Studi Cassinati, anno 2015, n. 2
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di Francesco De Napoli
Francesco Ciolfi Ed., Cassino 2014, pagg. 160, illustr. b./n.; ISBN 978-88-86810-72-2; € 16
Il volume di Francesco Sabatini1 nasce dalla conferenza, opportunamente rielaborata ed ampliata, tenuta dall’autore nell’ottobre 2012 in Atina in occasione del centenario della pubblicazione del fondamentale Tractatus de differentiis inter ius Longobardum et ius Romanorum di Biagio da Morcone, riguardante per l’appunto le differenze tra il diritto romano ed il diritto longobardo.
Nella Premessa l’autore ricorda come avesse avuto notizia del Tractatus già nei lontani anni degli studi universitari, grazie alla lettura del saggio Medio Evo del diritto di Francesco Calasso, a cui è seguita, in tempi più recenti, la necessaria ed attenta consultazione della preziosa opera a stampa – risalente al 1912 – del medesimo Trattato, a cura di Giovanni Abignente, storico del diritto e deputato al Parlamento agli inizi del secolo scorso.
Biagio da Morcone, la cui data di nascita è ignota, fu uno dei più insigni giuristi del XIV secolo, ecclesiasta e preposito della Chiesa di Atina dal 1331 al 1350, anno della sua scomparsa. Da un diploma del 9 febbraio 1323, risulta che Biagio era stato abilitato da Carlo, duca di Calabria, all’esercizio dell’avvocatura in Terra di Lavoro, Abruzzo, Molise e Capitanata. Con un successivo documento a firma di re Roberto, datato 7 agosto 1338, egli venne nominato consiliarium, capellanum et familiarem.
Il Tractatus, rimasto inedito fino a quando l’Abignente non si fece carico della sua pubblicazione, occupa un posto di primissimo piano tra le fonti giuridiche della storia dell’Italia Meridionale. Nel suo ampio e particolareggiato studio critico, Francesco Sabatini, nel prendere in esame il documento, ne trae spunto per sviscerare lo studio e la conoscenza della Chiesa di Atina nel corso della sua storia, in particolare egli affronta l’annosa quaestio relativa all’esistenza, fin dall’età apostolica – come, in effetti, pare emergere da autorevoli testimonianze -, d’un Vescovado nell’antica Atina potens, come fu definita da Virgilio nell’Eneide. Nella sua singolare “memoria difensiva”, l’autore, ricorrendo ad espressioni e metodologie tipiche delle indagini giudiziarie, esprime un chiaro, per quanto pacato, parere favorevole in merito a siffatta millenaria presenza vescovile, pur lasciando – con spirito francescanamente sereno – ai suoi «pochi lettori la decisione finale sull’intricata vicenda». La tesi positiva è avvalorata da non poche storiche testimonianze, a cominciare dalla fondamentale lettura del Breve Chronicon Atinensis Ecclesiae, manoscritto redatto tra il 1128 e il 1130, secondo cui l’apostolo Pietro, dopo aver fondato la Chiesa di Antiochia e nel corso della sua predicazione evangelica che lo avrebbe portato a Roma, si fermò in Val di Comino, trattenendosi a lungo nella città di Atina. Qui fu ospite del nobile Palaziano e conobbe, in casa di questi, un Galileo che «conduceva vita peregrina, di nome Marco». Istruito alla parola di Cristo, il Galileo ricevette il battesimo, quindi Pietro riprese il suo viaggio per Roma conducendo con sé Marco, «quale nuovo discepolo». Dopo averlo educato severamente «alla perfetta vita cristiana», Pietro decise d’inviare nuovamente Marco «alla città da cui una volta era partito, ordinandogli di predicare lì il Vangelo di Cristo». Il Breve Chronicon così conclude il riferimento a colui che, ancor oggi, viene celebrato in Atina come S. Marco Galileo: «Il suddetto vescovo pontificò anni 25 mesi 5 e giorni 13 (…)».
