Sprazzi di gloria per una nobile decaduta

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Studi Cassinati, anno 2013, n. 1/2
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di Costantino Jadecola

046-07Il 25 febbraio scorso la ferrovia Roma-Napoli, via Cassino, ha compiuto 150 anni di vita: era il 1863 e si compiva, a quel punto, una storia iniziata almeno venti anni prima quando, l’11 dicembre 1843, era stata aperta al pubblico dai Borbone la Napoli-Cancello-Caserta prolungata qualche mese dopo, il 25 maggio 1844, sino a Capua e successivamente prima a Presenzano, poi a Cassino e quindi ad Isoletta.
A quel tempo, l’attuale regione meridionale del Lazio era divisa fra due dei più potenti e antichi Stati tra quelli che si spartivano la penisola: lo Stato pontificio fino al Liri, dal Liri in giù il Regno delle Due Sicilie. Ovvero, ci si trovava a far parte da un lato di uno Stato, che aveva avuto l’intuizione di realizzare la prima ferrovia della penisola italiana; dall’altro di uno, quello Pontificio, dove le cose andavano, invece, in maniera diametralmente opposta anche se, alla fine, sarebbe stato proprio questo a completare per primo, sul finire del 1862, la tratta di propria competenza tra Roma e Ceprano.
Nei suoi 150 di vita la ferrovia Roma-Napoli via Cassino è stata spesso al centro dell’attenzione. Specialmente nei tempi a noi più prossimi: infatti, non passa giorno che di essa non si parli sulle cronache locali per disfunzioni di varia natura dovute essenzialmente ad un disinteresse pressoché totale da parte di chi dovrebbe gestirla ma in parte anche, almeno per quanto riguarda l’assetto interno delle vetture, alla profonda inciviltà che caratterizza alcuni dei suoi utenti.
Ma se oggi per questa ferrovia le cose vanno male, molto male, ci sono stati per essa momenti migliori? Non è facile dirlo anche se si ha la presunzione di supporre che dovettero essere tempi sicuramente diversi quelli in cui essa agiva, come dire, in regime di monopolio, cosa, questa, che si protrasse ben oltre sessant’anni, cioè sino all’entrata in funzione della sua consorella via Formia.
046-07-1Di quel tempo, quando di qui passavano anche i cosiddetti treni internazionali, non è che restino tracce significative. Tutt’al più riferimenti letterari che autori piuttosto importanti ne fecero in alcune delle loro opere e che ora, per la circostanza del Centocinquantenario, può essere interessante ricordare.
Cominciamo da Ferdinando Gregorovius (1821-1891), il grande storico tedesco che nel 1858 descrive l’origine della ferrovia nella futura capitale d’Italia: «Chi oggi esce da quella veneranda Porta di Roma (porta Maggiore, nda), godrà la vista della nuova stazione provvisoria, appena inaugurata, della prima ferrovia che da Roma o dallo Stato pontificio conduce a Napoli. I suoi edifici insignificanti spariscono quasi vicino alle gigantesche arcate dell’antico Acquedotto Claudiano. Sembra che la più moderna invenzione della civiltà si vergogni di comparire accanto a queste gigantesche rovine di Roma, che essa tuttavia supera di molto per genialità, tanto che Plinio e Traiano la contemplerebbero con lo stesso stupore di un pastore del Lazio alla vista di una locomotiva che fugge sbuffando. Se si esclude il più bel tratto ferroviario del mondo, quello di Napoli-Pompei, non c’è un contrasto fra due epoche della civiltà che più colpisca di quello presentato dalla vista della prima ferrovia di Roma fuggente sul terreno coperto di muschio dell’Acqua Claudia, attraverso il melanconico Agro, fra antiche tombe romane e torri solitarie»1.
Ed è un altro grande, stavolta francese, Alessandro Dumas (1802-1870), a fornirci le stesse notizie ma dall’ex capitale del Regno delle Due Sicilie dove a quel tempo, e per qualche tempo, siamo all’indomani dell’Unità d’Italia, lo scrittore risiede stabilmente: «Per uscir da tutto questo labirinto e raggiunger ora la ferrovia, passiamo per la porta del Carmine, la stessa per la quale Garibaldi entrò in Napoli il 7 settembre 1860, e fermiamoci alla seconda stazione.
046-07-2«È quella di Roma; la prima è quella di Salerno.
