Quando la storia di una città si lega “violentemente” a una famiglia. La famiglia Mattei e il bombardamento dell’abbazia di Montecassino.

 

Studi Cassinati, anno 2013, n. 3
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di Valentino Mattei

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Può sembrare strano quanto numeri e vicende possano legare una persona o una famiglia ad un luogo. Questo è ciò che si evince dal racconto della storia della mia famiglia oramai legata a Cassino in modo indissolubile. Tale vincolo è iniziato negli anni Venti, poco dopo la fine della prima guerra mondiale quando il mio bisnonno, Vincenzo De Iorio (1881-1967), nativo di Rocca D’Evandro, rientrò dall’Albania unitamente ai suoi cinque fratelli impegnati su altri fronti e si trasferì a Cassino. Acquistò un podere nella zona di San Silvestro e lì si stabilì con la sua famiglia composta dalla moglie Ida Belmonte (1880-1966), originaria di Mignano, e i suo tre figli: Clara (1915-2010), Lea (1916-2004) e Giovanbattista (1919-1986).

Stralcio di carta militare polacca.
Stralcio di carta militare polacca.

La vita familiare scorreva regolare, scandita dai rintocchi della Torre Campanaria che dalle finestre di casa, situata poco dopo l’inizio di via Montemaggio, vicino le scuole Pie e la chiesetta di S. Anna, si udivano chiari e puntuali e cadenzavano il trascorrere della giornata. Lì il mio bisnonno aveva costruito la casa e coltivava il terreno cercando di offrire alla famiglia un’esistenza dignitosa. Nessuno immaginava cosa la vita avrebbe riservato loro. Poi arrivò il Fascismo e l’alleanza con la Germania fino a quando, nel 1940, anche l’Italia entrò in guerra. Nel 1941 Clara sposò Alfredo Mattei (1915-1999) nato a Monteroduni da genitori originari di Isola Liri e Roccasecca. Poco dopo anche Battista convolò a nozze, ma ormai la guerra era divenuta una triste realtà.
Con l’annuncio dell’armistizio, 8 settembre 1943, le truppe tedesche stanziate in Italia si trasformarono da alleati in truppe d’occupazione. La situazione precipitò, il Paese era allo sbando e gli anglo-americani, sbarcati in Sicilia a luglio dello stesso anno, risalivano la penisola. Il fronte si stava avvicinando ma nessuno immaginava che di lì a poco Cassino unitamente ad Ortona sarebbero stati i due capisaldi di una linea difensiva che avrebbe dovuto ostacolare l’avanzata alleata. Cassino era di vitale importanza perché considerata la «porta per Roma»: solo qui, visto il terreno pianeggiante della valle del Liri, potevano passare agevolmente le truppe che avrebbero dovuto liberare la Capitale. I preparativi della linea difensiva erano iniziati da tempo e proprio la zona di San Silvestro era uno dei punti di possibile attacco da parte degli alleati (cosa effettivamente avvenuta nel corso della seconda battaglia con l’assalto proveniente da Caira che, seguendo la via Caruso che terminava proprio a ridosso della Rocca Janula, aveva come obiettivi iniziali il castello e l’abitato).

Famiglia De Iorio. Da sinistra: Lea, Ida De Iorio nata Belmonte, Vincenzo, Clara Mattei nata De Iorio.
Famiglia De Iorio. Da sinistra: Lea, Ida
De Iorio nata Belmonte, Vincenzo, Clara Mattei nata De Iorio.