Francesco Sabatini contesta le diverse tesi “negazioniste” – ossia contrarie all’ipotesi dell’esistenza del Vescovado d’Atina sin dai primi anni dell’evangelizzazione -, concentrando l’attenzione sulla tesi formulata dal celebre storico Herbert Bloch, il quale negò ogni attendibilità al Breve Chronicon affermando, in particolare, che il Marco menzionato nel Chronicon sarebbe da identificarsi, in realtà, con il santo locale di Aecae, la cittadina di Troia in Puglia. Sostiene, tra l’altro, l’autore: «La tesi negazionista è poi smentita dall’esistenza della diocesi atinate in epoca antecedente alla sua aggregazione all’Arcidiocesi di Capua, come avevano già affermato Pietro Diacono ed altri autori, compreso il Giannone». Ma il documento decisivo a favore dell’esistenza del Vescovado è la Chronologia Regum Siciliae – scritta nel 1630 dall’abate e regio storiografo Rocco Pirro e riprodotta in Sicilia Sacra, opera del medesimo autore -, che attesta la presenza del Vescovo atinate Sigeberto (nel testo originale, Sigebertus Atinensis Episcopus) all’incoronazione di re Ruggero II, avvenuta a Palermo il 25 dicembre 1130. Tale documento fu ignorato non solo dal Bloch e dagli altri storici negazionisti ma persino da Marcantonio Palombo nella monumentale opera Ecclesiae Atinatis Historia. Questi, quanto al Vescovado, seguì Paolo Diacono senza tuttavia avvedersi che il lavoro da lui iniziato era rimasto fermo alla fine del secolo precedente. A sua volta, Buonaventura Tauleri nelle Memorie istoriche dell’antica città d’Atina (Napoli, Michele L. Muzio, 1702) accennò a Sigeberto, ma senza i necessari approfondimenti.
Francesco Sabatini sintetizza assai bene il tumultuoso evolversi dell’organizzazione della Chiesa delle Origini, onde evidenziare il lento e spontaneo formarsi di strutture di fatto esistenti e funzionanti – disseminate in realtà territoriali spesso remote e malagevoli -, di conseguenza sfuggite a registrazioni e censimenti di sorta: «La Chiesa delle origini non aveva gerarchia né pertanto era organizzata in diocesi: il termine, che nel mondo romano indicava la circoscrizione amministrativa intermedia tra prefettura e province, fu assunto anche in ambito ecclesiastico soltanto in prosieguo di tempo, allorquando l’espandersi della nuova religione rese necessaria l’adozione di una struttura organizzativa territoriale (…). Soltanto a partire dal V secolo, secondo un percorso che si sarebbe completato soltanto nel IX secolo per essere poi definitivamente consacrato dal Concilio di Trento, si registra la ripartizione delle diocesi in parrocchie (…). Ancora in età normanna, settecento anni dopo Ammiano, la geografia ecclesiastica dell’Italia meridionale era contrassegnata, come scrive il Fonseca, da una miriade di sedi vescovili, tra le quali non figuravano tuttavia, secondo tale autore, non solo Atina ma neppure Gaeta e Sora (Montecassino sarebbe divenuta sede diocesana soltanto nella successiva età angioina)». Dopo aver passato in rassegna la nutrita serie di “prove” in favore dell’esistenza dell’antichissimo Vescovado in Val Comino, Sabatini conclude, con linearità e chiarezza, che il «quadro generale, l’assenza di gerarchia, i profili di natura geografica (…) rendono altamente probabile che, all’epoca, la fiorente Chiesa di Atina godesse d’una sua autonomia e fosse, in altri termini, retta anch’essa da un vescovo, né, d’altra parte, i fautori della tesi negazionista indicano a quale lontana sede vescovile essa facesse capo».
Il capitolo Atina al tempo di Biagio offre ai lettori un appassionato e gradevole excursus sugli usi ed i costumi dell’allora fiorente – relativamente al contesto storico circostante – centro della Valle di Comino, che, come risulta dall’opera del Tauleri, poteva vantare, all’interno del proprio territorio, la presenza di ben quarantuno chiese. Sono note preziose, utilissime per una ricognizione di base sulle tradizioni locali che, a partire dall’Alto Medio Evo, si sono tramandate nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni; pertanto, pagine che, benché validamente poste a corredo della trattazione complessiva, potrebbero anche essere considerate autonomamente.
