Studi Cassinati, anno 2013, n. 1/2
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di Gaetano de Angelis-Curtis
Il 12 giugno 2013, dunque, don Pietro Vittorelli si è dimesso da abate di Montecassino, oltre che da ordinario diocesano. Tuttavia nella plurimillenaria storia della badia cassinese non è la prima volta che si verifica la restituzione dell’importante incarico abbaziale da chi ne è stato investito.
In età contemporanea sono due i casi che si sono verificati. Il più recente è quello di don Martino Matronola (1903-1994) divenuto abate di Montecassino il 29 maggio 1971 e consacrato vescovo titolare di Torri di Numidia l’8 maggio 1977, che si dimise l’8 gennaio 1983 per ragioni d’età. L’altro, bel più complesso, è quello relativo a don Simplicio Pappalettere1 che fu abate di Montecassino negli anni segnati dal delicato passaggio che portò all’Unità d’Italia.
Don Simplicio emise i voti religiosi a Montecassino il 10 febbraio 1836. Quindi, ordinato sacerdote, gli fu conferita la cattedra di Filosofia nel collegio dell’abbazia e nella comunità cassinese ricoprì vari incarichi, prima come vicario e poi, nel 1846, come priore titolare2. Dopo le vicende rivoluzionarie del 1848 fu posto sotto sorveglianza e per due mesi fu in carcere a Napoli assieme al fratello poiché nella tipografia di Montecassino erano state stampate alcune opere giudicate «sovversive» dalle autorità di Pubblica sicurezza del regime borbonico3. Nel 1852 fu nominato abate cancelliere della congregazione benedettina con dimora a Subiaco e l’anno successivo fu scelto da papa Pio IX come abate del monastero di S. Paolo in Roma4. Quindi nell’aprile 1858 il capitolo generale lo elesse abate del cenobio cassinese. Il 15 giugno di quell’anno, quando si apprestò a raggiungere Montecassino per insediarsi come abate e come ordinario diocesano, fu «accolto trionfalmente» dalla popolazione di San Germano5. Con l’Unità, nel momento in cui si era venuta a creare una profonda frattura tra il giovane Regno d’Italia e la Santa Sede, entrò in relazione con le massime autorità nazionali assieme all’altra grande figura cassinese del tempo, don Luigi Tosti.
I due benedettini presero contatto diretto con le nuove autorità sabaude ancor prima della proclamazione del Regno d’Italia. Sul finire del 1860 avevano incontrato a Napoli il luogotenente generale nelle province napoletane Luigi Farini6. Poi nel marzo 1861 tornarono nell’ex capitale partenopea e il 12 furono ricevuti in udienza dal nuovo luogotenente, il principe Eugenio di Savoia-Carignano7, quindi incontrarono Costantino Nigra8, segretario generale di Stato9, il successivo 1810. L’intento era duplice: da un lato, come scriveva d. Luigi Tosti, «parare i colpi della legge Mancini»11, cioè salvare dalla soppressione l’abbazia di Montecassino12, dall’altro operare il tentativo di conciliazione tra Stato e Chiesa13.