Nel frattempo, in giorni di provata durezza e crudeltà, la famiglia dei miei bisnonni viveva, ignara, in una zona che sarebbe divenuta ben presto un importante snodo di operazioni militari. Le fallite operazioni di sfondare la Gustav durante la prima battaglia posero quell’area al centro delle operazioni d’attacco alleate con obiettivo la città e la sua Rocca.
La pressione esercitata dai tedeschi sulla popolazione locale divenne insostenibile. Non passava giorno che le persone non ricevessero intimidazioni a lasciare le proprie case o che fossero oggetto di requisizioni di ogni genere: acqua, vino, viveri, animali, tutto era oggetto delle sempre più frequenti razzie. La situazione era decisamente critica, ma il mio bisnonno disattendeva quelle ingiunzioni: nulla avrebbe potuto allontanarlo dalla casa e dalla terra amata e curata con passione e dedizione. Purtroppo, però, il rischio di essere fatti prigionieri o fucilati era sempre più una triste realtà. Mia nonna Clara quel periodo lo ricordava ancora con sofferenza per la fame, le privazioni e le umiliazioni subite anche perché all’epoca il suo primo figlio, Vincenzo (Enzo) Mattei, era un bimbo di poco più di due anni.
«Mio padre non voleva andare via di casa. Si convinse solo quando, fatto prigioniero per essere fucilato per la morte di un tedesco, lo riuscimmo a salvare per l’intervento di un ufficiale tedesco di origini austriache con cui avevamo fatto amicizia. Era già stato “messo al muro” quando, grazie a quell’interessamento, fu escluso dall’esecuzione.
Fortunatamente si salvò, riportando solo delle contusioni provocate dal calcio del fucile di un soldato che

Alfredo Mattei.
Alfredo Mattei.

componeva il plotone d’esecuzione e che lo colpì poco prima che andasse via. Gli altri, per quanto ne so, furono tutti fucilati. Fu a seguito di questo episodio e su forte insistenza dell’ufficiale tedesco che mio padre abbandonò la casa, che non era più sicura, e sfollammo verso Montemaggio. Eravamo solo noi di famiglia: io, mio marito Alfredo, il bambino, mamma, papà e Lea. Mancava solo Battista che in quel periodo non era con noi. Ci rifugiammo sulle montagne, su a Montemaggio, presso dei contadini, tali “Vaccarella”1. Nonostante l’allontanamento da casa, mio padre continuava a scendervi per controllarla. Per poterlo fare fingeva di essere un vecchio claudicante che camminava con l’uso di un bastone per evitare di essere fatto prigioniero e si copriva il volto con un cappello. Se a questa sorte scampò papà, non vi scampò mio marito che mentre eravamo in montagna fu fatto prigioniero e portato ad Aquino. Mentre si allontanavano provai a seguire i soldati, col bambino in braccio, per cercare di commuoverli e convincerli a lasciarlo, ma invano. Mi minacciarono più volte dicendo di andarmene fino a quando, puntandomi il fucile contro, dovetti rinunciare per l’incolumità del bambino e mia. Alfredo rimase ad Aquino per alcune settimane. Era “tornato” nel paese dove aveva fatto il Capo stazione fino all’8 settembre. Dopo quella data nel caos generale, aveva deciso di abbandonare il servizio.
L’organizzazione tedesca per la gestione dei prigionieri era tale che ad ognuno veniva attribuito un numero e questi era responsabile del controllo del numero che lo precedeva e lo seguiva. Un giorno mio marito, con la scusa di non sentirsi bene, unitamente ad un suo amico riuscì a fuggire. Non ho mai saputo con precisione cosa accadde a quelli che erano legati ad Alfredo secondo il criterio della numerazione, ma per quanto ne so queste persone furono malmenate ma non fu fucilate. La situazione si faceva di giorno in giorno sempre più critica. I monaci, inizialmente, non volevano accoglierci nel Monastero ma, grazie ad una personale amicizia fra l’abate Diamare e papà, questi riuscì a portarvi in salvo delle masserizie. Sapendo che Montecassino era zona neutra tutti speravamo di trovarvi riparo dalle bombe; anche alcuni tedeschi, quelli buoni, ci consigliavano di andare lì. Dopo molte insistenze e vista la situazione sempre più difficile, l’abate si convinse ad aprire le porte dell’Abbazia e ad accogliere noi e tanta altra povera gente. Lì erano rimasti l’abate ed alcuni monaci. Tutti i seminaristi erano stati trasferiti a Roma o mandati presso le proprie famiglie pochi giorni prima del nostro arrivo. L’abate ci accolse dicendoci: “Quel che Dio vuole, sarà!”. Ci fece sistemare nello scalone e noi occupammo lo spazio disponibile nei pressi delle cosiddette “stanze di San Benedetto”. Il mangiare era poco. Avevamo con noi un po’ di provviste e altre cose ce le procuravamo comprandole alla borsa nera.

