Studi Cassinati, anno 2013, n. 1/2
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di Franco Di Giorgio
Un vecchio e collaudato spot televisivo, che ha dato vita ad una fortunata linea di prodotti dolciari e alimentari, ha fissato nelle nostre menti “il mulino bianco”. La scelta di questa immagine è più che evidente; essa evoca nella nostra mente un mondo del passato dove la bontà e la genuinità dei prodotti è certificata da un simbolo, il mulino ad acqua, perfettamente in linea, nel corso dei secoli, con il rispetto degli ecosistemi campestri. Quel mulino, alimentato ad acqua, costruito con tecniche rudimentali e con materiali semplici e rispettosi della natura, esiste ancora oggi ed è perfettamente funzionante. Si trova in territorio di Picinisco provincia di Frosinone, comune ubicato nel territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Il mulino si trova in località Mole Di Vito ed è alimentato dall’acqua di un canale derivato dal corso del fiume Melfa.
In linea di massima gli opifici fino alla fine del 1500 venivano realizzati in linea sui corsi d’acqua. Fu con lo svilupparsi delle tecnologie produttive che, in seguito, si innescarono significative trasformazioni sia nell’ampliamento degli opifici stessi, sia nella struttura del territorio con la realizzazione di chiuse e canali derivati dal corso principale del fiume su cui si insediavano più attività produttive contemporaneamente. Le Mole Di Vito non sono sfuggite a questo processo. Anzi c’è da dire che proprio la media valle del Liri con i fiumi Liri, Sacco, Melfa e Gari diede vita a un intero e complesso sistema produttivo alimentato con l’energia idraulica utile a far girare le numerose macchine installate lungo il corso di questi fiumi o su canali da essi derivati. La costruzione che ospita il mulino è rifatta, in quanto quella originale è stata distrutta durante i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale insieme alla “valchiera”, impianto sito a valle delle mole di macinazione dei cereali. I “palmenti” nel numero di tre che ospitano le macine sono originali. Attualmente solo uno è in funzione. Il movimento delle macine è assicurato dall’acqua che spinge le pale di una turbina tutta rigorosamente in legno con ingranaggi ad innesto e senza cuscinetti metallici, il che suscita una meraviglia in più rispetto alla tecnologia usata al tempo. Le pietre delle macine sono state realizzate con materiale proveniente dalle cave di granito di Pofi (al tempo ubicato nello Stato Pontificio) e di Roccamonfina (località sita nella provincia di Terra di Lavoro, come Picinisco).
Nella costruzione di questo mulino è stata assicurata una particolare cura nella scelta delle macine avendo ben presente l’antico proverbio: “due pietre dure macinano male”. Nella coppia quella che gira deve sempre essere la più dura, mentre quella fissa la più tenera, per cui non è consigliabile lasciare che due pietre uguali lavorino assieme. I palmenti di questo mulino, che per secoli hanno dato garanzia di efficienza, devono molto all’impiego nella macinazione, soprattutto per le farine speciali, di mole di quarzo di “La Fertè” realizzate con una pietra di acqua dolce di colore bianco-grigio blu proveniente dalle cave situate nelle periferie di Parigi. Oggi, in epoca moderna, le macine a pietra vanno riacquistando dignità e possibilità di impiego per avere il merito di soddisfare soprattutto la lavorazione di farine biologiche o farine speciali. È forse anche questa la ragione per cui molti mulini di questo tipo vengono riattivati o addirittura costruiti su disegni di quelli antichi.
La particolarità del mulino di Picinisco è che, fin dalla sua costruzione, non ha cessato mai di funzionare. L’originalità dell’impianto è accompagnata da documentazione che non solo ne certifica l’autenticità, ma che consente anche di ricostruire tutto il mondo che circondava i mulini nel corso dei secoli, comprese le controversie che ne accompagnavano le vicende sia di carattere politico-amministrativo, sia di carattere interpersonale tra imprenditori singoli o associati. Viene conservata, inoltre, una ricca documentazione che ricorda i conflitti territoriali tra il mandamento di Sora e di Arpino per la tassazione delle gualchiere e dei mulini, nonché perizie del corpo ingegneri di acque e strade (periodo 1800-1843). Esiste altresì copiosa documentazione sulle richieste di risarcimento danni da innovazioni abusive effettuate sul corso fluviale tra il 1847 e il 1859.