In quei frangenti Pappalettere riuscì a ottenere per Montecassino la sospensione prima e l’esenzione poi dai «decreti giacobini»14 di Pasquale Stanislao Mancini15 come li definì don Luigi Tosti, così come fu in grado di salvaguardare la «giurisdizione spirituale del monastero» da un tentativo di alcuni cittadini di S. Germano teso all’elevazione della città a sede vescovile16, mentre invece non si giunse alla conciliazione tra Stato e Chiesa17. Allo stesso tempo, Pappalettere si prodigò a favore della popolazione di San Germano e di quella del territorio che faceva riferimento alla città. Innanzi tutto si adoperò nel difenderla nel momento in cui si affacciava prepotentemente e si andava rafforzando il fenomeno del brigantaggio, particolarmente attivo nella parte settentrionale di Terra di Lavoro percorsa da numerose bande. Quindi colse l’occasione dei suoi frequenti contatti con le nuove autorità nazionali per avanzare varie richieste come l’installazione del Tribunale circondariale, che fu sancita con la definizione dell’ordinamento giudiziario del Mezzogiorno d’Italia18, così come quella di far di San Germano una città sede di prefettura, vale a dire elevarla a capoluogo di provincia, che però non si concretizzò19. Probabilmente nel corso del 1861 scrisse a Vittorio Emanuele II e «forse era stata quella l’occasione per invocare anche aiuti per l’asilo di S. Germano»20. Quindi il 23 aprile 1861 si rivolse ancora al sovrano sabaudo. Saputo che Vittorio Emanuele II si sarebbe recato a Napoli «senza consigliarsi con nessuno, pensò di inviare anche a lui una lettera di omaggio, come già ai suoi luogotenenti, E, confidando forse di continuare le tradizioni del monastero che avevano accolto tanti sovrani, rivolse anche a lui l’invito di una visita a Montecassino»21. La lettera di omaggio avrebbe dovuto restare privata ma fu pubblicata sul giornale «La Nazione» di Firenze il 2 giugno 186222 (e nei giorni successivi ripresa da altri quotidiani)23. La pubblicazione destò gran clamore negli ambienti politici, in quelli ecclesiastici romani, in cui aveva fatto una «penosa impressione»24‚ ma anche all’interno della stessa comunità cassinese25. La congregazione benedettina ritenne «opportuna» la pubblicazione di una nota di «precisazione e sconfessione», in cui, data poi alle stampe26, si addossavano tutte le responsabilità su Pappalettere così come negli ambienti ecclesiastici si cominciò a prospettare l’ipotesi delle dimissioni da abate. Don Simplicio si assunse in toto la responsabilità della missiva indirizzata a Vittorio Emanuele27, che, nelle sue intenzioni, voleva essere un’«espressione di un sentimento di affetto patrio» e che «il Re solamente sapesse l’affetto del [suo] cuore e non altri, talché [si] dols[e]i anzi [si] indignò per la pubblicità» data a «quello che era e doveva essere testimonio di privato affetto e perciò schietto e onesto»28. Parimenti si dichiarò «pronto e rassegnato a subire tutte le conseguenze con quella disposizione di animo che si conviene a chi si professa e si gloria di essere e vuole essere fino alla morte figlio obbedientissimo e fedelissimo della Chiesa», accettandole «con piena rassegnazione di animo»29. Invece, proprio in seguito all’invio della lettera al re, in quello stesso mese di giugno il governo italiano lo insignì dell’onorificenza della croce di cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, poiché, a capo di un «ordine insigne … che non ha guari compiva nell’interesse della religione e dell’umanità un fatto solenne inviando un indirizzo al Re d’Italia dalla memoranda badia»30.
La questione andò progressivamente sfumando nell’opinione pubblica, ma non nella gerarchia ecclesiastica. Nel frattempo l’abate Pappalettere continuò a prodigarsi nei suoi uffici. Il 31 agosto 1862 partecipò alla cerimonia di inaugurazione del tratto ferroviario Napoli-S. Germano31, mentre, all’inizio dell’anno successivo, si portò a Torino dove incontrò per due volte, il 19 e il 20 marzo 1863, il titolare del dicastero di Giustizia, Giuseppe Pisanelli32, con cui discusse in merito, soprattutto, alla questione dei rapporti tra lo Stato italiano e il clero, battagliando «per far graziare i Vescovi condannati per sentenze di tribunali» e interessandosi della scarcerazione del cardinale Filippo de Angelis33, arcivescovo di Fermo, e della restituzione delle sue rendite34.