«A qualunque punto del mondo metta capo una ferrovia, una stazione è sempre una stazione, e la miglior cosa che si possa fare è di giungervi all’ora precisa della partenza per restarvi il minor tempo possibile»2.
Ancora Gregorovius torna a parlare della ferrovia, stavolta, però, del suo stato quasi a metà del tracciato. È il 1859: «Il lettore è ora invitato ad abbandonare la strada di Capua (l’attuale via Casilina, nda) ed a prendere a destra quella in mezzo alla pianura, che porta ad Aquino3. Con piacere attraversiamo i binari da poco installati della ferrovia, quasi pronta fin qui. Purtroppo la sua inaugurazione è procrastinata; innalziamo lodi al governo napoletano per aver fatto costruire questa importante linea ferroviaria, e deprechiamo che dal confine romano non parta ancora il tratto ferroviario che dovrà congiungersi ad essa. Perché la ferrovia della Campagna romana arriva soltanto fino ad Albano»4.
Una volta entrata in funzione, la nuova ferrovia diviene anche lo spunto per un viaggio finalizzato a mettere in luce le molte realtà presenti tra Roma e Napoli con particolare riferimento alle vicende storiche che caratterizzarono alcune di esse e ai grandi personaggi che in queste realtà ebbero i loro natali.
Ad avere un’idea del genere è Alessandro Dumas. Amico e ammiratore di Garibaldi, era al suo fianco il giorno in cui questi fece il suo ingresso a Napoli dove, oltre a svolgere l’incarico di direttore degli scavi e dei musei, incarico assicuratogli dall’eroe dei due mondi e che mantenne sino a quando i napoletani non si ribellarono a tale intromissione estera (1864), l’11 ottobre 1860, con il patrocinio del ministro dell’Interno Liborio Romano, fondò e poi diresse il giornale «L’Indipendente», tra i cui più autorevoli collaboratori figurava il futuro fondatore del Corriere della Sera, Eugenio Torelli Viollier.
E proprio su questo giornale, il cui “gerente responsabile” era Giosuè Anastasio, Dumas pubblicò a puntate, alla stregua di un romanzo di appendice, ovvero nella parte bassa della prima pagina, questo suo particolare viaggio Da Napoli a Roma il cui testo, tradotto dal francese dallo stesso Eugenio Torelli, divenne appena dopo (1863) un libro che, per la cronaca, fu stampato presso la tipografia dell’«Indipendente», lo stabilimento tipografico del Plebiscito in via Chiaia, 63.
Dopo il già riferito approccio al treno e dopo essersi adagiato «alla meglio nel wagon», Dumas inizia il suo racconto che, per quel che ci riguarda, comincia a diventare interessante dalle parti di Teano non tanto perché da queste parti la via Latina, «corre ad un dipresso»5 della ferrovia quanto, piuttosto perché «qui non siamo né sulle terre di Francesco II né su quelle di Vittorio Emanuele; siamo sulle terre de’ briganti. Il loro regno incomincia a Teano e termina ad Isoletta, cioè alla frontiera dello stato romano, che li fornisce gratis alle province napoletane»6.
046-07-3L’arrivo a Sangermano, l’odierna Cassino, costituisce ovviamente l’occasione per parlare di Montecassino. Dumas ha l’opportunità di visitare il monastero e di incontrare l’abate, che dovrebbe essere don Simplicio Pappalettere, rimanendone affascinato: «se l’abbate è lo stesso che assisté alla festa dell’inaugurazione della ferrovia, conversate con lui quanto più tempo potrete: è un uomo amabilissimo. Procurate che vi riconduca fino a S. Germano e non vi annoierete per via»7.
Infine, un suggerimento: «prima di partire da Sangermano, non tralasciate di visitare gli avanzi dell’antica città. Al Crocifisso troverete un pezzo dell’antica via che serba l’orma delle ruote de’ carri come a Pompei, le rovine del teatro e quelle del Colosseo»8.
Nel viaggio verso Arpino, sede della successiva tappa, Dumas accenna a «Piedimonte, Palazzuolo e Roccasecca» e, una volta superato il Melfa, ad Arce. Evidentemente affascinato dallo scenario che da Arpino può godersi e dai riferimenti che da tale visione vengono sollecitati, Dumas accenna «al villaggio de’ Sette Fratelli (Settefrati, nda)» dove «nacque il monaco Alberico che vide in sogno l’inferno»9 e quindi si lascia andare a quella che lui definisce una «digressione» cioè un giro per gli Abruzzi ed anche «a quel famoso lago Fucino, nel disseccamento del quale l’imperatore Claudio fallì, ed a cui è riuscito il principe Alessandro Torlonia.
