Studi Cassinati, anno 2013, n. 4
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di Gaetano Lena
Da secoli l’Italia è meta di viaggiatori e di pittori, specialmente a partire dal Settecento, quando il Grand Tour diventa quasi un momento educativo per gli Europei. Roma, Firenze, Venezia, Napoli e, in modo più contenuto, il sud d’Italia, sono le tappe obbligatorie di artisti e di turisti.
L’Italia attira tanta gente per il suo passato classico, per i suoi splendidi paesaggi e per la sua “luce brillante”, che permette ai pittori paesaggisti di rendere “vivi” i loro quadri. In particolar modo sono, inizialmente, Roma e la Campagna Romana ad attirare gli artisti, grazie soprattutto a Claude Gellée (Le Lorrain) e a Nicolas Poussin che aprono la strada, nel Seicento.
«La natura in Italia è così bella e pittoresca, che bisogna approfittare del soggiorno in quel paese per studiare diverse cose, soprattutto il paesaggio e l’architettura». In questi termini si esprime Charles-Nicolas Cochin verso il 1774. Nel 1791, Quatremère de Quincy giustifica così il suo soggiorno a Roma: «Questo genere di pittura non può illudersi di trovare nel nostro paese, nel suo clima e nella sua conformazione, i grandi modelli che gli sono necessari. L’Italia li riunisce tutti».
Quindi un gran numero d’artisti dopo aver raggiunto Roma si sposta in territori limitrofi. La voce dell’esistenza di luoghi magnifici per la pittura si sparge sempre più e così moltissimi disegnatori e pittori si addentrano in località dove gli stranieri non sono mai arrivati, attirando la curiosità dei locali. Sono luoghi fin lì evitati in quanto vi “girano i briganti”. Vera voce, questa, ma gli episodi di assalti e di depredazioni sono rari. Alcuni pittori sono in verità affascinati dai “briganti” e danno loro la “caccia” per ritrarli, talvolta ricompensandoli. Si arriva anche a rivolgersi a qualche carcere per incontrarli, come nel 1820 fa Achille-Etna Michallon, che ritrae il capobanda Masocco (Mazzocchi) di Sonnino, probabilmente nella prigione di Castel Sant’Angelo a Roma.
* * *
Ernest Hébert nasce a Grenoble nel 1817. Fin dall’infanzia si dimostra un buon disegnatore e pittore. Un artista locale, Rolland, convince il padre di Ernest a iscriverlo alle Belle Arti di Parigi. Il padre acconsente, ma gli consiglia di non abbandonare gli studi di Diritto.
Come maestri egli ha David d’Angers e Paul Delaroche. Nel 1839, Hébert ottiene il «Prix de Rome», una cospicua borsa di studio che gli permette di continuare l’attività nella Città Eterna. Il 24 gennaio 1840 arriva per la prima volta in Italia, sbarcando a Civitavecchia e viene accolto da suo cugino Henri Beyle (Stendhal), console di Francia. Comincia la sua attività all’Accademia di Francia a Roma. Gira quasi tutto il Lazio di allora, producendo un’infinità di quadri e disegni. Soggetti preferiti sono le vedute di città e villaggi, non tralasciando i corpi umani. Come tutti i giovani artisti francesi arrivati all’Accademia, egli è attirato dalla grandezza e dalla ricchezza del passato antico e dal Rinascimento. In seguito tralascia il vedutismo e si fa sedurre dal pittoresco, dall’asprezza della vita che egli scopre nella Campagna Romana e negli Abruzzi. Il Lazio ed il Regno delle Due Sicilie gli offrono instancabilmente temi e modelli.
Nel 1848 ritorna in Francia, dove nel 1850 completa il quadro Mal’aria (rappresentante una barca di malati nelle Paludi Pontine), che gli darà un grande successo. Ottiene una seconda borsa di studio e il 23 settembre 1853 parte in nave da Marsiglia per Civitavecchia con due amici pittori, Castelnau e Imer.
Dopo essersi spinto sempre più nella Campagna Romana, rivolge il suo interesse agli Abruzzi, che in quei tempi sono ritenuti comprendere anche le odierne zone interne del Basso Lazio (Frosinone, Sora, Cassino). Hébert intende intraprendere il viaggio negli Abruzzi con Castelnau e Imer. Un altro pittore, Lehmann, si offre di fare da guida. La partenza è fissata per il 6 ottobre 1853. Un certo Giovannino, per 12 piastre, fa da cocchiere con il suo calesse. Percorrono l’odierna Casilina, lasciandosi a sinistra Palestrina, attraversando Valmontone, dove incontrano un gruppo di contadini sorani che si recano a Roma. Poi vedono sulla sinistra Anagni, Ferentino e il giorno 7 arrivano a Frosinone.
Ripartono l’indomani, di buon’ora, in direzione di Ceprano, con una nuova carrozza. Essi sono entusiasti del paesaggio che osservano: pecore, buoi, bufali, contadini in abiti molto interessanti per i quattro pittori, che prendono nota e disegnano schizzi che in seguito saranno completati e spesso trasformati in quadri.
Del passaggio a Ceprano, Hébert ci lascia La fontaine de Ceprano (ill. 3), rappresentata in due versioni diverse, ed un disegno (ill. 4).
Dopo una piccola sosta, alle 13, riprendono il viaggio ed entrano nel Regno delle Due Sicilie. Ad Arce, un doganiere resta un po’ perplesso quando vede un libro di Omero nel bagaglio di Hébert. Poiché i passaporti sono validi per recarsi soltanto a San Germano e a Napoli, essi non possono fare deviazioni per altre località. Giunti a San Germano, i nostri si recano dall’ispettore di polizia per chiedere il permesso di andare a Picinisco, ottenendo un rifiuto perché Hébert porta la barba lunga (secondo il funzionario, il governo napoletano proibisce ai suoi sudditi di portare la barba). È costretto ad accorciarla e così il permesso è concesso ma, per vari motivi, essi non si muovono da San Germano. In un’altra occasione egli andrà in Val di Comino, dove dipingerà Les filles d’Alvito (ill. 5).