Lasciata Torino, nell’apprestarsi a far ritorno a Montecassino, l’abate Pappalettere si fermò a Roma, dove si compì il suo «dramma». Infatti su pressione di papa Pio IX, il 25 maggio 1863 firmò la lettera di dimissioni da abate di Montecassino. Se esse furono la diretta conseguenza della lettera indirizzata a Vittorio Emanuele II l’anno precedente e dei rapporti con le nuove autorità italiane, «nocque probabilmente al Pappalettere, più ancora che un comportamento almeno ingenuo e impolitico, considerata la rigida presa di posizione della curia romana nei confronti del regime sabaudo e italiano», la sua vicinanza a Tosti e la sua partecipazione al tentativo conciliatorista, messo in atto in tempi non maturi, che finì per travolgere l’abate «costretto» a recarsi «a Roma per scusarsi e discolparsi», e se fu «sostanzialmente perdonato dal pontefice» fu tuttavia costretto, a causa del suo «cuore troppo pieghevole», ad «abbandonare l’incarico cassinese, dopo reiterarti ed estenuanti ripensamenti»35. Per di più quando il 29 maggio 1863 don Simplicio fu ricevuto in udienza dal pontefice, Pio IX gli impose anche di non far ritorno a Montecassino ma di rimanere a Roma. «Restate qui e toglietevi dalle occasioni» fu la perentoria risposta del papa «alle insistenze del Pappalettere»36. Provvedimenti apparentemente punitivi se non si tiene in debito conto della situazione storica che si era venuta a determinare in quei frangenti, mentre Pappalettere dimostrò di rimanere rispettoso e devoto delle decisioni della Chiesa cattolica37. Neanche ripetuti tentativi operati nel corso dei cinque anni successivi riuscirono a far cambiare opinione al pontefice e solo nella primavera del 1869 don Simplicio poté rientrare a Montecassino. Quindi nel 1877 Pio IX approvò la sua nomina regia alla prelatura palatina del Gran Priorato di San Nicola di Bari e proprio nel capoluogo pugliese si spense l’8 maggio 1883 38.
1 Era nato a Barletta il 7 febbraio 1815 e morì a Bari l’8 maggio 1883. Il suo nome, al secolo, era Giuseppe e al momento dell’elezione abbaziale scelse quello di Simplicio, uno dei collaboratori vicini a San Benedetto. Aveva un fratello, Michele, anch’egli monaco cassinese, direttore della tipografia istituita a Montecassino nel 1843.
2 T. Leccisotti, D. Luigi Tosti agli inizi della sua attività intellettuale, in «Benedectina», III-IV, 1947, p. 270, n. 45.
3 T. Leccisotti, Pio IX e il “caso” dell’abate Pappalettere, in «Pio IX», 2, 1975, p. 205.
4 T. Leccisotti, D. Luigi Tosti … cit., p. 270, n. 45.
5 Don Luigi Tosti in quello stesso giorno così scriveva a mons. Alfonso Capecelatro: «L’hanno tutti veramente osannato. Ben tredici carrozze gli uscirono incontro a nove miglia di distanza. Banda spari e molto popolo … Il solo Priore [d. Carlo de Vera] e Michelino [Pappalettere, fratello di don Simplicio] andarono ad incontrar l’Abate. I religiosi tutti in Convento, col pensiero e con le campane incontro all’Abate. Che volete? Tutto ha sommerso la rivoluzione francese ma sono certi luoghi come Montecassino che non si arrendono alle rivoluzioni. Comandano sempre con le loro memorie. L’ingresso dell’Abate in San Germano non era quello del primo Barone del Regno di una volta, ma pure quella spontanea uscita di carrozze, quella festa, quel popolo diceva che qualche cosa degli antichi Abati avanzava … L’ingresso nel monastero fu più liturgico» (T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 205).
6 In un primo momento sembrava che Montecassino non dovesse subire conseguenze dallo spirito antiecclesiastico che animava le nuove autorità nazionali. Infatti in quell’incontro il luogotenente Farini, «uomo di bella mente e di incredibile conciliazione», come lo definì don Luigi Tosti, non solo aveva allontanato i timori di soppressione ma «si [era offerto] tutto per Montecassino» assicurando che di «qualunque cosa» avesse avuto bisogno avrebbe avuto «sempre di più e mai di meno». Sostituito Farini, i timori si ravvivarono e infatti il 17 febbraio 1861 si giunse alla promulgazione dei decreti Mancini (T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 211).
7 Comandante generale della Marina da guerra (1816-1888), nelle varie fasi delle guerre d’indipendenza tenne la luogotenenza generale del Regno (nel 1848, nel 1849, nel 1859 e nel 1866), fu anche reggente in Toscana (marzo 1860) e luogotenente a Napoli, partecipando anche all’assedio di Gaeta, per cui fu decorato con la medaglia d’oro al Valor Militare.
