Studi Cassinati, anno 2014, n. 1
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di Adriana Letta
Una pagina di storia importante quella messa in luce dal recente libro di Luciano Garibaldi Gli eroi di Montecassino. Storia dei Polacchi che liberarono l’Italia, che ricostruisce la presenza dei soldati polacchi in Italia durante gli ultimi due anni della seconda guerra mondiale e l’impegno eroico del 2° Corpo d’armata che, agli ordini del generale Wladyslaw Anders, ebbe un ruolo fondamentale nella liberazione dell’Italia dai nazisti e ricevette il battesimo di fuoco proprio a Montecassino. Per iniziativa dell’Associazione «Cassino città per la pace» il libro è stato presentato a Cassino, nella Sala degli Abati del Palazzo Badiale venerdì 15 novembre, grazie alla collaborazione del Consiglio regionale del Lazio, del Comune di Cassino, dell’Ambasciata polacca e dell’Associazione «Battaglia di Cassino». Ma chi ha fortemente voluto questo convegno è stato il consigliere regionale on. Marino Fardelli, il quale racconta che «la scoperta del libro è avvenuta per caso», leggendone una recensione su un quotidiano nazionale. «Un lavoro che ho voluto portare all’attenzione della città di Cassino proprio perché narra di vicende storiche dettagliate che riguardano proprio il nostro territorio – ha dichiarato l’on. Marino Fardelli – e che rappresenterà un nuovo e prezioso lavoro da conservare nella memoria storica».
In una sala gremita, la serata, presentata da Tiziana Iannarelli, ha preso avvio con un omaggio a sorpresa che il Coro «S. Giovanni Battista» diretto da Fulvio Venditti ha dedicato alla Polonia eseguendo un canto in polacco. L’emozione è stata da subito palpabile, perché erano presenti il Primo Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia in Italia Ewa Mamaj e, ospite d’onore, il Capitano Anton Mosiewicz, del 2° Corpo polacco, veterano della battaglia di Montecassino, di 101 anni ma lucido e vigile come pochi, che ha porto ai presenti il suo saluto. «Oggi ho stretto la mano alla storia» ha dichiarato Marino Fardelli introducendo i lavori, orgoglioso di aver portato a Cassino un personaggio così eccezionale. Dopo i saluti dell’Amministrazione comunale portati dal delegato per le celebrazioni del Settantennale Danilo Salvucci anche a nome del Sindaco Petrarcone, ha preso la parola un testimone dei fatti bellici di 70 anni fa, allora sedicenne, l’ex sindaco di Cassino Antonio Grazio Ferraro e l’attenzione si è fatta ancora più acuta. Nel suo intervento emozionante egli si è soffermato a raccontare i rapporti che, da amministratore della città e sostenitore di una politica di riconciliazione e di pace, ebbe con i Polacchi negli anni del dopoguerra e le difficoltà che si incontravano in occasione delle cerimonie commemorative nell’anniversario del 18 maggio, dovendo ospitare due diverse delegazioni polacche ostili fra loro, quella ufficiale, comunista, e quella dei reduci, cattolici. Ha ricordato la politica dei gemellaggi, primo dei quali con Berlino, da lui portata avanti con tenacia e convinzione, raccontando episodi toccanti. Infine, nell’elencare i riconoscimenti avuti dalla città di Cassino, «Medaglia d’oro al merito militare», «Drappo d’onore d’Europa», «Ville martyre pour la guerre» e «Diploma di Città Messaggera di Pace», ha affermato che tale ultimo titolo non spetta al Comune ma alla popolazione di Cassino.
Quindi dopo che il consigliere Fardelli ha informato l’uditorio di essersi fatto promotore della proposta di lanciare la candidatura di «Cassino Città Nobel per la Pace 2014», suscitando consensi e applausi, l’avv. Roberto Molle, Presidente dell’«Associazione Battaglia di Cassino», studioso appassionato, servendosi efficacemente di una serie di diapositive ha ricostruito la dinamica e le strategie delle quattro battaglie di Cassino, dall’11 gennaio al 18 maggio 1944, con una particolare attenzione all’azione del 2° Corpo d’armata polacco.
