati saranno messi da parte dagli storici e dalle istituzioni dello Stato con grave danno inferto alla memoria storica e culturale del nostro Paese. Solo grazie alle loro memorie, ai loro diari, ai loro scritti e racconti, alle loro testimonianze, alla loro partecipazione attiva alle iniziative di ricordo delle Guerre mondiali finalmente sono stati avviati studi, ricerche, che hanno documentato e riportato alla storia e nella storia queste persone. E le memorie di mio nonno, sebbene forse con un po’ di ritardo, si inseriscono formalmente in tale contesto. Un piccolo libro che racchiude la storia di un IMI e la storia di Antonio Tudino: anni di storia oggettiva e soggettiva e, in quest’ultimo senso, anni di lontananza, estraneità, di sofferenza edulcorata o non manifestata con evidenza, di coraggio e orgoglio, di gioia e di pace.
Anche lo Stato italiano sembra essersi destato sulla questione degli ex IMI. Con legge 27 dicembre 2006 n. 296 ha previsto la «Concessione della medaglia d’onore agli IMI (internati militari italiani)». Quindi con legge 20 luglio 2000 n. 211 ha provveduto all’«Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti». Una «giornata della memoria», fissata con cadenza annuale al 27 gennaio, tesa a ricordare nella stessa occasione le vittime della Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), la persecuzione italiana nei confronti dei cittadini ebrei, ma anche gli italiani che subirono la deportazione, la prigionia, la morte, nonché «coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati» (art. 1).
Anche mio nonno, Antonio Tudino, ha ricevuto, lo scorso 27 gennaio, la medaglia d’onore concessa ai soldati internati militari italiani dal­le mani del presidente del Senato della Repubblica, sen. Pietro Grasso.


* Colgo l’occasione per ringraziare vivamente  il presidente del CDSC-Onlus per il sostegno e le sollecitazioni che ha inteso offrirmi.
1 G. Schreiber, I militari italiani, internati nei campi di concentramento del Terzo Reich. 1943-1945, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 1997.
2 Archivio Federale – Archivio Militare di Friburgo, RW 4/v. 902: OKW/WFSt/Qu 2 (S) Nr. 005117/43 g.kdos., 9.9.2943.
3  Archivio Federale – Archivio Militare di Friburgo, RW 4/v. 508 a: Oberkommando der Wehrmacht Nr. 005282/43 g.kdos/WFSt/Qu 2 (S) II. Ang., F.H.Qu., den 20.9.1943.
4 Lo stesso Mussolini intervenne presso il Führer al fine di migliorare le condizione degli IMI. La Repubblica Sociale di Salò giunse a istituire un apposto ufficio a Berlino, il SAI (Servizio Assistenza Internati), nel tentativo di offrire assistenza agli internati, che però si rilevò inadeguato (cfr. G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945, Il Mulino, Bologna, 2004; G. Schreiber, I militari italiani … cit.; F.W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1962.)
5 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani … cit.
6 C. Sommaruga, Una storia affossata, Archivio IMI, Quad. 3, Milano, 2004. Per altre testimonianze e valutazioni Cfr. S. Frontera, Il ritorno dei militari italiani internati in Germania (1945-1946), in «Mondo Contemporaneo», 3, 2009.

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