8 Filologo, poeta, diplomatico e politico (1828-1907), stretto collaboratore di Cavour, fu nominato prima segretario generale di Stato presso la luogotenenza napoletana, quindi ambasciatore italiano a Parigi (1860), poi a San Pietroburgo (1876), a Londra (1882) e a Vienna (1885). Il 4 dicembre 1890 fu nominato senatore.
9 T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 225.
10 Il giorno precedente, il 17, si era avuta la proclamazione dell’Unificazione nazionale da parte del Parlamento riunito a Torino, con Vittorio Emanuele II che assumeva il titolo di re d’Italia. Pio IX non volle riconoscere la nascita del nuovo Regno d’Italia e in quello stesso giorno del 18 marzo con l’allocuzione Iamdudum cernimus, preparata da tempo e in cui ribadiva che il pontefice «non poteva consentire alla “vandalica spogliazione” del suo Stato», condannava la violazione dei diritti della Chiesa e della laicizzazione in corso attuata tramite «la lotta intrapresa contro gli istituti religiosi, l’abrogazione dei concordati, la frequente vacanza delle sedi episcopali, la pretesa che il papa rinunzi[asse] ad ogni sovranità temporale, lo sforzo di fondare una società priva di ogni ispirazione religiosa, l’assurda richiesta di una conciliazione con questo sistema» (G. Martina, Pio IX, vol. 2, 1851-1866, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, pp. 93-94).
11 Con decreto del luogotenente generale del re nelle provincie napoletane 17 febbraio 1861 n. 251, erano strati introdotti nell’ex Regno delle Due Sicilie i provvedimenti sabaudi in materia ecclesiastica già in vigore nel Regno di Sardegna dal 1855 e che prevedevano la soppressione delle corporazioni religiose, salvo eccezioni da determinare per legge, e l’istituzione di una Cassa ecclesiastica per l’amministrazione dei beni degli ordini aboliti. Tuttavia accanto a ciò l’allora consigliere per gli Affari ecclesiastici nella luogotenenza a Napoli, Pasquale Stanislao Mancini, «allo scopo di limitare la potenza della Chiesa», ampliò la portata dei provvedimenti sabaudi richiamando in vigore l’antico diritto pubblico ecclesiastico napoletano, dichiarando cessata l’efficacia del Concordato del 16 febbraio 1818 e della convenzione del 18 aprile 1836, sopprimendo le commissioni diocesane e le conferenze per le missioni, riservando la nomina degli amministratori delle commissioni di beneficenza e dei luoghi pii laicali all’autorità civile, ecc. In sostanza i «decreti Mancini», come furono denominati, determinarono la rottura aperta con la Chiesa. Allo stesso tempo, però, il complesso di disposizioni finì per suscitare «notevoli perplessità» anche tra la classe politica meridionale e pure la Sinistra lo giudicò «monc[o] ed incomplet[o]» nonché «incapace di produrre i benefici effetti» che «si riprometteva». Le dimissioni dalla luogotenenza presentate da Mancini e la sua sostituzione ebbero «come principale conseguenza l’insabbiamento della legge per la soppressione degli ordini religiosi» (A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Società Editrice Napoletana, Napoli 1981, pp. 183-184, 233).
12 «Tanto Mancini, quanto gli altri più su, come Nigra e S. A. il Luogotenente» li rassicurarono sulla «esistenza di Montecassino e di Cava» (T. Leccisotti, Uno dei tentativi di Conciliazione del 1861, in «Archivio storico per le Province Napoletane», a. II, LXXXXI, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli 1963, p. 420 n. 4). Anche Pappalettere scrisse al procuratore generale dell’ordine benedettino, don Angelo Pescetelli: «Pare M. Cassino e Cava salvati. Sento che il Governo è pentito del fatto e si piega a conciliazione. Preghiamo Iddio» (T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 211).