Emozione e compiacimento ha espresso la rappresentante della Polonia Ewa Mamaj, soddisfatta per il rinnovato interesse per la Polonia; ha ringraziato particolarmente Luciano Garibaldi, «per aver fatto sentire bene il patriottismo dei polacchi e per la sincera amicizia per il popolo polacco che trapela dal libro» che è «una bellissima opera».
A fare per dir così gli onori di casa e parlare a nome di Montecassino è stato Dom Antonio Potenza, il quale ha indicato molti spunti di riflessione offerti dal libro di Garibaldi. La battaglia di Cassino, la più grande della seconda guerra mondiale, si rivelò un «tragico errore». Grande personaggio fu il generale polacco Anders: dal libro emerge bene la sua figura di uomo che riesce ad avere sempre attenzione «per i suoi uomini e soprattutto per gli indifesi, in particolare le donne e i bambini». La ricostruzione dell’abbazia, dovuta ai finanziamenti dello Stato italiano, fu un grande bene per la città, perché dette lavoro a 500 persone che ogni giorno si recavano a lavorare. Sicuramente la storia è fatta dagli uomini e dal loro cuore: se è vero che i Polacchi ebbero un’esperienza terribile sotto la Germania, è pur vero che furono i Tedeschi a portare in salvo opere d’arte di Montecassino. Infine d. Antonio ha espresso il suo compiacimento perché nel volume è riportata anche la visita di papa Benedetto XVI, tedesco, al cimitero polacco, una «scelta che suscitò qualche perplessità, ma fu effettuata in virtù della universalità della preghiera per tutti i caduti».
Denso e interessante anche l’intervento di Gaetano de Angelis Curtis, presidente CDSC-Onlus, che ha evidenziato i molti rapporti storici tra Italia e Polonia, i cui destini si incrociano più volte.
Infine la parola è andata all’autore del libro, Luciano Garibaldi, il quale ha dichiarato che è stata una delle sue più belle esperienze di lavoro. Un libro che in soli tre mesi è andato esaurito tanto che la Mondadori (nella cui collana degli Oscar è stato pubblicato) ha provveduto ad una seconda edizione. Cosa che in genere capita ai romanzi! Sarà anche, ha detto, per quella antica empatia tra italiani e polacchi. «L’ho scritto», ha dichiarato, «sia perché i Polacchi ricoprono un ruolo di grande rilievo già dal Risorgimento, sia per l’emozione grande che provai alla visione del film Katyn, sulla tragedia dei 22.000 polacchi arresi all’armata russa e assassinati con un colpo alla nuca. Non era giusto che noi italiani non tenessimo in conto i centomila soldati polacchi del 2° Corpo d’armata che oggi sono sepolti nei quattro sacrari militari che sono in Italia. Italiani e Polacchi sono due popoli fratelli».
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Intervento del presidente del CDSC-Onlus
Gaetano de Angelis-Curtis
Luciano Garibaldi in questo suo volume ha ricostruito parallelamente le amare e sfortunate vicende della Polonia, a partire dalla spartizione di fine Settecento, e i legami tra Italia e Polonia i cui destini, fissati indelebilmente negli inni nazionali dei due Paesi, si sono intersecati nel corso dei secoli. I rapporti si sono sviluppati intensamente sopratutto nell’Ottocento e quindi nel Novecento, quando le strade tornarono a incrociarsi nel corso della prima e della seconda guerra mondiale. Nella grande guerra, ventimila polacchi, che erano stati forzatamente inquadrati nell’esercito austro-ungarico e che erano stati catturati nel corso degli eventi bellici per essere imprigionati nei vari campi allestiti in Italia (fra l’altro parte di essi sicuramente furono assegnati al concentramento di Cassino, lungo la strada di collegamento con Caira), ebbero il permesso di arruolarsi volontari nei ranghi dell’Esercito italiano e poi nell’Armata polacca che era in fase di approntamento a Santa Maria Capua Vetere e alla Mandria di Chivasso e questa forza armata fu fondamentale nella vittoria polacca nel corso del conflitto sovietico-polacco che si sviluppò tra il 1919 e il 1921. Quindi i destini italiani e polacchi tornarono a intersecarsi nel 1944 a Montecassino, ad Ancona, a Bologna quando, cioè, il 2° Corpo d’armata polacco combatté vittoriosamente per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo.