L’opificio delle Mole Di Vito venne costruito nel 1613 in quello che al tempo era il “Ducato di Alvito”. A seguire fu costruita anche una cartiera (1630) anch’essa alimentata dall’acqua del fiume Melfa. Oltre che dagli atti notarili che segnano i vari passaggi di proprietà dell’antico mulino, abbiamo notizie dell’impianto oltre che una descrizione molto interessante dell’area piciniscana, da un volume (edizione riveduta e corretta 1863) a cura di Gio. Paolo Mattia Castrucci dal titolo Descrizione del Ducato di Alvito nel Regno di Napoli in Campagna Felice. Il testo descrive le bellezze naturali e le condizioni civili ed ecclesiastiche di Alvito e dei paesi che ne costituivano il Ducato, tra questi Picinisco. «Picinisco è lontano da Settefratte tre miglia, al quale si va per una strada ad aquilone, ad euro, per le radici dell’Appennino, molto ripida, aspra e sassosa, fra la quale vi tramezzano torrenti, valloni, cupi, boschi e rupi. Dal Biondo, Leandro Alberti, nella loro Italia, è detto Picinesto, il quale nome vogliono che pigliasse dal suo primo conditore di simil nome; altri dalla pica, uccello consacrato a Marte; quivi comparso nelle antiche cerimonie della sua edificazione: altri dal pico, o picco, arbore di brevi e sempre verdeggianti fronde, simile al cipresso; ma l’albore è simile alli larici, pini ed alberti, ma più alla teda, le quali per naturale oleaginosa grassezza, bruciano a modo di facelle; e ve n’erano, e sono sulle sue montagne, alle quali tagliati, ed incisi li rustichi, e sterili tronche, c’innestarono li gentili, e fecondi surculi della bambina terra, i cui germogli illustri avessero come fiaccole, con lo splendore delle virtù, a risplendere alle genti nell’alto monte; e così dice pica, Insertum, seu inestum, a cui levata per sincope la lettera a, sia detto picinestum; o pure sia detto Picinisco per trasmutazione della lettera “t” in “c”. È posto sopra l’alto dell’Appennino in un monte da ogni parte distaccato, e diviso, che ha alle spalle nella sua maggior lunghezza euro; e la faccia esposta a tramontana, la destra ad aquilone, e la sinistra a scirocco, dalle quali parti ha molte strabocchevoli rupi, alpestri precipizi, ed orridi balzi, che portano seco spavento a’ riguardanti; scorre quest’orrida valle a greco, il fiume Melfi; che ha il suo principio nella descritta montagna di Settefratte, e scorrendo per tre miglia per le valli e monti di Picinisco, per precipizi e balzi, si rompe tra sassi con gran rumore, e si precipita alla volta di ponente a garbino; e per la parte opposta ad ostro, corre alla volta di garbino un torrente per non dissimili balze, e precipizi, che nel fine della valle, si unisce con Melfi; fra questi precipizi e torrenti, vi è la strada d’un miglio di lunghezza, sassosa, erta e ripida, che per due angustissime valli, si ascende da tutti i paesani alla detta terra, non vi essendo altra. È la figura della terra alquanto più lunga da euro a tramontana, tutta circondata di mura, e nella più alta parte vi è un’alta e forte torre con molte stanze, quasi nel mezzo della terra vi è la chiesa parrocchiale di S. Lorenzo protomartire, nella quale si ministrano sagramenti, bene officiata dall’abbate parroco d’annui scudi cento venti; e sette canonici d’annui scudi sessanta, e fuori la porta a levante vi è una amena piazza, con altissime e fronzute teglie ad ostro, che riparano li estivi ardori del sole, in mezzo della quale vi è una chiesa di S. Carlo; e quindi vi è un borgo, dal quale lontano uno stadio all’ingiù, sopra una collina, vi è la chiesa antica della Madonna, la quale era collegiata e la parrocchia. Oggi vi è seppelliscono i morti. Ha anco ad ostro scirocco, un altro borgo. Ha li suoi fini a tramontana con Settefratte; a greco con l’Abruzzo ultra, olim Sanniti, a levante con le montagne delle Mainarde, e valli del Monastero Cassinese dello Stato di S. Germano, dove ora hanno una quantità di vacche per il formaggio e butiro, ad uso di quei buoni padri; tocca anco un poco la badia di S. Vincenzo del contado di Molise delli Sanniti Irpini: ad ostro, collo Stato di S. Germano: a libeccio e garbino con Gallinaro, ed Atino. Dal borgo a levante ed euro, tira