13 In una lettera inviata a Cavour per metterlo a conoscenza degli sviluppi del tentativo in atto a Napoli, Costantino Nigra scriveva che i due erano «pronti a cooperare, per quanto po[tevano], alla conciliazione della Chiesa collo Stato sulla base della rinuncia del potere temporale e della libertà assoluta della Chiesa» (T. Leccisotti, Uno dei tentativi … cit., p. 421).
14 Sulla questione della soppressione degli ordini religiosi si aprì una lunga stagione di dibattiti parlamentari sfociati nell’approvazione delle leggi 7 luglio 1866 n. 3036 e 15 agosto 1867 n. 3848, che sancirono la revoca della personalità civile delle corporazioni religiose e l’incameramento di un terzo dell’asse ecclesiastico immobiliare. Per effetto di tali dispositivi «una buona parte delle congregazioni maschili – specie quelle monastiche e mendicanti – fu quasi annientata … Anche per i benedettini il colpo fu molto duro: i monasteri, con alcune eccezioni, furono chiusi». I monaci cassinesi riuscirono a conservare la badia «occupandola come custodi di un bene dello Stato» e Montecassino, al pari di poche altre grandi abbazie (Cava de’ Tirreni, la Certosa di Pavia, S. Martino della Scala), poté continuare ad operare (A. Riccardi, La soppressione delle corporazioni religiose e la liquidazione dell’asse ecclesiastico, in Il Parlamento italiano, vol. II, 1866-1869, La costruzione dello Stato da La Marmora a Menabrea, Nuova Cei, Milano 1988, p. 226). Anche se il millenario cenobio fu salvato dalla soppressione, patì per le difficoltà finanziarie dovute ai danni subiti dalle occupazioni militari e, soprattutto, alle rendite sequestrate, così come l’abbazia, dichiarata monumento nazionale, divenne proprietà demaniale.
15 Giurista, patriota e politico (1817-1888), dopo i fatti del 1848 si trasferì a Torino dove gli venne assegnata la cattedra universitaria di Diritto pubblico estero e internazionale. Al momento dell’Unificazione nazionale fu nominato segretario di luogotenenza per la giustizia a Napoli e poi consigliere per gli Affari ecclesiastici. Dal 1861 alla sua morte fu eletto ininterrottamente alla Camera dei deputati e fu più volte ministro, nel dicastero della Pubblica Istruzione (1862), di Grazia e Giustizia (1876-1878), degli Affari Esteri (1881-1885).
16 Proprio in seguito alla promulgazione dei «decreti Mancini», da San Germano era stata avanzata al «novello italico governo» la richiesta di mutamento della sede diocesana, destinata, tuttavia a fallire al pari di una nuova petizione, sempre proveniente da Cassino, presentata dopo la promulgazione delle leggi ecclesiastiche del 1866 e 1867 (T. Leccisotti, Note sulla giurisdizione di Montecassino, I, Montecassino 1975, pp. 29-30, 55-65. Su alcuni tentativi di soppressione della diocesi cassinese cfr. G. de Angelis-Curtis, La diocesi di Montecassino e il tentativo di riordino della geografia ecclesiastica italiana del 1966, in «Annale di storia regionale», anno 5/6_2010-2011, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, Cassino 2011, pp. 103-135).
17 Per questo primo tentativo concialiatorista don Luigi Tosti aveva provveduto a stendere un progetto di conciliazione, composto da quattordici punti, con cui Vittorio Emanuele si sarebbe dovuto impegnare a restituire al papa le province dello Stato della Chiesa occupate, Roma sarebbe diventata capitale del Regno d’Italia e sede del pontefice il quale avrebbe mantenuto i Palazzi apostolici, il Vaticano e il Quirinale, mentre re, governo e Parlamento avrebbero trovato sistemazione in Campidoglio, e, «in segno di riconciliazione della Nazione con la Chiesa, il Papa [avrebbe incoronato] il suo Re in S. Pietro» (T. Leccisotti, Uno dei tentativi … cit., pp. 446-447). A fine aprile 1861, però, può considerarsi come «chiuso questo ciclo di tentate trattative». La speranza di poter giungere alla conciliazione non si estinse neanche con la morte del conte di Cavour e il ritorno di Costantino Nigra a Parigi, il quale dalla capitale francese il 4 settembre 1861 forniva ulteriore «sprone alla grande opera … di riconciliare la Chiesa col Regno italiano», tuttavia senza esito. Sempre tramite Tosti fecero seguito, negli anni successivi, un «disegno di pace» vagheggiato nel 1868 e quindi, con l’approvazione di papa Leone XIII, un altro progetto conciliatorista nel 1887 con l’allora presidente del Consiglio, Francesco Crispi, poi sconfessato (A. Capecelatro, Commemorazione di d. Luigi Tosti abate cassinese, Montecassino 1898, pp. 67, 80).
