Il fronte di Cassino Io c’ero.

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Studi Cassinati, anno 2013, n. 4
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di Antonio Valente*

4-13Al di là di ciò che racconta la storia, nonché quanto scritto in numerosi romanzi e racconti sull’argomento, io che ho vissuto in prima persona le vicende determinatesi nel corso dei drammatici mesi in cui la guerra sostò nel cassinate e poi nel dopoguerra, ho chiari i ricordi di quanto avvenuto lungo il cosiddetto «Fronte di Cassino» passante per la Collina della Pietà, dove vivevo con la mia famiglia.
Innanzitutto va precisato che un segmento della «Linea Gustav», il lungo sbarramento difensivo approntato dai tedeschi che andava dal Tirreno all’Adriatico, era formato dal «Fronte di Cassino». Quest’ultimo, lungo circa 15 km., divenne tale quando, con l’avanzare degli Alleati, i tedeschi si ritirarono al di là dei fiumi Gari e Rapido, avendo comunque la possibilità di colpire qualsiasi punto di quella vasta zona avvalendosi di un efficace osservatorio posizionato su Montecassino. D’inverno il terreno sito ad ovest della Collina della Pietà diventava acquitrinoso perché attraversato dal Gari e quindi mal si prestava a un attacco frontale da parte degli Alleati, nonché risultava difficile da attraversarla tale zona poiché, dirimpetto, v’erano ben organizzate le postazioni tedesche, favorite dalla libera visuale che consentiva loro di colpire qualsiasi punto del Fronte. Tuttavia ad est vi era il Monte Trocchio che costituiva di per sé una protezione.
Il punto fondamentale del Fronte restava pertanto la Collina della Pietà, dalla cui sommità si vedevano Cassino e l’Abbazia a nord e Mignano Montelungo a sud, dove sul finire del 1943 erano arrivati gli Alleati. Essa fu il vero scenario di tutte le battaglie combattute nel territorio circostante.
Avevo appena sette anni, ma ricordo chiaramente quanto la presenza dei tedeschi, durante tutta la durata del periodo bellico, fosse drammatica: ai piedi della collina passava la linea ferroviaria nord/sud e presso il casello che la separava da Monte Trocchio accadeva di tutto: i “molestatori” razziavano tutto ciò che era commestibile, costringendoci a collaborare sotto minaccia, lasciandoci affamati, maltrattando e abusando delle donne. A questo proposito ho un ricordo molto doloroso di un episodio accaduto proprio ad una delle mie sorelle e mia cugina che i tedeschi, in quel triste periodo, le costringevano a recarsi al fiume per lavare i loro indumenti. Un giorno un ufficiale ordinò loro di lavargli la giubba. Le ragazze dimenticarono però di svuotare le tasche della stessa, nella quale l’ufficiale aveva riposto un anello d’oro. Quando poi riconsegnarono il capo pulito l’ufficiale, non ritrovandovi all’interno alcun anello, tedesco inveì contro di loro minacciandole con le armi con una ferocia tale da spaventare tutta la comunità. Noi fratelli decidemmo, allora, di recarci al fiume a cercare l’anello tra la brecciolina circostante l’argine dove era stato lavato l’indumento, ed ecco che avvenne quella sorta di miracolo: l’anello fu ritrovato e le ragazze risparmiate dalla furia di quel soldato.
Oltre a subire questo crudele trattamento dai soldati tedeschi, dalla sommità della collina assistevamo alla sparatoria tra tedeschi e Alleati: i proiettili scavalcavano il santuario volando sopra le nostre teste. La notte, ascoltavamo impotenti i continui bombardamenti su Cassino e poiché il rombo delle fortezze volanti era terrificante, spesso andavamo a nasconderci nel bosco sottostante dove, per ottenere maggiore protezione, costruimmo quattro o cinque cunicoli che penetravano sotto il santuario e in cui ci rifugiavamo di giorno e di notte.
Dall’8 settembre 1943 (data dell’armistizio), vedevamo dal nostro colle transitare molti convogli ferroviari colmi di mezzi militari, munizioni e soldati.