una strada angusta per rupi, balzi, sassi alle suddette Mainarde, ed alla Rocca, ed alli Sanniti Vestini, ed Irpini, la quale è molto difficile, e non sono senza pericolo in alcuni tempi d’inverno a viaggiare, ed è una delle porte di questo stato; e la suddetta Rocca si ritrova lontana dalla terra tre stadii in circa, tra austro e levante ad euro, tutta disabitata, sita in un colle, la quale ha i territori in piano, valli, monti e boschi, fecondi di frumento, di vini suavissimi, di frutti, e d’erbe tenere per pascolo d’animali. Oggi questi hanno cominciato a coltivare li deserti territori, ed a fabbricare molte case in diverse parti a modo di ville: in questo territorio ha qualche principio, non so se chiamar debba torrente, o ruscello, chiamato dalli paesani Molarini; che scorre alla volta di Atino; dove s’unisce con Melfi, poiché per la poca acqua, che seco l’estate porta, è piuttosto da chiamarsi ruscello, e per le violente inondazioni, torrente. Sono le montagne molto grandi ed alte, ed in particolare altissima è la Meta, che sempre è adorna del candor della neve; e nella sua altezza è senza arbori, dicono per la violenza dei venti, che quivi d’ogni tempo vi sono; vi sono tranquille selve, boschi, valloni, monti, prati, li quali portano erbe delicate, tenere e fresche, irrigate da frequentissimi sorgivi di acque limpidissime e fresche, che ingrassano e portano molto sani li armenti di qualsivoglia sorte; sono copiose di silvestre damme, caprii, orsi, cinghiali, e lepri, che cacciandosi dalli cacciatori nelle amene valli, che a modo di teatro sono rinchiuse da monti, portano gran piacere e trastullo alli riguardanti. È tutto il territorio in monti, selve, boschi, e colli, parte coltivati con arboreti e vigne, arbori fruttiferi, con bell’ordine, e vaghezza disposti, circondate da belle fratte, o siepi di verdeggianti frondi tessute, ed avviticchiate in modo di pareti di giardini, che apporta gran diletto, e fa una bellissima vista; portano graziosissimi vini, in gran quantità, non dissimili dalli Albani; vero è, che ha poco territorio fertile a grano. Corre, come si è detto, nelle valli, che alle spalle a tramontana ha la bella Melfi, nobile per la qualità delle acque, e celebre per la menzione, che di quella fanno molti autori, la quale correndo a ponente, termina questa piana con quella di Atino, larga da mezzo miglio, e di cinque, o poco più di lunghezza fino a Casale; ed è molto sassosa, piena di inutili sterpi, alpestri cespugli, e non molto feconda di frumento. È molto abbondante di acque, ed in particolare intorno alla terra molto commoda ai cittadini; le quali sono limpide e chiare, d’inverno temperate, e d’estate fresche, ed in particolare è molto limpida, fresca e sana, quella della fonte Scopella. La bella Melfi, nella descritta valle, d’abbondantissima acqua, ha molte mole, sì del signor Duca, come anco de’ particolari dello Stato, le quali oggi sono state comprate dall’eccellentissimo signor don Francesco Gallio, e ridotte in sua potestà tutte, alle quali sono obbligati li cittadini di Picinisco, di Settefratte, e S. Donato, quando questi non vanno alle loro mole, in loro territorio. Vi è una bella valchiera de’ panni, dove sono obbligati andare a valcare i panni tutto lo stato; vi ha nell’istesso fiume fatto disegnare il detto signor Duca eccellentissimo, e dato principio ad una cartiera, la quale sarà delle utili e belle, che siano in Italia, sì per la limpidezza, come per l’abbondanza d’acqua. Sono li cittadini molto amorevoli de forastieri, di bellissimo ed acuto ingegno, atti ad ogni scienza ed arte, a che s’applicano per la commodità delle ville, frutti e vini, che hanno in abbondanza, al cui ornato sono diligentissimi, non applicandosi, fanno ingiuria alla natura, che li ha dotati di tali doni …». Questa descrizione di Picinisco del Castrucci è un inno alla natura e al paesaggio nel cui contesto ammiriamo ancora oggi uno dei simboli della vita contadina dato dal mulino ad acqua delle Mole Di Vito. Il fascino del contesto paesaggistico di oggi non si discosta molto da quello descritto tanti secoli fa e questo fa di questo prezioso cimelio un fatto unico e pregevole.
