La lunga stagione della guerra

 

Studi Cassinati, anno 2014, n. 1
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di Costantino Jadecola

2014-01-04Giuseppe Arciero, detto Giose, un’esperienza da emigrato in Francia conclusasi il 10 giugno 1940, all’indomani della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, a quelli della sua contrada, dalle parti di monte Trocchio, tra Cervaro e Cassino, molto timorosi per il negativo evolversi della situazione, aveva detto di stare tranquilli: «Se vogliamo vedere la guerra, dobbiamo andare giù alla Sordella, sulla Casilina. Là passeranno i soldati!»1.
La stessa positiva convinzione del papà di Luciano De Crescenzo che, dopo un lungo, attento e approfondito esame di una carta del Touring Club, giunse infine alla conclusione che Cassino era «il posto più sicuro del mondo» dove attendere l’evolversi degli eventi. Era, diceva, «un luogo silenzioso, pacifico, dove non succede mai nulla, dove non escono nemmeno i giornali»2. Quello, in sostanza, che poi sarebbe diventato il «ventre della vacca»3.
Ignoravano, però, sia Giose che il papà di De Crescenzo, ma, in fondo lo ignoravano un po’ tutti, di sicuro chi abitava da quelle parti, che «da anni le accademie militari italiane indicavano Cassino come esempio di barriera naturale imprendibile, e generazioni intere di ufficiali avevano combattuto immaginarie battaglie di Cassino nel corso dei loro studi d’arte militare»4.
Stavolta, però, era tutto vero. Si trattava in sostanza, di mettere in pratica certe teorie. La qualcosa, peraltro, avvenne in un batter d’occhio. Come dire, dalla sera alla mattina.
Infatti, mentre le forze terrestri alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, avevano appena iniziato in Sicilia il loro attacco all’Italia, l’aviazione (alleata), dal canto suo, aveva cominciato a darsi da fare nel tagliare i ponti alle spalle del nemico con il fine di incastrare i tedeschi – ed anche gli italiani, che dei tedeschi erano alleati – e rendere loro più difficoltoso l’approvvigionamento di armi, munizioni e viveri.
Erano passati appena dieci giorni dallo sbarco, quindi la guerra stava svolgendosi altrove, molto lontano da noi, quando nella notte fra il 19 e il 20 luglio 1943, fra le tenebre violentemente squarciate, per più ore e in due diverse fasi, l’aeroporto di Aquino fu sottoposto dall’aviazione alleata ad un bombardamento a tappeto che, peraltro, oltre ad essere il primo rilevante fatto bellico del Lazio meridionale, sarà il primo di una lunga serie sullo stesso obiettivo.
Uno spettacolo, se volete un tragico ma “affascinante” spettacolo, che creò sgomento, tormento e paura non solo nella valle del Liri ma anche al di là dei monti, tanto fu potente.
Insomma, era cominciata. La guerra era cominciata così di punto in bianco. E fu subito terrore. Un terrore che si sarebbe protratto ben oltre la fine delle ostilità e che sarebbe diventato sempre più cupo. E fu con quello spettacolo che non vantava precedente alcuno – lì per lì, confuso da qualcuno con l’aurora boreale – s’iniziò a fare i conti con inaudite sofferenze.
Come se ciò non bastasse, tempo dopo, mentre la calda estate del 1943 stava ormai volgendo al termine, l’Italia decide di cambiare alleato. I nuovi governanti – Mussolini è stato estromesso il 25 luglio – ritengono che forse è il caso di troncare l’alleanza con la Germania, cioè con quelli che sino ad allora erano stati i nostri amici, e di schierarsi al fianco degli alleati, cioè con quelli che sino ad allora erano stati i nostri nemici.
Il tutto venne reso noto l’8 settembre creando false attese tra la gente che, lì per lì, si ritenne in diritto di credere che la guerra fosse finita, forse per dare un senso ad una recondita speranza che ci si portava dentro.
Ma così ovviamente non è anche perché nel proclama che annuncia l’armistizio si dice chiaramente che la guerra continua, però, questa la novità, non più a fianco dei tedeschi bensì degli alleati.
Ne consegue che, mentre in terra i tedeschi impazzano con tutto l’odio che si portano dentro anche per il tradimento subito, gli alleati di fatto sono i padroni del cielo.
Gli obiettivi dei loro aerei sono generalmente impianti aeroportuali, snodi e scali ferroviari, ponti, ovvero tutte quelle strutture essenziali per l’efficienza dei collegamenti. C’è da dire, però, che non sempre gli obiettivi vengono centrati cosicché, quando ciò accade, e accade piuttosto spesso, allora a subirne le conseguenze è generalmente la popolazione civile. La gente.