«Non v’incresca la digressione che vi faremo fare: la strada è pittoresca e lo scopo curioso.
«In luogo di ridiscendere da Arpino a Sangermano, ci avvieremo per la collina e scenderemo a Sora presso Carnello, il villaggio delle fabbriche di panni, di cotone, di carta. Ivi il Fibreno, dopo aver traversato la strada consolare di Sora sotto un ponte, si versa nel Liri.
«Indugiamoci alquanto sul Fibreno. È un leggiadrissimo fiumicello che mena le acque più fredde e più limpide che si possano vedere»10.
Da Carnello a Sora il passo è breve. E Sora, più che per i suoi riferimenti storici archeologici secondo Dumas «negli ultimi tempi è divenuta famosa per due uomini assai differenti. Il primo è il mugnaio Gaetano Mammone; l’altro monsignor Montieri11, amico del re Ferdinando II, rifugiato oggi a Roma presso Francesco II, ed uno de’ direttori del brigantaggio»12.
Ma questa è una carezza. Infatti, nelle pagine successive, prima di dilungarsi sull’Abruzzo e riprendere quindi il suo viaggio in ferrovia da San Germano, lo scrittore francese dirà cose ben più diffamanti.
Dopo San Germano e Aquino, giunto a Ceprano, Dumas non può fare a meno di evidenziare di essere «in terra pontificia» così come a Ceccano riaffiora in lui quella sua fobia per i briganti al punto da supporre che quella contadina dal pittoresco abbigliamento, «che passa, seguita da un cane, va forse a portar pane a’ briganti. Non la fermate: ha in tasca le indulgenze di Sua Santità Pio IX»13. Poi, superate le stazioni di Frosinone, Ferentino e Velletri, l’arrivo a Roma.
046-07-4Di una «guida» grosso modo caratterizzata dalle medesime caratteristiche è autore Alessandro Guidi che, però, diversamente da Dumas, prende le mosse da Roma e non si discosta mai dai centri abitati toccati dalla ferrovia fino a San Germano. S’intitola, infatti, Viaggio da Roma a Montecassino nuovamente descritto. Anche Mark Twain (1835-1910) accennerebbe in The InnocentAbroad (1869) alla nostra ferrovia della quale si servirebbe per spostarsi a Napoli durante il suo viaggio in Italia. Trovandosi a Livorno, dapprima sale su una nave per raggiungere la città partenopea ma poi, nel timore di possibili contagi, giunto a Civitavecchia sbarca e prosegue il suo viaggio, prima per Roma e poi per Napoli, in treno. E conclude: «… Per fortuna i vagoni non li mettono in quarantena, a prescindere da dove abbiano raccolto i passeggeri…».
Dovrebbe essere il primo marzo 1869 quando lo scrittore e poeta statunitense Henry W. Longfellow (1807-1882) arriva a Cassino accompagnato dalla sorella Anna, dal fratello Samuel, dal cognato Thomas Appleton e dai suoi cinque nipoti. E dovrebbe essere proprio il suo viaggio in ferrovia da Roma ad ispirargli la poesia Montecassino (Terra di Lavoro) che inizia con questi versi: «O bella valle, tra’ cui verdi campi/Il Garigliano silenzioso avanza:/E il Liri, allevator di giunchi e canne,/D’antichi carmi taciturno fiume.// O Terra di lavoro e Terra di Riposo/Dove i borghi del medio-evo, bianchi/Dei colli ai fianchi sorgono, e dei monti/In vetta, mura etrusche ovver romane».