La valchiera di cui parla il Castrucci è esattamente quella ubicata presso le mole Di Vito. Trattasi di un opificio che normalmente veniva ubicato presso gli argini dei fiumi e predisposto per la lavorazione della carta. In questo caso ci troviamo di fronte a una innovazione molto interessante: con la stessa acqua del canale si alimentava prima il mulino e successivamente, prima di restituire al corso del fiume principale l’acqua non utilizzata, la valchiera, dove veniva impiegata una pila idraulica a magli multipli per battere gli stracci da cui si ricavava la poltiglia per la pasta da carta (materia prima per la cartiera) oppure, con una lavorazione a parte, si procedeva alla prima fase della lavorazione degli stracci che andavano ad alimentare i feltrifici della zona. A tal proposito ricordiamo che in epoca borbonica le divise dei soldati del Regno delle Due Sicilie venivano confezionate da queste parti. Così come, ai primi del Novecento, venivano fornite all’Esercito italiano le divise per gli alpini. In una edizione del 1823 dell’opera Historica descrizione del Regno di Napoli – una sorta di guida turistica del tempo – a cura dell’incisore Giuseppe Maria Alfano, Picinisco e il suo territorio viene così pubblicizzato, Picinisco: «Terra sopra un’alta collina, d’aria sana, Diocesi di Sora, 58 miglia da Napoli distante, feudo di Gallo. Vi è una fabbrica di manifattura di coverte di lana. Produce grani, legumi, frutti, vini, castagne, ghiande, pascoli. Fa di popolazione 2960».
Dei vari atti notarili che certificano i passaggi di proprietà del mulino ricordiamo quello relativo al primo giugno 1813. Con questo atto viene definita la proprietà, in quanto l’impianto è acquisito da una società di persone, ma, allo stesso tempo, viene regolata la turnazione degli aventi diritto alla gestione del mulino. Con l’atto notarile del 18 marzo 1844 venne definito il passaggio di proprietà di alcune quote ad altri soggetti, ma fu anche convenuto che la contrada avesse un proprio canale di irrigazione il quale prese il nome del mulino e si chiamò pertanto canale molino Di Vito. Da un documento datato 4 luglio 1878 e redatto dal direttore tecnico del macinato, competente per la tassa sulla macinazione dei cereali, si rileva all’articolo 1 che: «le quote fisse che il signor Di Vito Benedetto dovrà corrispondere per ogni cento giri di macina e per ciascun palmento del molino denominato Di Vito Antonio a partire dal primo verbale di lettura posteriore al giorno in cui verrà approvato la presente dalla Direzione del macinato di Napoli, saranno rispettivamente le seguenti: palmento n° 1 millecinquanta e dieci millesimi di lira, palmento n° 2 ottocentocinquanta e dieci millesimi di lira; all’articolo 2: l’esercente del molino predetto riconosce che le dette quote furono determinate tenendo conto che le dimensioni massime delle luci rettangolari di afflusso dell’acqua non potranno mai oltrepassare le misure seguenti: per il palmento n° 1 larghezza millimetri duecentododici, altezza millimetri quattrocento. Per il palmento n° 2 larghezza millimetri centocinquantatre, altezza millimetri trecentocinquanta». Dalla licenza speciale rilasciata dal ministero delle Finanze per atto dell’ingegnere provinciale della provincia di Caserta in data 16 dicembre 1879, si rileva l’autorizzazione alla macinazione sia del grano sia di granturco, segala, avena ed orzo. Questa licenza viene data al fine di superare le licenze singole che non prevedevano la macinazione nello stesso impianto del grano e di altri cereali.