Grazie ad uno stile narrativo amichevole e confidenziale, l’autore dispiega una conoscenza non puramente accademica circa quelle vetuste memorie – quasi fossero i suoi affetti più intimi e cari -, intrecciandole magistralmente con precisi riferimenti storici, culturali e linguistici. È il caso dell’antico detto – qui ripreso da un recente studio di Alberto Tamburrini (Le origini del dialetto atinate, Cassino, F. Ciolfi Ed,, 2008) -, che recita crudamente, con riferimento alle fondamentali stagioni e vicende dell’esistenza umana: «Gle miéreche camba che la carne uasta, gl’avvocate che la carne pazza, gle pruete che la carne morta», ovvero: «Con la carne malata campa il medico, con quella pazza l’avvocato, con quella morta il prete». Nel ricordare, poi, una nota filastrocca d’Atina, che decanta i passatempi prediletti dagli abitanti del posto, Francesco Sabatini sottolinea che ritrovi dilettevoli ed ameni quali caffè ed osterie erano, in realtà, sconosciuti nel periodo, abbastanza austero e cupo, di Biagio da Morcone; d’altra parte, la loro nascita è da collocarsi intorno alla metà del Seicento, in particolare a Venezia, da dove si diffuse nelle altre regioni d’Italia. Così recita il ritornello: «Atina / piazza, porta, café e cantina / feste e male tiempo / e juorn’ca se passeno» («Atina / piazza, porta, caffè e cantina / feste e cattivo tempo / e giornate che se ne vanno»).
Come osservato da Paolo Bertolini, l’autore conviene che, all’epoca del Tractatus, Atina era una cittadina «laboriosa e schiva, rude e costante, fattiva e discreta secondo il carattere delle genti ciociare». Vigeva, a tutti gli effetti, la rigida tripartizione medievale ben individuata e descritta da Jacques Le Goff: oratores, bellatores, laboratores, vale a dire che esistevano tre categorie sociali ben definite: chi era dedito alla preghiera, chi alla guerra e chi, infine, al lavoro.
Frequenti e ricche citazioni, sempre eleganti e pertinenti, sono tratte da autori quali Marco Tullio Cicerone, Plinio il Giovane, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Amato di Montecassino, Paolo Diacono, Riccardo da San Germano, Ferdinand Gregorovius, Erasmo da Rotterdam, E. Le Roy Ladurie, Thomas Coryate, Benedetto Croce, Marcantonio Palombo, Luigi Tosti, Filippo Ponari, Tommaso Leccisotti, Angelo Pantoni, Luigi Fabiani, Ildefonso Schuster, Cosimo Damiano Fonseca, Francesco Calasso, Mariano Dell’Omo, Alessandro Rosa, Donald J.A. Matthew, Daniel Waley ed altri.
In Appendice al volume, troviamo l’approfondito studio I Regolamenti Governativi per il Ducato di Sora del 1563: il Cinquecento a Sora e i Della Rovere. L’autore, dopo aver sottolineato che «nell’Italia Meridionale la legislazione in senso proprio statutario era, se non del tutto assente, sicuramente marginale», ricostruisce le vicende che portarono all’emanazione, da parte del cardinale Giulio della Rovere (1533-1578), dei Regolamenti del 1563, «un piccolo codice disciplinare, penale e processuale». Ciò, a riprova della totale assenza di autonomia della comunità locale sorana. Fu soltanto nel marzo del 1861 che furono spazzate via le «ultime vestigia del feudalesimo» anche da questa «nobilissima Provincia del Regno italiano», come si legge nella Relazione con cui alcuni senatori motivarono il loro voto favorevole alla proposta di legge per l’abolizione del feudalesimo nel Mezzogiorno d’Italia.
1 Nato ad Atina nel 1937 ed autore di pubblicazioni di notevole pregio, Francesco Sabatini è stato per ben 48 anni magistrato ad Avezzano, Cassino, Frosinone e Roma. Di particolare rilievo le sentenze in materia di terrorismo, anche internazionale, compreso l’attentato al Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, da lui stese quale componente della I Corte di Assise di Appello di Roma, nonché quelle redatte quale componente delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione. Dal 2003 al 2009 è stato docente di diritto civile nella Scuola di Specializzazione per le professioni forensi dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ha curato la pubblicazione dei volumi Diario a più voci (1984) e Monte Meta e dintorni (2003) e ha collaborato al testo Il Ducato di Alvito (1997).
Francesco Sabatini, Montecassino, Roma, Orvieto, Sansepolcro: quel filo sottile che unisce …,
Francesco Ciolfi Ed., Cassino 2014, pagg. 54, illustr. b./n.; ISBN 978-88-86810-76-0; € 10
di Francesco De Napoli
Il significativo volume è stato dato alle stampe in occasione del 70° Anniversario della Distruzione di Cassino e Montecassino. Il breve saggio vuole rappresentare un doveroso, commosso omaggio all’Abbazia Benedettina – come si legge nel sottotitolo dell’opera – nella ricorrenza di quegli inenarrabili, luttuosi eventi.