Enzo Mattei, 1949.
Enzo Mattei, 1949.

Ognuno pensava per sé. La mattina presto gli uomini uscivano e andavano a Roccasecca, Piedimonte, Aquino o altri paesini per comperare da mangiare, ma era comunque poco e rischioso. A volte capitava che i tedeschi, incontrando gli uomini che rientravano prendevano loro quanto avevano acquistato. Noi non credevamo che Cassino sarebbe diventata zona di guerra. Chi non era di Cassino era già andato via, ma chi era di qui non voleva lasciare la propria terra e la propria casa. Speravamo nell’avanzata degli inglesi che però non arrivavano mai. La permanenza nel Monastero proseguiva fra fame e paura e ciò era la nostra quotidianità. “Pane, pane…”, mi chiedeva Enzo. Nel Monastero non c’erano soldati. Ogni tanto veniva un medico a parlare con l’abate. Solo qualche tedesco era buono, i più erano cattivissimi. Quando stavamo nelle campagne di Montemaggio, alle volte, li vedevamo mangiare e il bambino si avvicinava loro ma lo scacciavano. Un giorno si diffuse la voce che nel bosco era stato macellato un vitello. In molti accorremmo per accaparrarci un pezzo di carne ma quando andai a cuocerlo mi accorsi, dall’odore, che non era carne di vitello ma di asino. Mia madre mi disse di tacere per non allarmare gli altri. Ben presto la notizia si diffuse ma, per la fame, nessuno rinunciò a quel cibo. Due ragazze partorirono proprio pochi giorni prima del bombardamento ed io le aiutai, insieme ad altre donne, a far nascere i bambini. Per dormire avevamo dei pagliericci ed eravamo pieni di pidocchi. Per andare in bagno dovevamo uscire fuori sperando di non essere colpiti dalle cannonate. I pochi indumenti che avevamo erano in un sacco unitamente a qualche oggetto di valore.
Prima del bombardamento buttarono dei volantini che non caddero nel Monastero ma nel bosco vicino dove non c’erano tedeschi che, per paura, non vi si addentravano. Gli uomini presero quei volantini e li portarono all’abate che giudicò il Monastero luogo non più sicuro, ci impartì la benedizione e ci invitò a decidere su cosa fare. Iniziò il bombardamento. Fu tremendo. Allo scoppio delle prime bombe ognuno pensò a sé: chi cercò di scappare, chi di proteggersi alla meglio, eravamo impotenti. Dopo la prima ondata ci

Cornice antica salvata dalla guerra.
Cornice antica salvata dalla guerra.

vedemmo arrivare l’abate con due monaci con il vestito tutto bianco di polvere. Mentre cercava di capire come stavamo, sentimmo arrivare altri aerei. Tutti ci inginocchiamo e l’abate ci diede l’assoluzione in articulo mortis e iniziammo a pregare. Vedemmo tremare e crollare le pareti, però, come Dio volle, rimanemmo solo intrappolati tra le macerie. Della mia famiglia ci salvammo tutti, ma ci furono numerosi morti e feriti. Una scheggia, rossa come il fuoco, riuscì a entrare dove eravamo noi. Girava vorticosamente poi colpì la parete e rimbalzò centrando mortalmente una donna che aveva in braccio un bambino piccolo. Fummo bombardati per due o tre volte di seguito. Chi urlava, chi piangeva, chi si abbracciava, chi pregava. I bambini erano terrorizzati, Enzo piangeva disperatamente e con le manine si copriva le orecchie. Aveva sete ma non avevo nulla, allora un monaco [don Agostino Saccomanno, fortemente legato al mio bisnonno e mia nonna] gli porse una parte dell’acqua dell’ampollina che avrebbe dovuto usare per celebrare la messa. Quel giorno fu tremendo [15 febbraio 1944], fino a mezzogiorno gli aerei andavano e venivano. Noi non potevamo fare nulla. Quando finì il bombardamento l’abate ci disse che lì non c’era più niente da fare e suggerì di scendere ad Aquino dove cercare dei mezzi tedeschi per raggiungere Roma. Per poter uscire fu ricavato un passaggio verso l’esterno, un buco, fra le macerie del portone dello scalone da dove carponi potemmo uscire. Uscii prima io e poi mio figlio e gli altri componenti della mia famiglia. Scendemmo verso la valle con l’idea di raggiungere Aquino dove ci avevano detto che i tedeschi, con dei loro mezzi, ci avrebbero portati a Roma. Noi andammo via subito, prima dell’abate. Eravamo in tanti e fuori non si capiva nulla, tutto era cambiato tanto che, convinti di scendere verso Aquino-Piedimonte, ci trovammo nuovamente a