Anche dagli atti custoditi dai proprietari delle Mole Di Vito si può dedurre un fatto storicamente accertato e cioè che la derivazione delle acque dei fiumi per attività industriale era regolamentata in maniera controversa. Le controversie aumentarono a dismisura nel corso del XIX secolo proprio in ragione dello sviluppo delle attività produttive e dei relativi insediamenti lungo i fiumi o loro derivati. Ne sono testimonianza le numerose controversie tra imprenditori per danni causati a valle delle deviazioni dall’opificio situato a monte del corso del fiume. Con la nuova legge amministrativa del 1816 ed il nuovo codice civile del 1819 si conferma, come aveva previsto il codice napoleonico del 1804, la demanialità delle acque dei fiumi oltre a riservare al potere pubblico amministrativo qualsiasi controllo sul loro uso. Con l’Unità d’Italia, l’entrata in vigore della legge del 20 marzo 1865, con la quale si vietava la derivazione delle acque pubbliche per insediarvi mulini o altri opifici senza titolo legittimo, le controversie aumentarono pur avendo quel provvedimento legislativo stabilito che l’autorità deputata a verificare l’accertamento del diritto ad effettuare opere e derivazioni che alterassero il corso delle acque fosse il prefetto. Le controversie attorno allo sfruttamento delle acque dei fiumi non sono prerogativa del passato. Ancora oggi, in epoca moderna, assistiamo a vere e proprie battaglie dell’acqua. Avviene in Africa e avviene in Asia dove i litigi coinvolgono i Governi nazionali. Vedi le canalizzazioni e la moltiplicazione delle dighe attorno ai grandi fiumi, dal Nilo all’Indo. Oppure negli Stati Uniti dove le guerre dell’acqua si instaurano tra politici locali o industriali senza scrupoli che progettano costruzioni di dighe e canali megagalattici tali da arricchire delle zone senza pensare al corrispondente impoverimento di altri territori.
Dalla ricca documentazione gelosamente custodita da alcuni degli attuali proprietari delle Mole Di Vito, tra questi i fratelli Filippo e Pompeo Volante, si può ben comprendere come il mulino di cui parliamo rappresenta un elemento essenziale per farci comprendere l’evoluzione storica ed economica di un territorio ancora oggi fortunatamente ben conservato e salvaguardato dal punto di vista ambientale. Le stesse opere pubbliche degli anni ‘50 relative alla captazione delle acque a beneficio dell’Enel e del Consorzio degli Acquedotti Riuniti degli Aurunci (ora Acea Ato 5), che in un primo momento sembrarono mettere in discussione i delicati equilibri idro-geologici di una natura intatta e incontaminata, furono adeguate al rispetto dell’ecosistema tant’è che furono presi opportuni accorgimenti per assicurare a tutti i corsi d’acqua il flusso necessario a garantire gli equilibri esistenti. Con queste premesse è lecito pensare che le bellezze naturali, ambientali e fluviali di Picinisco saranno ancora per molto tempo gelosamente preservate in modo da poterle raccontare alla maniera del Castrucci e del suo meraviglioso dialogo con la natura e il paesaggio piciniscano. Il mulino ad acqua, là dove ancora esistente, è spesso sfruttato per attività turistiche. Ma non bisogna sottovalutare che le farine prodotte con mulini a pietra ancora oggi sono particolarmente apprezzate da chi ama la cucina biologica. Non c’è dubbio, infatti, che le farine dei mulini a pietra risultano più digeribili rispetto a quelle prodotte dai moderni mulini a cilindri a causa delle diverse temperature in cui avviene il processo molitorio. Ne consegue che anche il mulino delle Mole di Vito di Picinisco va salvaguardato non solo come prezioso cimelio del passato o, se si vuole, come strumento di attrazione turistica, ma anche, se possibile, come prospettiva di una rivalutazione, nelle luoghi una volta appartenenti all’antica provincia di Terra di Lavoro, della cucina biologica.
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