Rispetto al disteso saggio storico dedicato a Biagio da Morcone ed alla questione relativa alle origini della Chiesa Atinate, qui lo stile si fa più scarno ed incalzante. L’autore mantiene inalterato lo spirito indagatore dell’opera precedente, ma il taglio si presenta, ora, prossimo a quello d’un dossier, ovvero tipico di un’inchiesta comprensibilmente palpitante ma schematica, nella consapevolezza che i settant’anni che ci separano da quella terribile epopea possono dirsi appena sufficienti per tracciare un rapido quadro d’insieme, non certo per trarne delle conclusioni del tutto obiettive e definitive. A Francesco Sabatini, del resto, preme ricostruire non tanto le intricate fasi delle operazioni belliche che avvennero sull’uno e sull’altro fronte – ancor oggi, oggetto di accese polemiche persino tra gli esperti militari –, quanto il destino a cui sarebbero andati incontro i millenari tesori del Cenobio di S. Benedetto, qualora non si fosse provveduto a metterli tempestivamente in salvo, prima dei bombardamenti alleati del fatidico 15 febbraio 1944.
L’autore appare magneticamente attratto dal temperamento oscuro, indecifrabile e bizzarro – spesso mostruoso, in altri casi più umano – di alcuni gerarchi nazisti, particolarmente di coloro i quali si resero protagonisti, nel bene e nel male, di quel prodigioso “salvataggio”, e ne tratteggia con destrezza l’indole.
La mattina del 14 ottobre 1943, il giorno successivo alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania – scrive l’autore – «salirono alla Badia due distinte delegazioni militari tedesche, la prima guidata dal tenente colonnello Julius Schlegel e la seconda dal capitano medico Maximilian Becker». Lo scopo era informare l’abate Gregorio Diamare che il fronte di guerra era ormai prossimo al monastero e che esisteva la possibilità concreta che Montecassino fosse bombardata: bisognava mettere in salvo, al più presto, l’archivio, la biblioteca e le opere d’arte possedute dall’abbazia.
Nonostante le assicurazioni ricevute da “entrambi i belligeranti” – sia alleati che nazisti – che Montecassino non sarebbe stata toccata, l’abate fu costretto a prendere atto del pericolo imminente. Le operazioni d’imballaggio iniziarono subito, tanto che tra il 17 ottobre e il 3 novembre furono effettuati circa un centinaio di trasporti: i beni di proprietà di Montecassino ebbero come destinazione Roma (di cui, parte fu consegnata a S. Paolo fuori le Mura e parte a S. Anselmo sull’Aventino), mentre quelli appartenenti allo Stato Italiano furono dirottati a Spoleto.
La ricognizione si caratterizza per il tono essenzialmente confidenziale ma aspro, reso con un respiro sofferente e, a momenti, quasi affannoso, epperò sempre lucidissimo e tagliente. Con chirurgica precisione, Francesco Sabatini presenta i personaggi dell’infausta tragedia: «Sia Schlegel che Becker erano in forza, a Teano, alla Divisione Hermann Goering, il potente gerarca numero due del regime (…) e famelico razziatore di opere d’arte». Schlegel, direttore dell’ufficio trasporti, era un ometto piccolo, rotondo ed allegro, fervente nazista ed appassionato d’arte; al contrario, Becker, arruolato per la sua professione medica e studioso di materie artistiche (aveva preso parte ad importanti ricerche archeologiche in Medio Oriente), rifuggiva da qualsiasi propensione o indulgenza nei confronti del regime hitleriano. A queste sì controverse pedine del fanatismo nazionalsocialista, l’autore aggiunge il generale Frido Von Senger, già combattente nella prima guerra mondiale, considerato una delle più valorose figure dell’esercito tedesco, per quanto “militare atipico”: per niente «rigido» nelle movenze, anzi «più francese che prussiano», osserva Sabatini. Anglofilo ed antinazista, Von Senger aveva studiato ad Oxford ed amava discutere di musica e di storia, piuttosto che di strategie militari. Nelle sue memorie, Von Senger racconta che, in quei mesi di guerra, aveva percorso la Valle di Comino ispezionandola con cura, preoccupato che le truppe francesi, che avevano conquistato Cardito, potessero aggirare le postazioni tedesche passando per la conca di Atina, definita «un immenso piatto tondo nel bel mezzo dell’Abruzzo». Invero, ad avviso di chi scrive, gli storici hanno finora esaminato in maniera insoddisfacente i motivi per i quali le forze alleate, anziché accerchiare i tedeschi passando per i territori a Nord del Cassinate – ovvero, lungo i confini del Sorano, abbastanza pianeggianti, a ridosso del Parco Nazionale d’Abruzzo-, insistettero con tanta ostinazione nel voler occupare il Sacro Monte.