E prosegue: «Ivi è Anagni, dove Bonifacio/Con disdoro dal seggio fu deposto;/Sciarra Colonna, di quel giorno infausto/Fu sol del papa, od anche tua fu l’onta?//Ecco Ceprano, dove “fu bugiardo/Ciascun Pugliese”, al dir del sommo Dante,/Col disertar Manfredi ed alla volta/Di Benevento lo spronava e a morte.//Ed ecco Aquino, la città dei Volsci,/Patria di Giovenale, la cui luce/Fosca sovr’essa ancor s’attarda, quale/Baglior notturno su città riflesso.//Doppia è la luce, che ne le sue vie/L’Angelico Dottor giocò fanciullo,/E sognò forse quelle idee che svela/Nei densi folii, agli scolasti adatti.//Ed ivi, in alto, qual fugace nube/Che si libra posando in cima al monte,/Le sue mura superbe e venerate/Montecassino verso il ciel solleva.//Ricordo ancora come a piedi ascesi/Per la sassosa via che all’atrio mena;/In alto, il suon de l’ora vespertina,/Giù la città, ne l’ombre, sonnecchiante.//E ben ricordo l’arco basso e scuro,/La cisterna, il cortile e l’ampia loggia,/Donde, in fondo, la valle traspariva/Quale giardino nell’occidua bruma.//Calava il sole, e coi suoi tenui rai/Baciava i monti; s’imbruniva il piano,/E, i verdi campi attraversando, il fiume,/Come lama nel fodero, spariva.//Del loco era il silenzio come un sonno,//Si’ di pace era pieno; ed ogni suono/Di passi era un richiamo dagli ascosi/Recessi delle età che più non sono…»14.
Infine, dopo altre riflessioni su Montecassino, la conclusione: «Poi chè al ridestarsi della valle,/La vaporiera io vidi che lanciava/Al ciel fumanti spire, e mi destai/Come uno che da un sogno si riscote»15.
Matilde Serao (1856-1927), al contrario, non ci fornisce informazioni storico-turistiche ma ambienta nello scompartimento di un convoglio che di notte muove da Napoli alla volta di Roma l’iniziodi uno dei suoi romanzi, La conquista di Roma (1880)16, incentrato sulla vita parlamentare al tempo della Roma umbertina.
Il racconto prende le mosse dalla stazione di Capua dove «un gruppo di ufficialetti, tanto per finire la serata, era venuto a vedere il passaggio del treno notturno Napoli-Roma. Mentre il conduttore chiacchierava, sommesso, col capo-stazione, che gli dava una commissione per Caianello, e il postino tendeva un sacco di tela, pieno di lettere all’impiegato postale ambulante, gli ufficiali, discorrendo fra loro e facendo, per abitudine, risonare i loro speroni, guardavano se qualcuno salisse o scendesse, sbirciavano dagli sportelli aperti se apparisse qualche bel visetto di donna o la faccia di qualche amico. Ma molti sportelli restavano chiusi, con le tendine oscure tese sui vetri, da cui una luce fioca di lampada velata traspariva, quasi uscendo da un’alcova dove già il sonno avesse vinto i viaggiatori: da quelli aperti si scorgevano, nella penombra, dei corpi sdraiati, in un ammasso bruno di coperte, di mantelli e di scialli.
«‘Dormono tutti’, disse un ufficiale: ‘sarebbe meglio andare a letto’.
«‘Questi saranno due sposini’, soggiunse un altro, leggendo sopra uno sportello: riservato.
«E poiché le tendine non erano abbassate, l’ufficiale che ardeva di curiosità giovanile saltò sul predellino, e accostò il volto al cristallo: ma discese subito, deluso, stringendosi nelle spalle.
«‘È un uomo solo’, mormorò: ‘un deputato, certo; dorme anche lui’.
«Ma l’uomo solo non dormiva»17.
Piuttosto è tormentato dai ricordi del passato e delle incognite di un futuro tutto da scoprire con la sua aspirazione alla gloria e al successo, fine ultimo di quella sua volontà di «arrivare» ad ogni costo. Si tratta, infatti, del neo-deputato avvocato Francesco Sangiorgio che dalla natia Basilicata muove alla volta della capitale per prendere possesso del nuovo incarico.
«La grande casa dormiente correva nella notte, come mossa da una volontà ferrea, ardente, che trasportasse seco tutte quelle volontà inerti nel sonno.
«- Dormiamo, – pensò l’onorevole Sangiorgio.
«Sdraiatosi di nuovo, cercò di assopirsi. Ma il nome di Sparanise, detto sottovoce, due o tre volte, alla fermata, gli rammentò il piccolo e povero paese di Basilicata, onde veniva, che insieme con venti altri poverissimi villaggi, gli aveva dato tutti i suoi voti per crearlo deputato18.
«(…) Alla stazione di Cassino, dove il treno si ferma per cinque minuti, all’una dopo mezzanotte, non discese alcuno; e il garzone del caffè che dormiva sotto la lampada a petrolio, con le braccia sul marmo del tavolino e la testa sulle braccia, non si mosse. I guardafreni, avvolti nel cappotto nero, col cappuccio calato sugli occhi e una lanternetta in mano, andavano tentando i freni, che mandavano uno squillo metallico, di un’intonazione purissima, come cristallo.