La Polonia aveva cessato di esistere alla fine del XVIII secolo quando la Russia zarista giunse ad annettersi più della metà del territorio polacco. Dopo il tentativo, inutile e breve, di Napoleone, la Polonia poté tornare a essere uno stato libero e indipendente oltre un secolo più tardi, cioè alla fine della prima guerra mondiale. La ricostituzione della Polonia avvenne anche in seguito all’attuazione della cosiddetta politica del «cordone sanitario», cioè la costituzione di tutta una serie di Stati-cuscinetto (le tre repubbliche baltiche, Finlandia, Romania e appunto Polonia) allo scopo di evitare il diffondersi dell’ideologia comunista nell’ovest dell’Europa.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale si ebbe in conseguenza del patto Molotov-Ribentropp dell’agosto 1939 con cui Germania e Urss giunsero alla decisione di una nuova spartizione della Polonia con la sua definitiva cancellazione. Il primo settembre l’esercito tedesco invase la Polonia, dando attuazione alla politica hitleriana della «spinta verso l’Est» («Drang nach Osten»). Gran Bretagna e Francia, legate da un patto di alleanza con la Polonia, non poterono che dichiarare guerra alla Germania tre giorni dopo l’invasione. Quindi il 17 settembre l’Armata rossa occupò la parte restante della Polonia. La popolazione polacca dell’est fu deportata nei campi di concentramento, nei campi di detenzione, nei gulag sovietici in Ucraina, Bielorussia, Siberia, e circa 22.000 polacchi, di cui 4.000 ufficiali e per la restante parte uomini della società civile (medici, avvocati, impiegati, professionisti, intellettuali, contadini, artigiani) richiamati alle armi al momento dell’invasione tedesca, furono massacrati nella foresta di Katyn in Russia. Dopo essere stati internati nei gulag ed essere sottoposti a tentativi di proselitismo, cioè di conversione all’ideologia comunista, che si rilevarono infruttuosi perché la stragrande maggioranza continuò ad avere non solo degli atteggiamenti anticomunisti, ma anche antisovietici e antirussi, apparve chiaro a Lavrentij Berija, il capo della polizia segreta dell’Unione Sovietica, che se i prigionieri polacchi fossero tornati in libertà avrebbero potuto partecipare ad attività controrivoluzionarie per cui non rimaneva che sopprimerli.
Una parte di quelli che riuscirono a scampare Katyn e i gulag sovietici, dopo delicate trattative diplomatiche tra Gran Bretagna e Stalin, poterono raggiungere la Persia. Dopo essere stati equipaggiati e addestrati in Palestina andarono a costituire il 2° Corpo d’armata polacco che combatté vittoriosamente per la liberazione dell’Italia. Quei soldati combatterono valorosamente per la «vostra e la nostra libertà», per una «missione profetica», come la definì Giovanni Paolo II nel 1984. Morirono a migliaia sul suolo italiano (circa 6000, di cui circa 4000 sepolti mentre circa 1500 furono i dispersi) come testimoniano i sacrari militari di Montecassino (in cui riposano oltre mille polacchi), di Bologna (1432 caduti), di Loreto (1080 caduti) e Casamassima (430 caduti).