Il santuario della Pietà costituiva un ostacolo per i tedeschi i quali avevano l’osservatorio su Montecassino; decisero, quindi, di minarlo alle fondamenta e, per tale motivo, ci fecero abbandonare le nostre case. Era il dicembre del 1943. Il santuario divenne un cumulo di macerie e credo che ne approfittarono per far esplodere anche tutte le abitazioni circostanti perché, al rientro dallo sfollamento (inizio estate 1945), tutto appariva distrutto. Lo scopo di tanta devastazione, per i tedeschi, fu quello di avere libera la visuale fino a Mignano Montelungo, ma l’esplosione si rivelò per loro anche uno svantaggio poiché avevano inconsapevolmente favorito gli Alleati per lo stesso motivo.
Proprio in uno di quei giorni un proiettile sparato dagli Alleati, che non avevano calcolato bene l’ogiva (errore che ne accorciava il tiro), venne a cadere proprio vicino alla nostra abitazione e una delle schegge colpì al ginocchio una delle zie, rimasta claudicante per tutta la vita a causa della mancanza di cure adeguate.
L’esodo
Eravamo tantissimi. Lungo la strada che conduceva alle retrovie tedesche ci unimmo a tanta altra gente sfollata come noi. Il viaggio avveniva quasi tutto a piedi, scortati da militari armati: dopo otto o dieci ore di cammino ci fermammo alla nostra prima tappa, all’incrocio di Pignataro Interamna/Pontecorvo, dove ci divisero in gruppi e la nostra famiglia insieme a quella di mio zio fu caricata su un camion militare con destinazione Pontecorvo. Trovammo rifugio in una bella casa colonica abbandonata all’imbocco del paese nella quale vi era una cucina rifornita di salumi, formaggi e quant’altro: un miracolo, per noi che eravamo a digiuno da due giorni.
Essendo arrivati tardi (circa le otto di sera), le nostre madri prepararono la cena con il cibo a disposizione e assegnarono ai loro mariti il compito di accendere il fuoco all’aperto sotto un pergolato per cuocere la carne. Ricordo chiaramente che, attorno al fuoco, eravamo dieci adulti e sei tra ragazzi e bambini quando, improvvisamente, proprio sopra le nostre teste, apparivano dei razzi illuminanti: erano gli Alleati che si erano accorti del falò da noi acceso. Una pattuglia di soldati tedeschi ci circondò tenendo i fucili puntati contro di noi; avevamo il terrore negli occhi e la morte nel cuore. Ci intimarono di spegnere subito il fuoco e, solo per pietà verso tanti bambini affamati e spaventati, non conclusero la serata con un massacro. Ci fecero rientrare in casa e, al buio, consumammo ciò che le nostre madri avevano cucinato. La mattina successiva, accadde il finimondo: si sentivano i caccia bombardieri degli Alleati arrivare verso di noi con un rombo assordante e terrificante e, contemporaneamente, la contraerea tedesca in un baleno si mise in moto. Intanto, nostro padre ci fece allineare velocemente di spalle lungo il muro maestro della stanza più grande di quella casa poiché, secondo lui, se a causa di qualche bomba fosse crollato il solaio sopra di noi, quello sarebbe atterrato davanti ai nostri piedi e ci saremmo salvati; e così fu. Sul retro della casa, infatti, dopo pochi minuti cadde una bomba che provocò il crollo previsto da nostro padre e, al contempo, creò una buca grande e profonda.
Il bombardamento fu lungo e spaventoso e quando cessò dinanzi a noi si presentò uno spettacolo infernale: un grande fossato alle cui pendici giacevano corpi di militari dilaniati e molti carri armati e altri mezzi distrutti.
Subito i tedeschi ci scortarono, a piedi, a San Giovanni Incarico e ricordo ancora che durante il tragitto piansi per il freddo che sentivo ai piedi: era gennaio e camminavo sulla brina senza scarpe. Venimmo sistemati in una piccola casa colonica che si trovava vicino ad un loro accampamento dove vedevamo i soldati mangiare e bere in abbondanza mentre a noi era riservata la fame. Per la seconda volta piansi, ma stavolta per la fame.
