Studi Cassinati, anno 2014, n. 3
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di Alberto Mangiante
Nell’ambito delle manifestazioni per il Settantesimo anniversario della distruzione della città di Cassino e della sua Abbazia, la F.I.D.A.P.A., nella persona della sua presidente Alessandra Casale Bartolomucci, ha organizzato presso la biblioteca comunale Pietro Malatesta un interessante convegno sulla presenza femminile nelle battaglie che interessarono il territorio cassinate.
Introdotto l’argomento dalla presidente, hanno preso la parola prima il sindaco Giuseppe Golini Petrarcone, quindi il giornalista Vittorio Macioce capo redattore de “Il Giornale” e, infine, la prof.ssa Silvana Casmirri che, partendo dalle battaglie intraprese dalle donne per la loro emancipazione già dalla fine dell’Ottocento e proseguite poi per il secolo scorso, si è soffermata in particolare sulle vicende della seconda guerra mondiale e della ricostruzione, fino ad arrivare alla conquista del voto politico e alla scalata delle posizioni sociali un tempo a esclusivo vantaggio maschile. È seguito poi il racconto di due delle protagoniste di quegli eventi, all’epoca poco più che adolescenti, la sig.ra Laura Santoro e la sig.ra Anna Margiotta. La prima aveva già raccontato in un volumetto le memorie sui fatti avvenuti durante la guerra, mentre della sig.ra Margiotta pubblichiamo i suoi ricordi qui di seguito.
Ricordi di guerra di Anna Margiotta
In occasione del 70° anniversario della distruzione di Cassino, mi è stato chiesto di portare una testimonianza sull’odissea della mia famiglia negli anni 1943-1944. Queste vicende sono state ricordate mirabilmente da tanti scrittori di Cassino, dall’avv. Tancredi Grossi, dal dott. Antonio Ferraro, dal prof. Gigante, dal dott. Alberigo, dal dott. De Rosa e da tanti altri valenti scrittori più bravi e preparati di me. In effetti, la storia della mia famiglia è simile alla storia di tutte le famiglie di Cassino che vissero la tragedia della guerra con la perdita dolorosa di persone e cose.
Mi presento, mi chiamo Anna Margiotta, sono nata a Cassino nel lontano 1934 e quindi nel 1943, quando è cominciato il calvario di Cassino, avevo 9 anni. La mia famiglia era composta da numerose persone: mio padre, mia madre, le mie due sorelle, i nonni paterni, la sorella di mio padre, fuggita da Roma dopo il bombardamento di San Lorenzo con due bambini piccoli, il cui marito, ufficiale di carriera era stato fatto prigioniero in Africa ed infine un delizioso carissimo zio, fratello di mio nonno, uomo conosciutissimo nella Cassino di allora, il commendatore Giobbe Margiotta.
Per quello che io ricordo – sia mia sorella che i miei cugini Morra mi chiamano la memoria storica della famiglia – il nostro calvario cominciò tra il 19 ed il 20 luglio 1943, la notte in cui fu bombardato l’aeroporto di Aquino. Il fragore delle bombe che scoppiavano ininterrottamente sconvolsero tutta la zona e tutti i cassinati, soprattutto la mia famiglia, perché proprio quella notte nacque la mia sorellina più piccola che poi è morta per gli stenti e i disagi che la guerra ci inflisse, tanto è vero che è ricordata assieme a zio Giobbe nel martirologio accanto al monumento ai Caduti in piazza De Gasperi.
Il giorno 8 settembre c’era stato l’armistizio e tutti ritenevano la guerra finita. Grande gioia, grande felicità, poi la doccia fredda … “la guerra continua” si apprese dal comunicato di Badoglio alla radio. Noi italiani, fateci caso, non abbiamo mai conclusa una guerra con i primitivi alleati, ma nel corso dei confitti abbiamo sempre cambiato alleanze. In questo momento da che eravamo alleati dei tedeschi ci trovammo a divenirne nemici, nonché il nostro paese ad essere occupato militarmente.
Ed eccoci arrivati al 10 settembre, giornata fatale per Cassino.