Sfoggiando doti di non indifferente sensibilità per dei militari del Führer – compreso lo stesso Von Senger, che pure aveva una grande considerazione per l’abate di Montecassino – sia lo Schlegel che il Becker, nei loro rispettivi memoriali, si soffermarono con espressioni di grande stima e, forse, con un pizzico di devozione, nel descrivere la figura di mons. Diamare. In particolare, Schlegel lo dipinse come un «venerando vegliardo ottuagenario (…) superbamente modesto, umilmente dignitoso, conscio della sua alta carica di successore di S. Benedetto (…) una infinita bontà traspariva dalla sua figura». A questo punto, Francesco Sabatini inizia a tirare le somme, sollevando l’interrogativo cruciale: «Perché, la stessa mattina, due ufficiali con storie personali diverse ma pur sempre in forza alla stessa Divisione, salirono separatamente alla Badia?».
Attraverso una complessa serie di riscontri, testimonianze e riflessioni per le quali rimandiamo alla lettura del libro, l’autore afferma che, mentre il fidatissimo Schlegel aveva ricevuto un incarico ufficiale dai suoi superiori, Becker, invece, s’era mosso di sua iniziativa. Una volta che entrambi ebbero notizia, direttamente dall’abate, della visita dell’altro, i due militari nazisti tornarono insieme a Montecassino, «accomunati da un progetto divenuto comune». Inoltre, in seguito ad approfondite ricerche – tra le quali quelle portate a termine da Luca Scarlini, nel saggio Siviero contro Hitler –, è emerso che i beni di proprietà dello Stato avrebbero dovuto fare soltanto tappa a Spoleto, giacché la destinazione finale doveva essere la Germania: ciò, non soltanto per il fatto che l’Italia era passata dall’altro lato della barricata, quanto soprattutto in vista dell’imminente compleanno del carnefice Goering, il quale gradiva, anzi pretendeva, a ogni anniversario il dono di ingenti quantitativi di opere d’arte.
Al riguardo, Francesco Sabatini propende per «la sicura buona fede del Becker, che agì mosso da interessi soltanto culturali». Per quanto riguarda lo Schlegel, invece, l’autore ritiene che la sua condotta presenti «vaste zone d’ombra», a cominciare dalle numerose «reticenze ed omissioni del suo memoriale», che «lasciano presumere che egli fosse pienamente consapevole delle finalità ultime dell’operazione».
Sembra ormai assodato che fu grazie all’intervento del generale Von Senger – a seguito d’una provvidenziale segnalazione di mons. Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI – se i beni giunti a Spoleto, anziché proseguire per la Germania, furono deviati in direzione della Capitale. L’8 dicembre 1943 furono scaricate a Castel Sant’Angelo 260 casse contenenti i beni dello Stato custoditi a Montecassino, a cui seguirono altre 600 casse contenenti opere d’arte dei musei napoletani insieme con beni appartenenti ad altri enti, il tutto proveniente da Montecassino. Tuttavia, da un successivo controllo risultò la mancanza di ben 15 casse della collezione napoletana: erano già state recapitate a Carinhall, in Germania, nel museo privato di Goering.
Il Natale di quell’anno è ricordato a Cassino come quello dei primi bombardamenti sulla popolazione inerme – avvenuti il 10 settembre –, che causarono non poche vittime e rappresentarono un terribile presagio di ciò che sarebbe successo di lì a qualche mese. Gino Salveti affidò agli scarni e strazianti versi di La Santa Notte del ‘43 il dolore di quei giorni. Francesco Sabatini riporta integralmente la lirica del Poeta cassinate, di cui riprendiamo l’incipit: «Montecassino, / questo Natale di guerra / che ha la neve rossa / e i pastori feriti e le culle infrante, / che le pecore dai loro chiusi cacciate / ha disperso, / per noi che a vent’anni / abbiamo fame e sete e desiderio / di padre e di madre / e d’amore / e di lacrime di gioia sul ciglio… / questo Natale vestito da tedesco / non fa nascere Dio questa notte».