Un giorno, qualcuno si presentò alla nostra porta e, vista la presenza di tanti bambini e ragazzi, ci fece dono di mezzo sacco di crusca (cibo per bestiame) con il quale dovemmo sfamarci. Solo quando le nostre madri furono chiamate a lavare i vestiti dei militari, potemmo avere qualcosa di commestibile.
Spesso, noi bambini, frugavamo tra i rifiuti della “mensa” degli ufficiali alla ricerca di un torsolo di mela, di una mezza arancia spremuta o di un tozzo di pane secco da intingere nell’acqua. Altrettanto spesso accompagnavamo mio padre al lago vicino per pescare le rane. Ricordo che, a piedi nudi e con le mani infreddolite, scovavo le povere bestiole nascoste sotto il fango in riva al lago, le catturavo, le consegnavo a mio padre e, insieme, le portavamo a casa: quelle rane costituivano la cena per le due famiglie (eravamo in quindici). Ma i guai per noi sfollati non finivano mai: dopo qualche tempo i tedeschi ci trasferirono ad Arpino dove, noi bambini e ragazzi, sfuggendo al controllo dei familiari e soldati, diventavamo testimoni oculari di indicibili atrocità; assistevamo da vicino all’addestramento dei soldati di truppa durante il pomeriggio che precedeva l’invio degli stessi al Fronte di Cassino. L’addestramento consisteva, per ogni soldato, nello scavare una fossa a mezzo busto in cui poi si appiattiva mentre un carro armato vi passava alla massima velocità. Se, disgraziatamente, cedeva uno degli argini della buca, il soldato veniva schiacciato e ciò accadeva ogni volta che lo scavo non veniva completato entro il tempo stabilito dal comandante.
Nella giornata di ritorno dal fronte (normalmente il giorno successivo a quello dell’addestramento), vedevamo arrivare grossi camion, dotati di ribaltatori, carichi dei corpi dei soldati dilaniati sul fronte e poi gettati nelle fosse comuni che erano già state preparate il giorno precedente. Assistevamo, quindi, al riempimento di quelle fosse che veniva effettuato con le stesse pale meccaniche adoperate per scavarle. Ma non tutti i tedeschi incontrati durante la guerra erano crudeli e spietati, vi erano anche dei padri di famiglia tra loro che, alla vista di tanta atrocità, piangevano e si disperavano pensando alla sorte cui potevano essere incorsi i loro familiari in patria.
Ebbene uno di questi uomini lavorava come cuoco per quei poveri soldati destinati al fronte: allo scattare del coprifuoco, come d’abitudine, tutti noi venivamo ospitati nella cucina da campo (un camion attrezzato che si spostava insieme alla truppa) di quel cuoco, nella certezza di trovare qualcosa da mangiare. Inoltre quel cuoco salvò la vita a mio fratello Graziano già catturato e affiancato ai soldati che scavavano le fosse comuni. Graziano, però, eluse la sorveglianza della polizia militare andando a nascondersi in un posto dove nessun tedesco avrebbe mai pensato di cercarlo. Infatti una pattuglia lo cercò invano per una giornata intera e ovunque senza mai trovarlo: era stato proprio quel soldato-cuoco a nasconderlo dentro un pentolone da cucina ricoperto da tante altre pentole non ancora lavate. Terminato il coprifuoco, via la pattuglia, il cuoco fece uscire mio fratello dal pentolone e ce lo restituì sano e salvo. Quell’uomo era stato un dono di Dio, per noi. Poi, una mattina di maggio, ci svegliammo di soprassalto, a causa del rumore esterno, e ci trovammo di fronte uno scenario completamente nuovo, soldati con divise diverse da quelle, ben note, dei tedeschi: erano gli Alleati. Questi, dopo pochi giorni, ci portarono nelle loro retrovie in Calabria poiché non poterono collocarci nella zona di Cassino né sulla nostra collina della Pietà, in quanto erano zone infestate di armi, mezzi militari e mine disseminate in tutte le campagne circostanti. Il viaggio in Calabria, durò circa quindici giorni e solo dopo diciotto mesi ci portarono nelle nostre zone di provenienza.