Subito dopo la conquista di Montecassino, proprio mentre i soldati polacchi continuavano l’offensiva militare a Piedimonte S. Germano, caposaldo della «Linea Hitler» o «sbarramento Senger», nei vertici polacchi iniziò a farsi strada l’idea di far riposare eternamente i loro caduti nelle vicinanze dell’abbazia benedettina. Una settimana dopo la conquista di Montecassino, fu inviato a “visitare” le macerie dell’abbazia, in rappresentanza della Comunità benedettina, don Ildefonso Rea, a quell’epoca abate dell’abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni per poi succedere a mons. Gregorio Diamare a Montecassino. Infatti il 27 maggio d. Ildefonso Rea si recò a compiere un sopralluogo alle rovine del monastero, accompagnato dal sottosegretario alla Pubblica Istruzione, Angelo Jervolino. L’indomani indirizzò una lettera al segretario di Stato della Santa Sede, card. Luigi Maglione, in cui scrisse che nel corso di quel compito assegnatogli era stato agevolato da tutte le autorità militari alleate, «massimamente da quelle polacche, e in particolare dal loro Ordinario Castrense». La vigilanza e la custodia di ciò che rimaneva della millenaria abbazia in quei momenti era affidata alle truppe polacche i cui comandanti gli avevano «dato assicurazione – e prova – che [avrebbero raccolto e conservato] con religiosa cura e con delicatezza» tutto ciò che sarebbe stato rinvenuto e ritrovato «anche le cose più insignificanti» e che «ogni oggetto» sarebbe stato consegnato direttamente nella sue mani o in quelle di una persona di sua fiducia. Accanto a tali rassicurazioni, i polacchi rivolgevano a don Ildefonso, «quale rappresentante dei benedettini», la stessa «premurosa» richiesta già avanzata alle Autorità governative italiane e cioè che fosse loro concessa «un’area a Montecassino ove costruire un loro cimitero-ossario», specificando che oramai l’abbazia era «legata alla loro storia nazionale e [sarebbe diventato] meta di loro continui pellegrinaggi. Per quanto la fabbrica [fosse] da rimandarsi al dopo guerra» avrebbero voluto in quei momenti, poiché erano ancora sul posto, «iniziare gli sterri e complanamenti e seppellire già in situ i loro morti», alcuni dei quali giacevano ancora disseminati insepolti per la montagna. Avevano individuato due siti in cui ubicare il loro sacrario e cioè «o dietro la cappellina di S. Agata, o – preferibilmente – nella valletta tra Monte Venere e il Ginocchio». Don Ildefonso aveva fatto presente che «probabilmente non vi sarebbe stata difficoltà ad accogliere la loro domanda» ma che l’autorizzazione doveva essere data dall’abate di Montecassino, d. Gregorio Diamare. Va detto pure che in quella stessa giornata del 27 maggio d. Ildefonso fu «sollecitato dal Comando dei Polacchi – che allora presidiavano il monastero – ad occupar[si] subito presso le autorità alleate perché fosse provveduto alla custodia e vigilanza dell’Abbazia poiché le truppe polacche avrebbero ben presto abbandonata la posizione per ulteriori impieghi». I timori dei polacchi si avverarono perché un mese più tardi quando d. Ildefonso ritornò sulle macerie del monastero e i Polacchi avevano evacuato Montecassino, trovò «molti soldati alleati, in prevalenza Neozelandesi provenienti da un campo di riposo presso Arce» che vagavano «tra i resti sconvolti ed incustoditi». Questi militari «dappertutto frugavano ed asportavano via oggetti di ogni genere: stoviglie, argenteria, arredi sacri, pezzi di tarsìe e di mosaici, intagli del coro». All’invito fatto da d. Ildefonso o dall’ufficiale italiano che lo accompagnava «di lasciare gli oggetti mal tolti» risposero «con un riso sardonico, se non pure con brutale rifiuto accampando esplicitamente i diritti della conquista». Solo il 24 giugno il Comando italiano inviò una pattuglia di venti carabinieri ma «le visite importune e rapinatrici continuarono ininterrottamente» nei giorni successivi. «I soldati neozelandesi giungevano a frotte con badili, picconi, seghe e lampade elettriche per frugare anche i sotterranei più reconditi. Al saccheggio si aggiungevano altri danni: fu provocato un incendio in un locale semidiruto della Biblioteca privata, con pericolo di esplosione delle munizioni sparse qua e là». Anche gli stessi religiosi e i genieri italiani che presidiavano il luogo furono minacciati e i neozelandesi sottrassero loro ciò che erano riusciti a rinvenire. «Fu perciò necessario richiedere il sollecito intervento» del Comando supremo italiano e della Polizia alleata per cui alla fine si giunse a «cintare le rovine con ferro spinato e fu comunicato a tutti i Comandi delle Forze Alleate residenti nella regione il divieto di accesso a Montecassino senza uno speciale permesso». Diametralmente opposto a quello dei neozelandesi fu il «contegno dei soldati polacchi che, non solo si astennero in quelle circostanze da rapina, ma offrirono al S. Padre per Montecassino il frutto di una copiosa colletta domenicale, seicentomila lire». Alla fine ai Polacchi fu concessa l’autorizzazione e l’area sulla quale sorse il sacrario, inaugurato il 16 maggio 1946, in cui riposano oltre un migliaio di soldati, non solo quelli che perirono nella fasi della conquista di Montecassino ma anche nelle precedenti azioni belliche in Italia. E continuarono a farsi seppellire a Montecassino anche dopo la fine della guerra come il gen. Wladyslaw Anders, morto a Londra nel 1970, come mons. Jozef Gawlina morto a Roma nel 1974, come il gen. Bronislaw Duch morto anch’egli a Londra nel 1980 e oggi anche le ceneri della moglie del gen. Anders, Irina, scomparsa nel dicembre 2010, riposano a Montecassino accanto al marito.