18 Il Regio decreto 20 novembre 1861 n. 329 determinò le sedi giudiziarie nella parte continentale dell’ex Regno delle Due Sicilie, suddivise in sedici Circoli di assise, quattro Tribunali di commercio e trentuno Tribunali di circondario. Di questi ultimi, quindici sostituivano i vecchi Tribunali civili borbonici e quindici erano di nuova istituzione, e tra essi quello di San Germano, più quello di Benevento (cfr. G. de Angelis-Curtis, Il Tribunale di Cassino 1861-2011, F. Ciolfi Tip. Ed., Cassino 2011).
19 Il «supplichevole desiderio» espresso da Pappalettere, che discendeva dalle aspirazioni coltivate nella città, anticipò le richieste di costituzione di una provincia con riferimento a Cassino avanzate negli anni successivi che si vennero a caratterizzare per la coincidenza tra le due circoscrizioni territoriali, quella amministrativa riguardante l’istituzione del nuovo ente locale e quella giudiziaria del Tribunale (cfr.. G. de Angelis-Curtis, Proposte di istituzione di una circoscrizione amministrativa: Cassino 1799-2006, Caramanica editore, Marina di Minturno 2006).
20 T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 236 n. 39 bis. Pappalettere si rivolse anche al Consiglio provinciale di Terra di Lavoro al fine di ottenere un sussidio economico a favore dell’«asilo aperto a S. Germano a cura del monastero». La petizione dell’abate fu presentata e illustrata nella riunione consiliare del 2 settembre 1861 dal consigliere provinciale Gagliardi. Nel corso di quel consesso la richiesta non avrebbe potuto essere discussa perché non iscritta all’ordine del giorno ma il Consiglio, «trovandosi disoccupato pel differimento accordato alla Commissione del bilancio», la esaminò ugualmente e accordò all’asilo un sussidio dell’importo di ducati trecento (Consiglio provinciale di Terra di Lavoro, Sessione ordinaria del 1862. Tornata del 12 settembre. Verbale n. 70, in Archivio di Stato di Caserta, Amministrazione provinciale, Atti vari, f. 800).
21 T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 229.
22 Per la consegna al sovrano, Pappalettere si era rivolto all’on. Enrico Pessina il quale a sua volta l’aveva trasmessa a Raffaele Conforti pregandolo che della missiva «non si facesse di pubblica ragione», ma, evidentemente, quest’ultimo aveva dimenticato l’avvertenza consegnandola «sic e simpliciter» (T. Leccisotti, A proposito di un autografo manzoniano, in «Archivio Storico Pugliese», a. XVI, 1961, Casa ed. Cressati, Bari 1961, pp. 108-112).
23 T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 229. Nel pubblicare la lettera un giornale di Milano aggiunse «perfidamente» che era «stata confermata da parecchi Abati Cassinesi», mentre, sul finire del mese di giugno, il «giornale ufficiale di Napoli», riprendendola, era giunto a falsare il testo originale facendo «parlare l’Abate Pappalettere, non più in nome della sua Cassinese famiglia, ma bensì di tutto l’ordine Benedettino» (Ivi, p. 237).
24 Ivi, p. 230.
25 Ad esempio il priore di Montecassino, don Carlo de Vera, quasi presentò le sue dimissioni, manife- stando anche l’intenzione di abbandonare il monastero, così come aveva «amareggiato tutti» i cassinesi e «Luigino [Tosti] ne [era] inconsolabile, Frisari furioso». Tuttavia qualche tempo dopo lo stesso don Carlo de Vera giunse a ritenere la lettera una missiva «privata d’invito, alla quale si era data poi maliziosamente altra forma e la pubblicità» (Ivi,, p. 231, 233-234).