«Anche il fischio della vaporiera, partendo, era dolcemente rauco, voce grossa e acuta, che si smorzava, per delicatezza. Riprendendo il cammino, il movimento del treno era come un dondolio molle, senza stridori, senza urti, senza scatti, un andare rapido come sul velluto, con un rombo sordissimo che pareva il russare di un forte gigante addormentato, nella pienezza del suo riposo»19.
Dopo una sosta di una decina di minuti alla stazione di Ceprano, il treno riprende la sua «corsa». E mentre «l’alba s’irradiava in tutto il cielo, bianchissima, gelata, tutta la nudità della campagna romana apparve, nella sua grandezza»20. L’avvocato Sangiorgio, intanto, «stava a guardare, muto, immobile, rannicchiato nell’angolo della carrozza, tremando di freddo»21.
Prima che fosse inaugurata la linea diretta Roma-Albano, cosa che avvenne il 3 ottobre 1889, per raggiungere la cittadina dei Castelli occorreva servirsi della Roma-Napoli fino alla stazione di Cecchina dove faceva capo il raccordo per Albano, destinazione ultima di quella gita che Gabriele D’Annunzio intendeva fare in compagnia della sua amata, la venticinquenne Barbara Leoni – che, però, in realtà si chiamava Elvira Natalia Fraternali – forse per festeggiare il secondo anniversario del loro incontro avvenuto proprio due anni prima, il 2 aprile 1889, durante un concerto presso il circolo artistico di via Margutta.
Un’effusione tira l’altra mentre il «bello ed orribile mostro» attraversa la campagna romana, affronta le pendici dei Colli Albani e raggiunge Cecchina. «Ma i due colombi, anziché discendere, continuano beatamente a tubare. E il treno riprende la corsa: sorpassa Civita Lavinia, costeggia l’Artemisio, scavalca la via Latina e si arresta finalmente alla stazione di Segni-Paliano, oggi Colleferro»22.
A quel punto, avvedutisi dell’errore, i due scendono ed altro non possono fare che attendere il treno del ritorno23. Ciò che accade dopo lo si può apprendere dal romanzo di D’Annunzio Trionfo della morte (1894) i cui protagonisti, Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, altri non sono che lo stesso D’Annunzio e Barbara Leoni.
«… Ambedue si sentivano allegri – Dov’è Segni? Dov’è Paliano?
«Non si scorgevano intorno paesi. Le colline basse apparivano tutte ignude. dubbiamente verdeggianti, sotto un ciel grigio. Un solo alberello, smilzo e torto, presso al binario, si dondolava nell’umidità»24.
Poiché ha preso a piovere, i due si rifugiano in quella che forse è sala d’aspetto della stazione da dove la loro attenzione continua ad essere attratta dall’alberello che si vedeva «agitarsi con un moto quasi circolare come sotto lo sforzo di una mano che volesse sradicarlo (…). Quella immaginata sofferenza dell’albero li metteva in conspetto della lor propria pena»25.
La sosta dura un paio d’ore: al tramonto, Gabriele e Barbara sono ad Albano … Ed anche l’alberello. D’Annunzio, infatti, lo ricorderà in questa sua poesia datata Segni-Paliano 2 aprile 1889: «O tu, ne l’aria grigia e senza/ fiori, alberel di Segni Paliano/ che deridendo accenni di lontano/ alla inutile nostra impazienza,/ or quando fiorirai, livido nano,/ se non dunque fiorisci a la presenza/ di lei che chiude la divina essenza/ d’ogni fiore nel sangue sovrumano?/ Ben ti compiango. Già di tra le spesse/ argentee trecce de la nube occhieggia/ languidamente a’ colli umili il Sole./ E fende l’aria un sibilo… Oh promesse/ del desiderio! Oh come a noi fiammeggia/ ne l’anima secreta un altro sole!»26.
Cesare Pascarella (1858-1940), poeta e pittore narrativo di Roma da famiglia originaria di Fontana Liri, ci offre anche lui una testimonianza sulla ferrovia nell’avvio del suo Viaggio in Ciociaria (1920) dove, tra l’altro, testimonia l’esperienza vissuta nel tragitto in treno tra la capitale e la stazione di Ceprano.