Tuttavia un destino amaro accompagnava l’armata polacca durante la campagna d’Italia. Sfuggiti miracolosamente alle deportazioni, ai massacri, agli eccidi, ai gulag sovietici e alla guerra sapevano che per loro non ci sarebbe stato un futuro in Polonia alla fine del conflitto, sapevano che la stragrande maggioranza non sarebbe più tornata in Patria, sapevano che sarebbe iniziata una nuova diaspora polacca oltretutto senza poter contare sull’ausilio e il soccorso dell’alleato storico e cioè della Gran Bretagna. Alla fine su 112.000 soldati che componevano il 2° Corpo d’armata polacco solo 14.000 (cioè poco più del 10%) decisero di rientrare dall’Italia in patria. Si trattava di uomini provenienti dalle regioni occidentali della Polonia che erano stati fatti prigionieri dai tedeschi e poi liberati nel corso dell’avanzata alleata e che dunque non avevano sperimentato la crudeltà dell’Armata Rossa. Invece quasi 100.000 dei soldati di Anders, originari delle regioni a oriente della «Linea Curzon», e che se fossero rientrati nelle loro terre d’origine sarebbero diventati cittadini sovietici, rimasero ancora per qualche tempo in Italia per poi disperdersi nel mondo.
Nel corso di poco più di un anno, compreso tra la fine della guerra e l’estate del 1946, i rapporti tra i militari polacchi e una parte della popolazione italiana, quella facente capo alle forze social-comuniste, furono conflittuali. Scontri anche armati con vittime si susseguirono in quel periodo.
Quindi il 14 marzo 1946, senza preavviso, il 2° Corpo polacco venne sciolto. Non c’erano più ragioni valide perché quegli uomini continuassero a rimanere in Italia. Ai primi di luglio iniziarono a imbarcarsi a Napoli alla volta dell’Inghilterra, tappa temporanea, dove i polacchi frequentarono dei corsi triennali di qualificazione professionale per poi disperdersi in America del Nord e del Sud e in Australia. Alcune migliaia di polacchi rimasero in Italia o perché sposati o fidanzati con italiane o perché approfittarono dell’occasione offerta per iscriversi a università italiane (in particolare Torino) per conseguire un titolo accademico. Il 27 settembre Anders e altri 75 tra generali e ufficiali superiori furono privati della cittadinanza polacca in quanto «nemici degli interessi dello Stato». Il 31 ottobre Anders lasciò definitivamente l’Italia per trasferirsi a Londra.
Nel corso degli anni le celebrazioni a Montecassino e presso il sacrario militare polacco si tennero in modo nettamente distinto e separato tra i reduci e i rappresentanti ufficiali dello Stato polacco.
Ad esempio il 16 maggio 1957 dalla questura di Frosinone venne comunicato che in occasione della celebrazione per il tredicesimo anniversario della Battaglia di Montecassino prevista per il successivo 18 maggio, sarebbe giunta presso l’abbazia «nelle prime ore» di quel giorno «a bordo di automobile, una rappresentanza dell’Associazione Combattenti Polacchi in Italia per assistere alla celebrazione di una messa … officiata dal Rev.mo Mons. Gavtranea, alle ore 10,30 nel cimitero militare polacco, e per deporre una corona di fiori presso il Sacrario dei Caduti». Verso le ore 12, invece, era previsto l’arrivo di una «Delegazione dell’Ambasciata di Polonia presso il Quirinale per deporre altra corona di fiori allo stesso Sacrario». Nella nota della Questura si avvertiva che l’«Associazione Combattenti Polacchi in Italia, sotto gli auspici dell’Ambasciatore presso la Santa Sede Dr. Casimiro Papèe», si era «rifiutata di unirsi, per la cerimonia, alla Delegazione dell’Ambasciata presso il Quirinale» per cui si sollecitava il commissariato di Pubblica Sicurezza di Cassino ad adoperare «tutti gli accorgimenti necessari perché le due manifestazioni» si svolgessero «separatamente e nel massimo ordine».