26 La nota fu pubblicata il 25 giugno 1862 e allo scopo di mostrare quali fossero i «veri sentimenti dei figli di San Benedetto» vi venne allegato un «indirizzo … già stampato dal Giornale Ufficiale di Roma» il giorno precedente, sottoscritto «dai membri della famiglia di San Paolo». La «pubblicazione della protesta dei monaci di S. Paolo colpì vivamente il Pappalettere, ancora legato a quel monastero per gli antichi vincoli» (Ivi, p. 237-238).
27 «È tutta mia, assolutamente mia, in niente affatto [di] questa religiosa famiglia cassinese», scriveva in una lettera indirizzata al procuratore generale della congregazione benedettina, don Angelo Pescetelli (Ibidem).
28 T. Leccisotti, A proposito … cit., p. 110 n. 8. Questa assunzione di responsabilità stava a significare, a giudizio di don Tommaso Leccisotti, l’adeguamento ad «uno stato di fatto, avendo di mira gli interessi del monastero e delle popolazioni» ( T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 278 n. 76).
29 Ivi, p. 232.
30 «La Campania», a. 1, n. 25, Napoli 28 giugno 1862. L’onorificenza fu concessa anche all’industriale arpinate Giuseppe Polsinelli («onorando vecchio, capo di una delle migliori fabbriche di panni della Provincia, schietto e disinteressato liberale sempre pronto a sacrificarsi per la causa del paese, i cui suffragi lo elessero Deputato al Parlamento e Presidente del Consiglio Provinciale») e al vescovo di Piedimonte d’Alife, oggi Piedimonte Matese («degno Prelato che interpretando il vangelo giusta i suoi puri principii bellamente sa distinguere gl’interessi mondani dai religiosi, e preoccupato di quest’ultimi intende ai doveri di Pastore tenero del proprio gregge»).
31 T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 236 n. 39 bis.
32 Il guardasigilli, come scrisse lo stesso Pappalettere, gli sembrò «ben disposto» sia in merito alla questione del ritorno di alcuni vescovi nelle loro sedi diocesane che all’emissione di una circolare da indirizzare ai vescovi in cui manifestare «fiducia e rispetto della religione» (T. Leccisotti, A proposito … cit., pp. 111-112).
33 Il card. Filippo De Angelis (1792-1877), principale antagonista di Pio IX nel conclave in cui Giovanni Mastai Ferretti era stato eletto al soglio pontificio, forte oppositore del processo unificatore, fu arrestato il 28 settembre 1860 e, in capo a un’ora, «fu condotto a Macerata per essere deportato a Torino» dove visse «per oltre sei anni … rilegato sacrilegamente» («La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VIII, Roma 1860, p. 252).
34 G. Martina, Pio IX … cit., p. 133.
35 S. Trinchese, Su alcuni abati di Montecassino tra Risorgimento e Unità, in S. Casmirri, a cura di, Lo Stato in periferia. Poteri locali e politica nazionale nel Mezzogiorno postunitario, Centro editoriale d’Ateneo, Università degli Studi di Cassino 2003, p. 239.
36 Nel corso del ‘forzato’ soggiorno romano, don Simplicio continuò a mantenere rapporti epistolari con personalità del mondo politico italiano (T. Leccisotti, Pio IX … cit., p. 279 n. 78) e, contemporaneamente, ebbe modo di incontrare più volte Francesco II di Borbone re delle Due Sicilie, esule nella città capitolina.
37 A Montecassino gli subentrò don Carlo Maria de Vera (1820-1871). Quest’ultimo era nato a Napoli da «famiglia principesca». Emessi i voti religiosi il 10 marzo 1844, a Montecassino fu prima priore e poi abate, appunto, dal 1863 al 1871 (T. Leccisotti, D. Luigi Tosti … cit., p. 291, n. 92).
38 T. Leccisotti, Pio IX … cit., pp. 269-71.
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