Diversamente dal tormento che rende insonne la notte dell’avvocato Sangiorgio, Pascarella, invece, riesce a dormire profondamente almeno sino alla stazione di Valmontone dove una comitiva di uomini e donne fa irruzione nel suo scompartimento.
«Svegliatomi di soprassalto mi rincantucciai in un angolo dello scompartimento, e con gli occhi socchiusi, mi misi a guardare con curiosità i nuovi compagni di viaggio (…).
«Un uomo sui sessantanni, grasso e grosso, pareva essere il direttore della compagnia, e appena entrato nella vettura, non curandosi dei saluti dei vignaroli e dei contadini ch’eran venuti ad accompagnarlo fino agliu vapore e gli gridavano: – Forte, sor Piè’! addio sor Piè’! Stacce bene, sor Piè’!- egli si mise, seriamente, a disporre in alto su la rete le valige più buone ed a spingere sotto ai sedili i canestri ed i fagotti. Le ragazze, intanto, si litigavano i posti vicini agli sportelli, e ridendo si indicavano a dito l’una con l’altra i paesi arrampicati sulle montagne lontane, e chiamavano ripetutamente Peppino e Maddalena perché accorressero anch’essi a vedere, li ponti su li fiumi, piccoli piccoli, e le montagne che toccavenoel celo. Ma Peppino e Maddalena non si muovevano: seduti strettamente vicini si guardavano negli occhi, si sorridevano e, di tanto tanto, si scambiavano qualche parola.
«Mentre il treno correva afferrai questo brano di dialogo:Dimme un po’, Peppino, è vero che in certi punti nun se vede la fine? – E lui, pesando le parole: – Se capisce! Subito che el mare fenisceaddòve comincia el cielo!
«Quando su un colle apparvero le case di Frosinone, sor Pietro, dopo di aver paragonata la lentezza insopportabile delle diligenze con la rapidità fulminea delle ferrovie, si levò la giacca e diede el segnale della colazione, durante la quale, i discorsi e i bicchieri di vino rosso s’incrociarono con tanta abbondanza che io dopo appena cinque minuti, già sapevo vita, morte e miracoli del sor Pietro, i nomi dei componenti la comitiva, dove andavano, quanto tempo avevano deciso di fermarsi in riva al Sebeto, e, persino, che la Guida di Napoli il sor Pietro l’aveva avuta in prestito da un parente di papa Pecci.
«Verso la fine del pasto interminabile Maddalena, stuzzicandosi i denti con un ossicino di pollo, dimandava alquanto preoccupata a Peppino: – Ma come sarà che el mare è turchino?
«E Peppino con gli occhi lustri, vuotando ancora un bicchiere: – Se capisce! In tutto el mondo l’acqua turchina è tutta salata. Il mare è tutto salato; dunque lui deve essere turchino per forza.
«E s’addormentò.
«Finita la colazione sopravvenne un po’ di calma. Le donne si levarono i cappelli e il sor Pietro masticando un sigaro forte, che non tirava, e lagnandosi del caldo troppo troppicale, si tolse il panciotto.
«Alla stazione di Pofi, metà della comitiva dormiva e il sor Pietro sbuffando si toglieva solino, polsini e cravatta, mandando un accidente a chi aveva inventato tutte quelle porcherie da signori.
«Quando, a Ceprano, io lasciai il treno, egli s’era cavata anche una scarpa, accusando un forte dolore alla noce del piede, e s’era rimboccate le maniche della camicia, mostrando due braccia nere e pelose , come le code di due gatti infuriati.
«Dio mio! Che cos’altro si sarà tolto di dosso il sor Pietro, prima di arrivare a Napoli»27.
Un altro scrittore che ha la ventura di imbattersi con la ferrovia Roma-Napoli è l’inglese David Herbert Lawrence (1885-1930) della quale sicuramente si servì per recarsi a Picinisco, dove soggiornò nel novembre del 1919 insieme alla moglie Frieda von Richthofen, ma anche in qualche altra occasione, come quella di cui parla in Mare e Sardegna (dicembre 1921): «Così ci buttiamo sul cibo e divoriamo le eccellenti bistecchine e i panini e le uova sode, mele, arance e datteri, beviamo il buon vino rosso, discutiamo freneticamente i progetti e le ultime novità e siamo molto eccitati del tutto. Tanto eccitati che solo quando siamo già in mezzo ai romantici monti centro-meridionali ci accorgiamo che nello scompartimento ci sono altri viaggiatori, oltre a noi. Metà del viaggio è già passata. Ma guarda, ecco là il monastero sul suo alto colle! In un momento di follia propongo di scendere e di passare la notte a Montecassino per vedere l’altro amico nostro, il frate che sa tanto del mondo, pur vivendone fuori. Ma la a-r (l’ape regina, cioè la sua compagna Frieda von Richthofen, nda) rabbrividisce pensando al freddo terribile che deve esserci d’inverno nel massiccio monastero di pietra affatto privo di riscaldamento. Perciò l’idea è scartata e alla stazione di Cassino scendo soltanto per provvederci di caffè e dolci. Ci sono sempre cose buonissime alla stazione di Cassino: d’estate grossi gelati, frutta e acqua ghiacciata, d’inverno dolci squisiti che completano magnificamente un pasto.