Il ritorno
Lo spettacolo che ci si presentava al rientro era a dir poco spettrale: erano state bruciate anche le pietre. Questo stato di cose imponeva a tutti di ricercare qualche possibilità di sopravvivenza, tenuto anche conto che tra noi c’erano dei bambini molto piccoli come mia sorella Cesarina e mio fratello Bruno. Quest’ultimo, in particolare, si ammalò gravemente e fu salvato grazie alla penicillina americana che Graziano andò a reperire al mercato nero di Napoli. Insomma, il soldato-cuoco salvò Graziano e questi salvò Bruno.
Un’occasione di lavoro ci si presentò quando qualcuno ci informò che presso la stazione ferroviaria di Cassino si vendeva di tutto. Noi (io, i miei fratelli, Graziano e Pietro e miei cugini Arnaldo, Amasio e Domenico) trascorrevamo lì intere giornate vendendo acqua, sigarette e quant’altro ai viaggiatori. Il ricavato quotidiano dovevamo consegnarlo a nostra madre, la quale doveva occuparsi anche di nostro fratello maggiore, Michelangelo, rientrato dopo tre anni dalla prigionia in Germania.
Piccola parentesi: Michelangelo era un vero fenomeno negli studi. Prima dello scoppio della guerra si era diplomato al Liceo classico conseguendo la media del dieci e poi si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza. Appena rientrato dalla prigionia si iscrisse nuovamente alla stessa Facoltà a Roma e lì, al primo appello, superò ben diciassette esami con voti eccezionali. Nella capitale alloggiava presso una zia, ma al vitto dovevamo provvedere noi. Alla fine, Michelangelo diventò un magistrato.
Ritornando all’ambiente della stazione di Cassino e del nostro piccolo commercio va registrato che si viveva in quei frangenti in uno stato di violenza morale e materiale. La cattiveria umana superava ogni limite e proprio lì assistevamo a numerosi fatti raccapriccianti: un uomo (che mancava assolutamente di umanità ed empatia, eccedendo invece in cattiveria e sadismo) durante la sosta di un treno diretto a nord, ebbe un diverbio con un soldato, poco più che un ragazzo, sceso dal convoglio per necessità fisiologiche. Nessuno di noi capì la causa dell’alterco, sta di fatto che quell’uomo crudele strattonò il ragazzo facendolo cadere tre volte ai suoi piedi e mentre il povero malcapitato stramazzava al suolo con le mani e con un’arma lo picchiò ripetutamente lasciandolo a terra svenuto. Il treno, nel frattempo, ripartì senza quel ragazzo a bordo. Non sapemmo mai nulla della sua sorte, ma molti anni dopo venimmo però a sapere quella dell’uomo che lo picchiò: una fine indegna, che non si augura neanche al peggior nemico.
I luoghi della guerra
Sappiamo bene che i tedeschi si erano ritirati a nord del Gari e del Rapido, dalle Limate fino a Caira.
Ricordo che fino all’8 settembre 1943, il terreno di mio padre, in località Cesarino (di fronte al Monte Trocchio), era occupato da numerosi carri armati tedeschi. Ai primi di gennaio 1944 i tedeschi si ritirarono al di là del Gari e del Rapido, lato nord. Da lì iniziò la tragedia del Fronte di Cassino: la nostra collina era ormai fronte scoperto mentre gli Alleati, per avvicinarsi ai due fiumi e creare la prima testa di ponte, persero migliaia di soldati sul terreno minato posto al di qua dei due fiumi (sinistra), in particolare nella zona di Fontanarosa. Come abbiano fatto gli Alleati a sminare quelle zone e crearsi un passaggio così da raggiungere i due fiumi e oltrepassarli, l’ho saputo direttamente da uno dei due pastori che furono associati a quell’operazione, Luigi Bianchi e Pasquale Zenga (entrambi di Colletornese-Cervaro), i quali resero un grande servizio agli Alleati. Infatti ai due pastori, che avevano assistito, in precedenza, alla posa delle mine anti-uomo da parte dei tedeschi, furono affidate migliaia di pecore (australiane e neozelandesi) da condurre a più riprese sotto la collina della Pietà. Le povere bestie venivano sollecitate ad avanzare verso il fiume, mentre i due uomini si nascondevano nei fossati circostanti. Attraversando i campi le pecore saltarono quasi tutte in aria. Se ne salvarono soltanto quarantacinque, che i due pastori ricevettero come ricompensa per il servizio dato. Questo numero fu confermato molti anni dopo dalla sorella di Antonio Bianchi, mentre il pastore Zenga mi confidò che le pecore sopravvissute furono, in realtà, oltre mille e che le rivendettero a tutti i pastori dei paesi vicini. Gli Alleati avevano finalmente il campo sminato. Era l’11 maggio 1944. L’attraversamento vero e proprio avvenne il 18 maggio 1944 ad opera dei gurka, soldati che facevano parte del Commonwealth (8^ armata inglese). Questo avvenimento fu ripreso anche dal giornale «Italia Libera» che uscì a Caserta e Napoli nel 1944. In nessun libro di storia, tuttavia, si parla di questo episodio.