Senza scadere negli odiosi e banali schematismi di certe cronologie belliche, come nelle secche di patetici languorismi fuori luogo, l’autore traccia un quadro asciutto e coinvolgente – ovvero, rigoroso e palpitante – degli orrori che insanguinarono il suolo ciociaro, il Lazio Meridionale e la Terra di Lavoro, utilizzando la penna e l’inchiostro a mo’ d’un bisturi impregnato d’alcool, onde vivisezionare ed analizzare quelle antiche piaghe, e tamponarne le ferite. Nel contesto di questa esemplare ricostruzione dei fatti, i riferimenti bibliografici sono presentati in maniera puntuale, armonica e senza orpelli, raggiungendo effetti di grande efficacia, carica, non di rado, di lacerante crudezza: il che riflette un’indiscussa padronanza della materia. Francesco Sabatini sceglie con maestria il momento giusto nel quale introdurre determinati spunti, situazioni o memorie, ad esempio quando descrive le ignobili nefandezze compiute dalle truppe naziste in Val di Comino: «Ad Atina il passatempo preferito dai tedeschi era la caccia quotidiana al vino: per procurarselo sfondavano talora le porte delle cantine, tornavano poi ad ubriacarsi una volta smaltita la sbornia, e tra i fumi dell’alcool sparavano fino a tarda notte colpi di pistola e lanciavano bombe a mano per terrorizzare la popolazione».
In altri passaggi, la coscienza del lettore viene scossa in maniera straziante, fulminante, dalla precisa sensazione, netta e bruciante, del barbaro cinismo con cui le formazioni alleate, tra cui le divisioni indiane e neozelandesi, consideravano il plurimillenario faro di civiltà rappresentato dall’abbazia fondata da S. Benedetto: «A giudizio di F. Tucker ed H. Demoline (…) e del generale B. Freyberg (…), l’unica via d’uscita era il bombardamento del monastero, la cui mole misteriosa e magnifica, secondo altra testimonianza, era tale che le sue centinaia di finestre sembravano altrettanti occhi intenti a scrutare minacciosamente i movimenti delle truppe alleate: era come un leone accovacciato che sorvegliasse tutte le provenienze e tenesse d’occhio ogni movimento di truppa, in basso».
Le pagine finali della toccante ricostruzione compiuta dall’autore riguardano gli accadimenti di cui furono teatro le città di Orvieto e Sansepolcro. Dopo la capitolazione di Roma, la linea difensiva tedesca era arretrata di circa un centinaio di chilometri, all’altezza di Orvieto. Qui, al comando di circa centomila uomini, tra i quali molti veterani dell’Africa Settentrionale, era il tenente colonnello Alfred Lersen, di antica origine ebrea (il suo vero cognome era Levién). Pur essendo un “nazista convinto”, Lersen dovette convincersi, a malincuore, che la guerra era ormai persa, e, sull’esempio dei camerati tedeschi che avevano messo in salvo i tesori di Montecassino, volle salvare dalla distruzione la città di Orvieto, nota nel mondo per il suo incantevole Duomo. Pertanto, nell’approssimarsi dello scontro con le truppe inglesi, egli fece pervenire al comando alleato un messaggio – a cui allegò una foto del Duomo –, con cui chiedeva al nemico di voler considerare Orvieto una “città aperta”. In tal modo, come riconobbe il maggiore inglese Richard Heseltine, Orvieto fu risparmiata «per merito dell’iniziativa del generale germanico». Un episodio analogo – anche se a ruoli invertiti – avvenne a Sansepolcro, dove è custodito lo splendido capolavoro La Resurrezione, donato da Piero della Francesca alla sua città natale, l’opera che Aldous Huxley, durante un viaggio in Italia nel 1925, definì «la più bella pittura del mondo». Vent’anni dopo, a bordo d’un carrarmato, il capitano inglese Tony Clarke – scrive Sabatini – animato da ben altre intenzioni, si dirigeva verso Sansepolcro, occupata dai nazisti. Intenerito ed incantato dalle bellezze del paesaggio toscano, e già profondamente turbato dal clamore suscitato dalla barbara distruzione di Montecassino, Clarke, giunto in prossimità del borgo, impartì comunque l’ordine di sparare i primi colpi. Non avendo ricevuto reazione dai tedeschi, ed immaginando che questi si fossero ormai ritirati, egli trasmise al proprio comando un’azzardata comunicazione, ossia che Sansepolcro era stata liberata senza combattere. Con totale sprezzo del pericolo – e, forse, con una certa incoscienza –, proseguì la pacifica avanzata fino all’ingresso nel pieno centro cittadino, contravvenendo agli ordini e alle regole militari. Fu così che anche il borgo medievale di Sansepolcro ed il capolavoro La Resurrezione di Piero della Francesca furono strappati ad una quasi inevitabile distruzione.