«Calcolo che Cassino sia a metà strada da Napoli. Dopo Cassino, l’eccitazione di essere nel nord comincia rapidamente a svanire. Ci cala addosso la pesantezza meridionale. Anche il cielo comincia a oscurarsi: e cade la pioggia. Penso alla notte che ci aspetta, di nuovo in mare. E ho il vago timore di non trovare una cabina. Comunque, possiamo passar la notte a Napoli o anche restare su questo treno che prosegue – viaggiando per tutta la lunga, lunga notte – fino allo stretto di Messina. Dobbiamo decidere prima di arrivare a Napoli»28.
E alla stessa ferrovia Lawrence accenna nel romanzo La ragazza perduta (novembre 1920):
«Nel torpore della crescente stanchezza, Alvina osservava la Campagna romana, desolata e ai suoi occhi sordida, così distesa ai due lati della ferrovia, con le rovine degli acquedotti romani che si stendevano lungo la pianura abbandonata. Vide lontano un tranvai che stava pei attraversare le rotaie: era diretto a Frascati.
«Si avvicinarono lentamente alle colline, oltrepassarono le viti sui declivi e i canneti, e si trovarono tra i monti. Apparvero meravigliose cittadine fortificate, appollaiate su vette e picchi; i monti si alzavano improvvisi dalla pianura come nelle antiche stampe topografiche, i fiumi scorrevano tra le rocce scheggiate, tutto sembrava antico, rozzo e ancora selvaggio, sotto la sua remota civiltà, in quella regione dei Monti Albani a sud di Roma.
«Il viaggio stava per finire (…). Ciccio radunò il bagaglio e si assestò il cappello in testa, guardando dal finestrino le montagne scoscese sotto il sole pomeridiano. Su una pianura che si addentrava tra le montagne come un golfo, in una gola tra ripidi pendii, apparve una città. Il treno si fermò. Erano arrivati.
«Alvina era talmente stanca che durò fatica a scendere dalla vettura. Erano circa le quattro»29.
Non si esclude che la ferrovia Roma-Napoli abbia avuto altri riferimenti letterari al di là di quelli di cui abbiamo dato conto. Una breve ma significativa rassegna che, però, prima di chiudere, è doveroso completare con l’intervento di due autori conterranei.
Il primo è l’avvocato Giacomo De Palma30:
«Una notte d’estate di moltissimi anni fa, di ritorno da Roma, Frosinone mi apparve, dal treno, come una magnifica nave sfolgorante di luci. Quel ricordo non mi ha più abbandonato. A distanza di tanti anni non riesco a dissociare questa mia cara Città, realtà viva e palpitante, dalla nave della mia fantasia: una nave cullata dalle onde di un mare di verdi colline, degradanti verso un’ubertosa pianura, intersecata da vie risonanti di traffici; una nave, dal cui albero di maestra – il Campanile – lo sguardo domina, incontrastato, sulla sottostante vallata del Sacco e si spinge, attraverso un panorama di superba bellezza, fino ai lontani colli Albani, sentinelle di Roma»31.
L’altro è Marcello Carlino32 che, in un quasi costante pendolare fra Frosinone e Roma, dove insegna all’università, tra gli altri compagni di viaggio s’imbatte in una maestra elementare costretta anche lei a quel tran-tran.
«- ‘Insegna nella Capitale?’
«- ‘No!’ Risponde l’insegnante.