Secondo l’Istituto centrale di statistica in Italia sarebbero state quasi 65mila le vittime civili dei bombardamenti angloamericani. Per limitarci alla nostra provincia, secondo dati della prefettura del tempo, la quale precisa, però, trattarsi di dati approssimativi non essendo «giunte notizie da molti comuni evacuati, si è potuto accertare che il numero complessivo delle incursioni aeree sul territorio della provincia al 31 marzo 1944 è stato di circa 330: i morti accertati ascendono a 1.336 e i feriti a 1.840»5. Un’ecatombe.
Insomma, qui da noi la guerra arriva subito: dieci giorni dopo l’inizio della cosiddetta “campagna d’Italia” la quale, come è noto, ebbe come estreme date di riferimento il 10 luglio 1943, il giorno dello sbarco dell’esercito alleato in Sicilia, e il 25 aprile 1945, data simbolo della fine del conflitto nel nostro paese. In tutto, ventuno mesi. Cioè 655 giorni.
Ebbene, di questi, almeno dieci mesi, pari a 322 giorni, quasi la metà dell’intera “campagna d’Italia”, si svolse qui da noi, nella regione meridionale del Lazio. La guerra, cioè, impazzò a lungo nelle nostre valli, sui nostri monti, nelle nostre pianure, tra i nostri corsi d’acqua. Tra di noi. Tra la nostra gente.
Da quando «abbandonammo le case e ci rifugiammo in campagna», ha scritto Anacleto Verrecchia, il filosofo-germanista originario di Vallerotonda, «tra fame, freddo, ferite e lutti avevamo provata tutta la gamma delle sofferenze umane. Chiusi in quell’inferno, ne conoscemmo il fondo quando rimanemmo intrappolati tra i due fronti ed esposti al fuoco concentrico dei due eserciti, che si combattevano rabbiosamente a distanze spesso ravvicinate. Trascorremmo alcuni mesi di quella vita in capanne umide e gocciolanti, di dove uscivamo solo per andare a rovistare in cerca di cibo, come sciacalli e cani affamati, qualche trincea o postazione abbandonata»6. Nonostante tutti i guai che capitarono alla gente ed al territorio nella seconda metà del 1943, più che di guerra, forse, si trattò di uno stato di disagio, oggi lo si chiamerebbe così, se questo lungo tempo di sofferenza non ha avuto nemmeno il piacere, si fa per dire, di essere riconosciuto come tale. Insomma, un tempo di guerra non legittimato dalla cronaca e dalla storia tant’è, ad esempio, che non gode di un consono ricordo l’iniziativa del capitano medico Massimiliano Becker e del tenente colonnello Julius Schlegel – cui non mancò il sostegno, spesso sottaciuto, del generale von Senger – che a metà ottobre del 1943 si attivarono, pur tra il comprensibile scetticismo dei diretti interessati, ovvero dei monaci, per tentare di preservare da una eventuale distruzione il considerevole patrimonio artistico e culturale custodito presso il monastero di Montecassino.
Così come viene puntualmente ignorata quella strage che, quando il 1943 sta per finire i suoi giorni, il 28 dicembre, si consuma per mano tedesca sulle Mainarde, a Collelungo, con il sacrificio di 42 vittime innocenti, tra cui un consistente numero di donne e, soprattutto, di bambini.
Ma questa strage, i diversi bombardamenti aerei alleati che in quei mesi funestarono il territorio e le altre innumerevoli nefandezze, violenze o fatti d’arme, insomma tutto ciò che ha tormentato la regione meridionale del Lazio dal 19 luglio agli inizi del 1944, sembrerà strano, ma non sono guerra, non fanno parte di quella guerra. Se volete, solo un diversivo alla monotona ritualità quotidiana.
Ci sono, infatti, almeno sei mesi di sofferenze, oltre 180 giorni di quei 322 in cui il Lazio meridionale ha vissuto in uno stato di guerra, che sono ignoti e/o ignorati come tali. E per rendersene conto basterà dare uno sguardo ai molti testi, quelli importanti, di levatura nazionale ma anche internazionale, che snobbano ciò che accadde nella regione meridionale del Lazio tra luglio del 1943 e gennaio del 1944 interessandosi alle vicende belliche del territorio solo a partire dal 17 gennaio 1944.
È da questa data, infatti, che, secondo storici anche emeriti, inizierebbe quella che sino ad una decina di anni or sono era universalmente nota come «battaglia di Cassino» ma che poi un signore prestato alla politica, sottosegretario nel governo Dini, ha fatto in modo che si chiamasse «battaglia di Montecassino» forse per acquisire benevolenze in “alto” ed assicurarsi un posto in paradiso.