Anche il 18 maggio 1967 giunsero a Montecassino due delegazioni: quella governativa presso il Quirinale e quella presso il Vaticano. Entrambe, a distanza di qualche ora, avendo cura di non incontrarsi, resero omaggio al sacrario militare polacco. La delegazione ufficiale polacca era accompagnata dal sottosegretario alla Difesa, on. Francesco Cossiga, e fu ricevuta dal Sindaco di Cassino, dott. Mario Alberigo.
Il 18 maggio 1979 giunse a Montecassino papa Giovanni Paolo II (che era salito al soglio pontificio il 16 ottobre 1978). Per la prima volta da pontefice Karol Wojtyla visitò il cimitero, ma molte volte da sacerdote, da cardinale, era venuto al sacrario di Montecassino. In occasione delle celebrazioni del trentacinquesimo della battaglia dichiarò: «Per noi, che allora, nel 1944, abbiamo vissuto la terribile oppressione dell’occupazione, per la Polonia, che si trovava alla vigilia dell’insurrezione di Varsavia, questa battaglia fu una nuova conferma di quella incrollabile volontà di vita, della tensione alla piena indipendenza della Patria, che non ci lasciarono mai nemmeno un istante. A Monte Cassino combatté il soldato polacco, qui morì, qui versò il suo sangue, col pensiero fisso alla Patria, che per noi è una Madre così amata, proprio perché l’amore ad essa esige così tanti sacrifici e rinunce».
Ancora il quarantennale della battaglia, il 18 maggio 1984, fu ricordato con due cerimonie separate. Alla prima, quella ufficiale, svoltasi presso il cimitero polacco vi prese parte Henryk Jablonski, presidente del Consiglio di Stato della Repubblica polacca (che nel pomeriggio fu ricevuto a Roma dal presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini e dal ministro degli Esteri, Giulio Andreotti), insieme con una rappresentanza italiana e con gruppi di reduci provenienti dalla Polonia. La seconda, invece, si svolse all’interno dell’abbazia e il primate di Polonia, cardinale Josef Glemp, celebrò una messa alla presenza di una ben più folta rappresentanza di reduci della diaspora polacca. Il giorno precedente quei reduci erano stati ricevuti in Vaticano da Giovanni Paolo II. Nell’udienza il pontefice, ricordando i soldati polacchi morti a Montecassino, aveva avuto parole polemiche verso il governo di Varsavia ed era tornato ancora una volta a chiedere l’attuazione dell’accordo firmato tra Stato polacco e Solidarnosc (il sindacato fondato in Polonia nel settembre 1980 in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica e guidato inizialmente da Lech Walesa).
Quindi il 12 gennaio 1987 il gen. Wojciech Jaruzelski, in qualità di capo di Stato della Repubblica Polonia, nella sua prima visita ufficiale, giunse in Italia. A Roma incontrò i leader delle tre organizzazioni sindacali italiane, Cgil, Cisl e Uil, il presidente della Repubblica italiana Francesco Cossiga, il presidente del Consiglio Bettino Craxi e anche papa Giovanni Paolo II. Il 14 giunse a Cassino e salì al cimitero polacco per rendere omaggio ai caduti della battaglia. Passò in rassegna alcune tombe di militari, depose una corona di fiori bianchi e rossi sulla tomba del generale di divisione Bronislaw Duch (come già accennato morto a Londra ma seppellito a Montecassino) ma ignorò la tomba del comandante del 2° Corpo polacco, il gen. Wladyslaw Anders.
Il 18 maggio 2004 Giovanni Paolo II, quasi un anno prima della sua morte e 18 giorni dopo l’ingresso della Polonia, assieme ad altri Stati dell’Est, nell’Unione Europea, ricevette in Vaticano il presidente della Polonia Alexander Kwasniewski e ricordò il sacrificio dei soldati polacchi e le croci latine e greche e anche le lapidi con la stella di David poste nel cimitero di Montecassino.
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