Nell’immediato dopoguerra: i nuovi giochi
La nostra zona era piena di munizioni inesplose ammucchiate lungo le strade. Moltissimi dalla Campania venivano in prossimità del santuario a rifornirsi in questo “mercato nero”. Ricordo che mio fratello Pietro riuscì ad ottenere, oltre a un moschetto T8, una mitragliatrice tedesca nuova che sparava trentotto colpi di seguito. Purtroppo la utilizzava in malo modo, ad esempio appoggiava sulla mia spalla destra la canna dell’arma indirizzando le sventagliate nel tunnel attiguo alla nostra abitazione. Naturalmente poco tempo dopo quelle armi ci furono tolte.
Io avevo circa nove anni, facevo parte di un gruppetto di ragazzi più grandicelli di me e ubbidivo ai loro comandi. Ci recavamo ogni mattina alla stazione di Cassino per occuparci, come già ricordato, del nostro piccolo mercato nero e, nel tempo che intercorreva tra il passaggio di un treno e un altro, eravamo soliti mettere in atto giochi, taluni molto pericolosi, inventati al momento. Fra tutti, ricordo il gioco del “catozzo”. Questi non era altro che la catasta di legna allestita dai carbonai e poi bruciata a fuoco lento per ricavarne la carbonella. Il nostro gioco però consisteva nell’ammucchiare munizioni inesplose (che nel ’45 abbondavano) nel diroccato deposito motrici della stazione, formarne un “catozzo”, disinnescare l’ordigno centrale, dare fuoco e poi scappare per ripararci e goderci, a distanza, l’effetto “big-bang”. All’inizio quelle esplosioni, interminabili, mi spaventavano non poco, ma poi il gioco cominciò a piacerci. Invece il gioco dell’acqua alta e dei bazooka mi facevano sentire forte: dopo aver fatto incetta di bombe a mano inesplose, disinnescavamo gli ordigni e li scagliavamo nel pozzo sito ai piedi del colle della Pietà col semplice intento di veder schizzare in alto l’acqua del pozzo (vinceva la gara chi la faceva schizzare più in alto). Inoltre vicino al pozzo vi era una grossa buca, formatasi in seguito all’esplosione di una potente ed enorme bomba aerea, e che, riempitasi piena d’acqua piovana, noi ragazzi usavamo come piscina. Il gioco dei bazooka, invece, funzionava così: con i compagni, puntavamo quelle armi verso Monte Trocchio, sicuri di colpire il bersaglio. I colpi, al massimo, raggiungevano soltanto qualche casa diroccata a pochi metri di distanza, ma noi eravamo felici lo stesso: erano giochi pericolosi, ma erano i nostri giochi. Ma il premio per tanta inventiva, alla fine, erano solo calci nel sedere da parte dei miei fratelli più grandi e meritati schiaffoni anche dai genitori.
Epilogo
Non sarà stata per caso la Vergine del nostro santuario, a proteggerci durante tutto il periodo di questa immane tragedia bellica? Sta di fatto che tutta la comunità della Pietà si è salvata ed è tornata a casa, in primis mio fratello Michelangelo, dopo tre anni trascorsi nei lager tedeschi in Polonia.

* Si ringrazia la famiglia Valente e Lorenza Bucci per la disponibilità.

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