Nel riportare episodi sì emblematici, l’autore pone l’accento, senza alcuna retorica, sui perenni insegnamenti e valori – etico-culturali, nonché di solidarietà e tolleranza – del Sapere e dell’Arte: è la Cultura l’incancellabile filo sottile che unisce…, in grado d’abbattere qualsiasi barriera, onde affratellare, in un unico abbraccio di Pace, tutti i popoli della Terra.
Grimoaldo Di Sotto, L’arte moderna della Cattedrale di Aquino, (a cura di Pietro Montellanico),
Arte Stampa editore, Roccasecca 2014; pagg. 90 illustr. col., f.to cm. 16,5×24; ISBN 978-88-95101-48-4, s.p.
L’agile e interessante pubblicazione è stata presentata al pubblico il 4 giugno 2015 ad Aquino nella Basilica Concattedrale di San Costanzo e San Tommaso, dal vescovo della diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo S.E. Mons. Gerardo Antonazzo, con introduzione di d. Tommaso Del Sorbo mentre il prof. Filippo Carcione fungeva da moderatore.
Molto opportunamente Grimoaldo Di Sotto ha voluto raccontare le fasi che hanno portato alla realizzazione di opere di arte moderna all’interno e all’esterno della Cattedrale aquinate nonché spiegare le motivazioni delle scelte operate dagli artisti da cui sono scaturite le opere realizzate. Innanzi tutto va chiarito che la città di Aquino fu quasi totalmente distrutta dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale. Con la ricostruzione del dopoguerra si giunse anche alla riedificazione della Cattedrale, la quinta nel volgere dei secoli, per volere in particolare del parroco locale d. Battista Colafrancesco. L’edificio sacro fu progettato dall’ing. arch. Giuseppe Breccia Fratadocchia, che aveva già sovrainteso alla ricostruzione del monastero di Montecassino. Una volta realizzata la struttura rimaneva da provvedere alla decorazione interna, nonché dotare la piazza prospiciente di una statua dedicata a S. Tommaso. Si era tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio di quelli Settanta del Novecento e fu allora istituita una speciale Sezione del Comitato esecutivo per le opere da realizzare, posta sotto la direzione di Grimoaldo Di Sotto, la quale, in collaborazione e sintonia con il Comitato diocesano e cittadino, presieduti rispettivamente dal vescovo della Diocesi, mons. Carlo Minchiatti, e dall’arciprete parroco d. Battista, nonché con il responsabile dell’arte sacra del Vaticano, mons. Giovanni Fallani e con l’Amministrazione comunale di Aquino del sindaco Nicola Mazzaroppi, ebbe l’«ardito e impegnativo compito» di selezionare gli artisti e, conseguentemente, le decorazioni di abbellimento proposte. La scelta alla fine si indirizzò su Carlo Maria Mariani (romano, classe 1931, oggi residente a New York, esponente internazionale dell’«Anacronismo») cui fu affidato il compito di adornare il catino absidale posto dietro l’altare, e su Angelo Biancini (Castelbolognese 1911-1988, scultore, autore di varie opere di arte sacra) incaricato della realizzazione di due opere da porre nelle absidi della crociera. Il primo propose e realizzò un ampio mosaico dominato, nella parte centrale, dalla Resurrezione di Cristo. La raffigurazione scelta dall’artista fu quella del Cristo salvifico che dona all’uomo la speranza preferendola a quella che suscita pietà del Figlio di Dio nel sacrificio della Croce. La figura di Cristo, che indossa una tunica bianca e ha raffigurate le ferite della crocifissione, sembra ascendere nella Resurrezione come in assenza di gravità a braccia aperte che ha una «valenza di un abbraccio coinvolgente» più che ripetere la positura della croce. Al di sopra è simboleggiato l’«Essere Supremo», rappresentato dall’artista «come una sorgente di luce emanante dall’oro in quanto non bisognevole di luce ma esso stesso generatore di luce». Dei «caldi raggi» scendono «fino a lambire la figura del Cristo-Uomo» da cui si irradiano una serie di fasce a rappresentare la grandiosità della vita umana e l’«insieme è tutta una festa di tonalità cromatiche che coinvolgono l’occhio, prima ancor che la mente, in una sintesi stupenda di storia e di fede». Al di sotto del Cristo vi è un capitello