Alloggiano alla “Locanda del Sol”, presso Porta Napoli. Lehmann, invece, fa ritorno a Roma.
Il giorno 11 ottobre Hébert passa presso le carceri della città. Dietro le sbarre egli nota dei visi di carcerati. Seduta sul davanzale di una finestra di una cella, ad un metro e più da terra, è seduta una ragazzina di 8 anni, che parla con sua madre, dall’altra parte delle sbarre. Egli immediatamente fa uno schizzo della scena (ill. 6). Il carceriere riferisce a Hébert che di donne ce ne sono molte e tutte colpevoli, eccetto una, indicando la madre della ragazzina. Hébert, interessato alla vicenda, si fa raccontare tutto, dopo aver dato al carceriere due carlini.
Poiché la ragazzina, Crescenza, è stata sedotta da un “signorotto” dei dintorni di San Germano, la madre sporge denuncia alle autorità di Caserta. Il “signorotto” è condannato a dare una dote alla ragazza o a sposarla. Ma le autorità trascurano di far eseguire la condanna. La ragazzina continua ad essere sedotta dal “signorotto”. Allora la madre replica alle autorità in termini pesanti, accusandole di non fare il loro dovere. La donna viene condannata per oltraggio.
Il 13 ottobre, Hébert e i due amici partono per Napoli, prendendo il treno a Capua. Là restano 15 giorni. Visitano anche Ischia, Procida, Pompei, dove eseguono moltissimi disegni e schizzi di paesaggi e di persone.
Il 28 ritornano a San Germano e prendono alloggio nella stessa locanda, ritrovandoci le pulci e le cimici che li avevano assaliti la volta precedente.
Il mattino successivo, dalla finestra della locanda, Hébert nota delle contadine che vendono il fieno. Egli si sente ispirato e trasforma la sua camera in atelier, da dove uscirà il quadro Les Fienarolles de San Angelo vendant du foin à l’entrée de la ville de San Germano (ill. 7).
Mentre si occupa delle Fienarolles, Hébert decide di recarsi alla prigione per rintracciare la madre di Crescenza. Egli ha intenzione di ritrarre la ragazza. Nasce così il quadro Crescenza à la fenêtre de la prison de San Germano (ill. 8). Di Crescenza alla finestra del carcere Hébert esegue anche un disegno (ill. 9) ed alcune varianti di questo.
Il 24 dicembre, si reca a Montecassino. I primi giorni di gennaio 1854, Hébert finisce un disegno di Crescenza.
All’inizio della sua attività di pittore, Hébert si era interessato soprattutto di temi storici e di convenzioni d’atelier. Ma in seguito alla sua venuta in Italia, si dedicò esclusivamente ai soggetti della vita quotidiana della campagna italiana, privilegiando le ragazze in abito tradizionale e dallo sguardo pensoso ed espressivo. In una lettera che scrive da San Germano al paesaggista Jules Dupré si legge: «Voglio parlare di ciò che mi ha portato a venire a fare un quadro in un cattivo albergo degli Appennini [la “Locanda del Sol” di San Germano] ( … ). Ho deciso di ritrarre soltanto ciò che mi colpisce sentimentalmente. Credo che sia il modo migliore di restare veramente artista e di essere sempre originale».
Il 7 gennaio 1854, i tre amici fanno ritorno a Roma. Qualche tempo dopo, prima di lasciare l’Italia, Hébert decide di ritornare a San Germano. Scrive: «Sono venuto da solo a fare questa escursione perché ne faccio una cosa seria da cui dipenderà il mio avvenire (…) A mia insaputa, io ho preso in disgusto la vita tormentata di pittore a Parigi ed aspiro all’aria aperta e all’arte che io respiro. Questo è il motivo del mio lungo soggiorno in Italia e degli sforzi che io faccio per trasmettere nella mia pittura l’ideale che io sogno. A San Germano ho già tentato tutto questo e vedremo cosa ne dirà il pubblico». Qualche settimana più tardi ribadisce: «Io sono sempre a San Germano per questioni di pittura (…) Domani, sabato, vigilia di Pentecoste, arriveranno qui moltissimi pellegrini dagli Abruzzi per rendere omaggio all’Abbazia di Montecassino. Ho atteso a lungo questa festa che mi darà l’occasione di ammirare i costumi di altri paesi difficili da vedere». Approfitta del soggiorno a San Germano non solo per rivedere Crescenza ma anche per chiedere la liberazione della madre, ottenendo l’assicurazione formale della sua scarcerazione.
Fa ritorno a Parigi nel luglio 1855, dove ottiene un grande successo presentando Les filles d’Alvito e Crescenza à la fenêtre de la prison de San Germano all’Esposizione Universale.
Il 27 settembre 1856 Hébert parte di nuovo per Roma, dove resterà due anni, per poi rientrare a Parigi. Ritorna in Italia nel 1867 per ricoprire la carica di direttore dell’Accademia di Villa Medici a Roma, da quell’anno fino al 1873 e di nuovo dal 1885 al 1891.
Muore a La Tronche (Isère) in Francia nel 1908.
(I lavori di Hébert presentati in illustrazione in questo articolo sono distribuiti tra il Museo Hébert di Parigi e quello di La Tronche).
BIBLIOGRAFIA
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