Nel parlare dell’altra guerra, diciamo di quella “certificata”, che iniziò la notte del 17 gennaio 1944, non può non rilevarsi che essa per l’esercito alleato fu subito non solo una sconfitta militare ma una grande tragedia umana. E l’inizio di tutta una serie di insuccessi per l’esercito alleato che annoverano tra essi l’inutile distruzione dell’abbazia di Montecassino del 15 febbraio e l’accanimento, un mese dopo, su Cassino: tonnellate di bombe non cavarono un ragno dal buco e servirono solo a livellare il territorio rendendolo simile ad uno sconnesso deserto di pietre.
La gente, dal canto suo, riscoprì anfratti ancestrali e cercò lidi più tranquilli in quello che fu un altro dei capitoli più inquietanti conseguenza della tragedia bellica: lo sfollamento. Se fino ad allora si era cercato scampo in luoghi ritenuti più sicuri prossimi a quelli abituali, con lo sfollamento c’è un esodo se non di massa comunque consistente verso le più tranquille regioni del Nord, anche questo un evento cui sin qui non è stata dedicata quell’attenzione che esso forse meritava e che, se così non fosse stato, avrebbe potuto schiudere altri risvolti.
Oggi si celebra il giorno della memoria. Ed è giusto che sia così. Ma di celebrare la memoria delle nostre sofferenze, delle sofferenze della nostra gente, non è mai passato in testa a nessuno forse perché la cosa comporterebbe un impegno decisamente più gravoso di quello che, con il conforto di una buona dose di pietismo di facciata, è più facile risolvere attingendo alla grande storia, ovvero alle note, solite storie che oggi su Internet si trovano a buon mercato.
Eppure qui convennero giovani da tutte le parti del mondo. Rappresentavano, probabilmente, i cinque continenti ed erano giunti al fatale appuntamento di sangue e di morte, chi per conquistare, chi per difendere, un palmo di terra e di fango.
Il tutto, tra l’iniziale incredulità della gente del luogo che, seppur avvezza ad importanti appuntamenti con la storia, mai più avrebbe pensato di trovarsi al centro di un ciclone, né più né meno come ai loro antenati era già accaduto di trovarsi quando questo passaggio obbligato costituito dalle valli del Sacco e del Liri fu sconvolto dal furente irrompere dei Romani e dei Sanniti, dei Cartaginesi di Annibale, dei Goti di Alarico, dei Vandali, degli Eruli, dei Longobardi di Zotone, di Teodorico, dei Saraceni, ecc. ecc. ecc.
Niente, comunque, nemmeno lontanamente paragonabile a ciò che accade settant’anni or sono: qualcosa che non era mai accaduto prima. Soprattutto per via di tutte le diavolerie che contraddistinguono una guerra moderna quale essa era.
La qualcosa fece si che il tutto non si esaurisse nell’arco di tempo prettamente bellico: infatti, il peggio doveva ancora arrivare ed arrivò, puntuale, a guerra finita. Con il cosiddetto dopoguerra.
Un peggio che, a livello di “conseguenze” morali e materiali, si trascinerà per anni come un rosario di guai difficilmente verificabili nella loro globalità e difficilmente immaginabili nella loro gravità: un’assistenza sanitaria praticamente inesistente a fronte di vere e proprie epidemie, un mare di macerie e quindi grossissime difficoltà a trovare un tetto sotto il quale proteggersi, la terra letteralmente bruciata e dunque in grado di non poter assicurare nemmeno un filo d’erba, residuati bellici sparsi dappertutto ma dei quali, nonostante l’evidente pericolo, si andava a caccia per ricavare dalla loro vendita qualche lira. A parte, beninteso, che non si finisse dilaniati da uno scoppio incautamente provocato: alcuni morirono, moltissimi ne portarono sul corpo i segni indelebili per il resto della loro vita. Qualcuno, ma solo qualcuno, si arricchì.
Oggi, invece, tutto è stato banalizzato. Anche il valore, se volete, perché, sempre un paio di lustri or sono e sempre per iniziativa del richiamato sottosegretario sono state distribuite a piene mani medaglie al merito civile anche a chi da quella guerra era stato appena sfiorato, purché ci fosse una delibera consiliare che ne attestasse il diritto. A tutti, tranne a chi, forse, la meritava per davvero. Come, le 42 vittime della strage di Collelungo a Vallerotonda.