San Silvestro, Via Montemaggio. Sullo sfondo la casa
San Silvestro, Via Montemaggio. Sullo sfondo la casa in legno costruita da Vincenzo De Iorio dopo la guerra. (foto LIFE)

Cassino. Tale era la devastazione del paesaggio che ci disorientammo per cui non ci rendemmo conto di aver sbagliato direzione. Anche mentre scappavamo giù verso la pianura continuavano ad arrivare delle cannonate ed io, più volte, fui costretta a buttarmi a terra proteggendo col mio corpo Enzo. Quando mi rialzavo cercavo con lo sguardo i mie familiari e poi riprendevamo a scendere. Ci riparammo tra le macerie e lì passammo la notte. Il giorno seguente andammo via e ci avviammo a piedi verso Aquino. Lì non ci voleva nessuno. Ci rubarono anche i pochi oggetti di valore che avevamo con noi. Rimase solo una miniatura antica che ancora ho qui in casa. Restammo lì poco tempo. Non ci potevano vedere. “Voi siete sfollati, andate via” ci dicevano “ci volete togliere il poco che abbiamo”. Loro mangiavano e a noi non davano nulla. Neanche al bambino che piangeva per la fame. Ci incamminammo, quindi, verso Isola Liri per raggiungere i miei suoceri. Si viveva nel terrore, ogni tanto si sentiva sparare e qualche cannonata cadeva vicino casa. Quando arrivammo eravamo affamati, sporchi e pieni di pidocchi. Mia suocera ci fece svestire in una camera e bruciò tutto quello che avevamo addosso e quei pochi vestiti che avevamo nel sacco li fece bollire. Da mangiare non ce n’era e quel poco che si trovava ce lo facevano pagare “caro e salato” e quello che riuscivamo a prendere con la tessera non bastava mai».
Così mia nonna Clara ha sempre ricordato quei tragici momenti del 1944 che ho avuto la fortuna di sentire

Testimonianza autografa di Clara Mattei nata De Iorio.
Testimonianza autografa di Clara Mattei nata De Iorio.

più volte raccontare. Nel 2001, su mia sollecitazione, mia nonna scrisse parte dei suoi ricordi e in occasione delle celebrazioni del Sessantennale li raccontò anche alla prof.ssa Daria Frezza. Quanto appena riportato è l’unione di quanto scritto per me e narrato nella video intervista.
Non possono tali avvenimenti non legare una famiglia alla storia della propria città. Fatti e numeri lo confermano. Sarà, forse, una strana coincidenza ma quella data, il 15 febbraio, giorno in cui fu bombardato il Monastero, ritorna per ben tre volte nella storia della mia famiglia. La prima, quando nel 1944 fu distrutto il monastero, la seconda, quando nel 1967 morì il mio bisnonno Vincenzo e la terza, quando sono nato io nel 1977. C’è poi un ultimo elemento che ci lega a questa realtà “cassinese”: quel bambino, quel figlio che aveva patito così tanto la fame e la sete, testimone inconsapevole di quanto gli stava accadendo intorno, “da grande” sarebbe diventato Sindaco di questa città, ricoprendo la carica dal 1980 al 1986. Città che ha visto morire e risorgere e che forse, ma questo non spetta a me dirlo, ha contribuito a far crescere.

Fonti:
Testimonianza autografa di Clara Mattei, nata De Iorio, Cassino, 2001.
Video intervista di Clara Mattei, rilasciata alla prof.ssa Daria Frezza in occasione del sessantesimo anniversario della distruzione del Monastero.
mail autore: valentinomattei@libero.it

1 Cognome o soprannome di una famiglia che viveva in zona.

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