su cui è posta una Bibbia a simboleggiare l’uno l’arte prodotta dell’uomo, l’altra il dono della rivelazione divina. Ai due lati del Cristo, un po’ più in basso, vi sono due figure: a sinistra quella di S. Tommaso d’Aquino e a destra quella di S. Costanzo vescovo. Inoltre vi sono due raffigurazioni topografiche della città di Aquino, quella di sinistra è l’Urbs federata cioè l’Aquinum di epoca romana, quella di destra è l’Oppidum comitiale cioè l’Aquino medievale. Le rappresentazioni della città sono in una posizione che cronologicamente risulta opposta ai due santi raffigurati. Una scelta voluta dall’artista in modo che San Costanzo rivolga lo sguardo verso l’Aquino romana, mentre San Tommaso verso l’Aquino medievale. Nel mosaico sono presenti dei simboli, alcuni dei quali dedotti dalla Summa Theologiae del filosofo aquinate, e delle scritte: «Scientiarum syntesis», «De Deo Uno et Trino», «De Eucharestia», «De Creatione Mundi», oltre all’indicazione di nome e cognome dell’artista «Carlo Mariani» e di «Carolus Epus Fedit» cioè mons. Carlo Minchiatti, vescovo della Diocesi, che contribuì anche a titolo personale alle spese dell’opera. Carlo Mariani volle decorare anche lo spazio superiore la catino absidale assegnandogli una funzione di cornice. Vi raffigurò una bianca colomba a simboleggiare lo Spirito Santo che discende e illumina le menti, con la frase «Ecclesia Aquinen. Divo Toma. Praeclaro Filio Dicavit Anno D. MCMLXXIV» e quindi, a sinistra, è riprodotto lo stemma papale di Paolo VI e, a destra, quello del vescovo diocesano Carlo Minchiatti sormontato dal «Sole di Aquino».
Nelle due absidi della crociera della chiesa cattedrale, invece, furono collocati altrettanti pannelli di scultura maiolicata realizzati da Angelo Biancini. Quello di sinistra rappresenta il battesimo di Gesù nel Giordano nel quale si stagliano le due figure di Cristo e S. Giovanni Battista che hanno i piedi immersi nell’acqua dove sguazzano alcuni pesci dal preciso riferimento iconografico. Quello di destra raffigura una Madonna in trono con bambino. La Madonna ha in testa un copricapo come quello «usato dalle popolane di questa terra», mentre Gesù Bambino è raffigurato con un «Sole in petto» che è una «simbolica trasposizione di S. Tommaso Infante» poiché ha sul «petto il Sole come il Dottore Angelico».
Anche il sagrato antistante la concattedrale fu abbellito con la una statua raffigurante S. Tommaso. Un «ambizioso» progetto originario prevedeva di affidare la realizzazione a Carlo Maria Mariani unitamente all’architetto Roberto Mauti. Tuttavia le ridotte disponibilità economico-finanziarie del Comitato portarono a un drastico ridimensionamento del progetto per cui gioco forza fu necessario affidare l’incarico ad Angelo Bianchini che aveva già realizzato i due pannelli di scultura maiolicata e che «a un prezzo di puro favore», in sostanza chiedendo il solo rimborso spese per i materiali, accettò. L’artista volle rappresentare S. Tommaso come un asceta alto e magro con il voto rivolto verso l’alto e con sul petto il Sole e il libro aperto della Summa Theologiae. A prescindere dalle leggende metropolitane nate sulla base del confronto tra la rappresentazione, «asciutta e magra», data dall’artista alla statua somigliante alla figura di Grimoaldo Di Sotto per cui quest’ultimo, secondo dicerie di paese, si sarebbe fatto fare il «monumento in piazza», dall’estate del 1974 Aquino si poté dotare di una statua di S. Tommaso collocata in tempo per la visita di papa Paolo VI, «pellegrino nella terra che aveva dato i natali al Dottore Angelico» il 14 settembre 1974.
Il volume risulta arricchito da numerose fotografie che permettono di apprezzare anche nei particolari le opere realizzate dai due artisti. In definitiva, come scrive Pietro Montellatico nella Prefazione, «Siamo veramente di fronte, in questa chiesa, ad un “manifesto” d’arte sacra in chiave moderna che l’autore di questo saggio, con l’analisi critica di lettura, svela a tutti noi per una migliore fruizione della simbologia di cui è pervasa» (GdAC).
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