Ma la molteplicità dei risvolti di quella stagione di guerra e di dolore sono infiniti. Pensi ancora alla sua lunghezza e ti chiedi come mai gli alleati, che pur erano di molto superiori per uomini e mezzi ai loro avversari tedeschi, impiegarono il tempo che impiegarono per sfondare la linea Gustav, ammesso e non concesso che quella attesa fosse per davvero finalizzata ad attendere lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944.
Rabbrividisci al pensiero, come lo si è detto da fonti autorevoli, che l’intera campagna d’Italia sia stata addirittura qualcosa di inutile, così come lo fu la distruzione di Montecassino, e non puoi non pensare ai danni morali e materiali che quella guerra determinò ed a quell’imprecisato numero di persone vittime del medesimo destino sia sul territorio che lontano da esso.
Ricordi, allora, quei nostri emigranti sbarcati in Inghilterra sognando un futuro diverso che all’indomani della dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, il 10 giugno del 1940, furono ammassati con altri su una vecchia nave da crociera, l’Arandora Star, per essere trasferiti nei campi di prigionia dell’impero sparsi tra l’Australia e il Canada, il cui viaggio fu stroncato dal siluro di un sottomarino tedesco che ne interruppe la navigazione al largo della costa nord-ovest dell’Irlanda non lontano da quello che veniva chiamato “il promontorio insanguinato”.
Ricordi quelli della divisione Aqui che si trovavano sull’isola di Cefalonia, in Grecia. Ricordi quelli vittime delle foibe. Ricordi quelli che erano a bordo della corazzata Roma affondata nel pomeriggio del 9 settembre 1943 da bombardieri tedeschi al largo dell’Asinara.
E pensi, infine, alle centinaia di migliaia di giovani italiani che riempivano i campi di prigionia delle nazioni belligeranti. «Non era mai accaduto prima che soldati dello stesso esercito», scriverà Arrigo Petacco, «fossero in parte imprigionati dai nemici diventati alleati e in parte dagli alleati diventati nemici»7.
A complicare poi le cose in questa già di per sé paradossale situazione, l’armistizio dell’8 settembre finì anche col dividere questi fratelli uniti nella sventura tra chi accettò la nuova situazione e chi rimase fedele alla vecchia. «In realtà», scrive ancora Petacco, «malgrado le lusinghiere promesse iniziali, sia per chi aveva risposto ‘sì’, sia per chi aveva risposto ‘no’, il trattamento rimase altezzoso e sprezzante»8. Insomma, da buoni italiani, non ci siamo fatti mancare niente. Ma, grazie a Dio, non solo in termini negativi.
Se volete, infatti, può consolarci il sapere che al di là di tanti misfatti c’è stata anche qualche pagina di cui andare fieri.
E penso, allora, a quel personaggio, non a torto definito lo Schindler delle opere d’arte italiane, che tra il 1940 e il 1944, in un angolo delle Marche, nel Montefeltro, raccolse e protesse dai pericoli della guerra, attraverso mille peripezie e rischiando la vita, quadri e tesori d’arte provenienti non solo dai principali musei marchigiani ma anche da Roma, Milano e Venezia.
Si chiamava Pasquale Rotondi, il prof. Pasquale Rotondi, ed era di Arpino.
«Pochi uomini di quell’Italia minacciata, povera, fiaccata dalla guerra», ha scritto Vittorio Emiliani («Il Tempo», 1991), «ebbero il coraggio, la fantasia, la volontà di reagire, partecipando al romanzesco salvataggio di un patrimonio che è tutt’uno con la nostra storia più alta. In un momento nel quale senza guerre sul nostro territorio, quello stesso patrimonio è spesso maltenuto o addirittura maltrattato. La vicenda umana, culturale, civile di Pasquale Rotondi andrebbe divulgata. Perché il seme di quell’esempio non si perda»9.

 


1 A. M. Arciero, La pelle degli umili, Cassino 2007, pp. 21-22.
2  L. De Crescenzo, Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo, Oscar Mondadori, Milano 1991, p. 129.
3 Idem.
4 F. Majdalany, La battaglia di Cassino, Garzanti, Milano 1958, p. 44.
5 G. Giammaria, Documenti sulla Seconda guerra mondiale 1943-45, II, Documenti repubblichini, in «Latium», 9-1992, p. 302.
6 A. Verrecchia, La fine di Montecassino, in «Historia», a. II, n. 11, ottobre 1958.
7 A. Petacco, Quelli che dissero no, Mondadori, Milano 2011, p. 3.
8 Ivi, p. 5.
9 AA.VV., Un’istituzione e i suoi protagonisti, Associazione ex Alunni ed Amici del Tulliano, Arpino 2013, p. 187.

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