In mattinata, con la popolazione che festeggiava ancora la fine della guerra, vi fu uno spaventoso bombardamento alleato che sorprese la città inerme ed ignara della ria sorte che le sarebbe toccata, seminando distruzione e morte.
Oltre un centinaio di persone furono le vittime, ma il numero esatto non fu mai accertato. Si capi subito che la guerra si sarebbe fermata a lungo a Cassino perché gli alleati, dopo lo sbarchi in Sicilia e a Salerno, avanzarono celermente e nel loro percorso verso Roma si sarebbero imbattuti in una strettoia a “cul de sac” costituita dalla montagna di Montecassino e dal fiume Gari, baluardo naturale di difesa, citato anche nei libri di strategia militare.
La popolazione si rifugiò subito nei paesetti di montagna che fanno corona a Cassino, oppure nelle contrade di Sant’Antonino e San Michele e nell’abbazia di Montecassino, accolti fraternamente dall’abate Diamare e dai monaci benedettini.
Con la mia famiglia ci trasferimmo a Valvori dove vi erano molte abitazioni disponibili perché gli emigranti di quel paesino, con i loro sudati guadagni all’estero, avevano costruito delle confortevoli case per quando in vecchiaia si fossero ritirati nel proprio luogo nativo.
Fittammo una casa al centro della piazza principale e alla mia famiglia si aggiunse la sorella di mia madre con il marito, i suoceri e due cameriere che erano rimaste isolate dalle loro famiglie.
Eravamo una tribù formata da vecchi, donne, puerpere, neonati e bambini, di cui io ero la più grande. Questo numerosissimo nucleo famigliare era diretto (si fa per dire) da due soli uomini validi, cioè mio padre e zio Peppino Morra, i quali dovevano provvedere alle necessità di reperire cibo per tutti noi. I nostri due eroi uscivano all’alba e tornavano la sera per schivare le retate che facevano i tedeschi che prendevano gli uomini validi a lavorare per le trincee e altre forme di difesa.
La sera al rientro portavano a casa farina, per lo più di mais, uova, carne di animali che i contadini uccidevano di notte per non farli requisire dai tedeschi. Noi siamo stati abbastanza fortunati a non avere sofferto la fame perché, essendo mio nonno l’orefice più importante di Cassino, avevamo salvato l’oro del negozio e quindi si barattavano generi alimentari con spille, orecchini, braccialetti, ecc.
Man mano che la guerra si faceva più cruenta e i bombardamenti su Cassino erano quasi quotidiani, i pericoli aumentavano e non si sapeva quale sarebbe stata la nostra sorte. Si cominciò a vociferare infatti di evacuazione delle zone di guerra e di trasferire al nord le popolazioni. Tutte queste notizie finivano di impressionare gli adulti e mia madre, pensando che potevamo essere divisi, confezionò tante borsette di oggettini d’oro per dotarne ognuno della famiglia, soprattutto i bambini, perché diceva che chi li avesse trovati almeno gli avrebbe dato da mangiare.
Questo era il clima che si viveva a Valvori.
A metà gennaio del 1944 l’evacuazione, come previsto, avvenne e fummo caricati di notte su dei camion militari e, per strade impervie e pericolose, attraversammo tutta la città di Cassino che era già diventata spettrale sia per i bombardamenti continui sia per le opere di difesa disposte dai tedeschi. Quella notte sentivo scorrere le lacrime dagli occhi degli adulti che vedevano le loro case distrutte e ricordo anche il lento sgranare del Santo Rosario che la mia cattolicissima nonna Alessandra aveva intonato non appena fummo partiti.
Arrivammo all’alba a Ferentino dove era stato allestito un campo di concentramento per poi trasferire gli sfollati al nord Italia.
Mio padre e mio zio probabilmente pagarono i custodi del campo e la notte successiva fuggimmo alla chetichella pochi per volta con la complicità della famigli Cibelli che viveva a Ferentino. A questo punto la tribù si sciolse, i Morra con un carretto di fortuna raggiunsero Giuliano di Roma dove mio zio Augusto Morra era medico condotto e la sorella di mio padre con i bambini tornò alla sua casa di Roma che era rimasta intatta. Il mio nucleo famigliare si rifugiò a Fiuggi, nella pensione Esperia gestita da una amica di famiglia.
Per noi sfollati anche il soggiorno a Fiuggi Fonte diventò pericoloso perché al Palazzo della Fonte vi si era stabilito il supremo comando tedesco e quindi c’era sempre il pericolo di essere mandati al nord. Ci trasferimmo a Fiuggi città perché mia madre non intendeva muoversi da Fiuggi dove io dovevo frequentare quello scorcio di quinta elementare e sostenere l’esame di ammissione al fine di non perdere così l’anno scolastico. Affittammo una casa dall’arciprete don Pietro che per la verità ci accolse bene; non cosi i cittadini di Fiuggi che trattavano gli sfollati come oggi tante persone trattano gli extracomunitari. A Fiuggi siamo rimasti un anno, io ho sostenuto i famosi esami e finalmente arrivarono gli americani.
In questo periodo morì il carissimo zio Giobbe e mio padre, che aveva trovato un impiego presso la Prefettura di Frosinone, provvisoriamente dislocata Fiuggi, contattò un camion militare di passaggio per Napoli ed ottenne che la bara dello zio fosse traslata a Cassino ma non al camposanto, bensì al bivio del cimitero considerato che il paese era tutto un campo minato e l’autista non volle rischiare. A piedi, lasciata la bara sul ciglio della strada, mio padre si recò dai parenti Varlese che erano rientrati nelle loro case, e con un carretto fu aiutato a tumulare lo zio nella tomba di famiglia, senza neanche un prete a benedire la salma. Papà tornò a Fiuggi dopo 12 giorni, fatti metà a piedi e metà con mezzi di fortuna, con il pallino di tornare a Cassino con tutta la famiglia. Ma a Cassino non c’erano case, per cui nel febbraio del 1945 da Fiuggi ci trasferimmo a Sant’Elia Fiumerapido dove io ritrovai i miei compagni di scuola delle elementari, nella scuola media, che due pionieri della rinascita di Cassino, il prof. Di Zenzo e la prof.ssa Ambrosini avevano allestita a Sant’Elia. Ci vollero ancora alcuni mesi di diaspora prima di rimettere piede a Cassino.
Nel frattempo erano morti anche i nonni che non avevano retto alla disperazione e al dolore. Mio padre fu eletto alle elezioni con l’amministrazione dell’avv. Di Biasio assieme agli avv.ti Luigi Colella e Tancredi Grossi che furono i precursori della rinascita di Cassino. Ci fu assegnato un appartamento nella prima casa popolare, il palazzo dell’INCIS, che dopo tante peregrinazioni ci parve una vera reggia. Contemporaneamente furono ripristinate le scuole ed il liceo classico “Giosuè Carducci”, anche ad opera del preside dott. Giuseppe Fargnoli,
Dopo molte lotte tornò a Cassino il tribunale, collocato provvisoriamente in quel di Sora. Nonostante le perdite di persone e cose la vita della nostra città riprese alacremente. Nella mia famiglia eravamo partiti in otto e siamo ritornati in quattro. Queste sono le conseguenze delle guerre e il prezzo che abbiamo pagato insieme a tutti gli altri cassinati. La mia generazione non ha conosciuto la serenità dell’infanzia e neppure la spensieratezza dell’adolescenza. Ma tant’è, sono passati 70 anni e con l’aiuto di Dio siamo ancora qua.
Mi piace citare a questo punto i versi di un poeta cassinate, il compianto prof. Salveti, e ogni volta che li leggo mi commuovo sempre perché sono una “CASSINATE VERACE”. Dice il poeta:
“Bella Cassino, quella del cuore
Come l’immagine del primo amore
e quella “martire” risorta ancora
come per magica splendida aurora
accetta in dono del tuo cantore
questi versicoli fatti d’amore
di rime che hanno il cuore in bocca
di chi nacque un di sotto la rocca”
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