«- ‘Io viaggio nell’attesa che la segreteria di una scuola mi chiami per avvisarmi di una supplenza affidatami. La comunicazione avviene il giorno stesso del conferimento della supplenza e nel caso la scuola va raggiunta al più presto e comunque entro un limite di tempo stabilito, tutt’altro che lungo, dopo di che la segreteria procede oltre nella graduatoria. Viaggio, dunque, perché non posso permettermi un domicilio romano e debbo aggrapparmi alla speranza che mi raggiunga, sul treno in viaggio, una telefonala con cui mi si assegna una supplenza anche di un solo giorno. Viaggio perché sia pronta a raggiungere la sede, a Roma o nei dintorni, nel tempo concesso. Viaggio e durante il viaggio mi sento come quei velocisti sui posti di blocco, pronti a scattare. Mi auguro che arrivi il colpo di pistola’»33.
Peccato che Tommaso Landolfi quel suo viaggio da Roma a Pico lo abbia fatto in corriera perché, se almeno in parte lo avesse fatto in treno, anche lui sicuramente ci avrebbe deliziato con qualche irriverente chicca.


1 F. Gregorovius,Passeggiate per l’Italia, v. 2, Avanzini e Torraca editori, Roma, 1968, p. 243.
2 A. Dumas, Da Napoli a Roma, Stabilimento tipografico del Plebiscito, Napoli 1863, p. 83.
3 Si tratta della strada che, dalla Casilina, transita nella zona dell’aeroporto e in prossimità del cimitero
(cfr. C. Jadecola, Aquino, “la traversa che mena alla Consolare”, Eda, Aquino 1989).
4 F. Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, v. 3, Avanzini e Torraca editori, Roma 1968, p. 112.

5 A. Dumas, op. cit., p. 202.
6 Idem.
7 Ivi, p. 220.
8 Idem., p. 256.

9 Ivi, p. 256
10 Ivi, p. 257.
11 Nato a Trevico (Avellino) il 18 novembre 1798, è vescovo della Diocesi di Aquino, Sora e Pontecorvo dal 23 settembre 1838 fin quasi al compimento dell’Unità d’Italia. Avverso alle idee liberali, rimase sino all’ultimo fedele alla monarchia borbonica. Dopo varie peripezie si rifugia infine a Roma dove muore il 12 novembre 1862.
12 A. Dumas, op. cit., p. 259.
13 Ivi, pp. 335-336.

14 S. Iannetta,Henry W. Longfellow and Montecassino, Lamberti Federico & figli editore, Cassino
2000, pp. 65-67.
15 Ivi, p. 69. La «lunga (e quasi didascalica)» poesia di Henry W. Longfellow è stata già pubblicata per intero, in originale e in una traduzione leggermente differente, a cura di P. Ianniello, Cassino e Montecassino nelle espressioni artistiche, «Studi Cassinati», a. VIII, n. 4 ottobre-dicembre 2008, pp. 276-277.

16 M. Serao, La conquista di Roma, R. Bemporad& Figlio editori, Firenze 19224.
17 Ivi, pp. 9-10.
18 Ivi, p. 11.

19 Ivi, p. 13.
20 Ivi, p. 18.
21 Idem.
22 V. Misserville, D’Annunzio e l’alberello di Segni-Paliano, in Scopriamo la Ciociaria, Associazione fra i Ciociari, Roma 1967, p. 212.
23 Ivi, p. 213.

24 G. D’Annunzio, Trionfo della morte, I romanzi della rosa. Per l’Oleandro, Roma, 1933-XV, p. 41.
25 V. Misserville, op. cit., p. 213.
26 Idem

27 C. Pascarella, In Ciociaria, in Isonetti. Storia Nostra. Le prose, Mondadori, Milano 1971, pp. 539-541.

28 D. H. Lawrence, Libri di viaggio, I libri della Medusa. Serie ’80, volume XXIV, Mondadori, Milano 1981, pp. 231-232.

29 D. H. Lawrence, La ragazza perduta, Oscar Mondadori, Milano 1980, pp. 431-432.
30 Giacomo De Palma (Frosinone, 26 novembre 1899-24 maggio 1976) fu avvocato, sindaco di Frosinone (dicembre 1944-giugno 1945), eletto all’Assemblea Costituente e alla Camera dei Deputati sempre nelle liste della Democrazia Cristiana, il partito che lui stesso aveva contribuito a costituire nel 1944 e di cui fu segretario provinciale fino al 1946.
31 G. De Palma, Il Capoluogo, in Ciociaria, Frosinone, s.i.d., p. 65.
32 Marcello Carlino, studioso di Letteratura contemporanea e di critica letteraria, insegna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma.
33 M. Carlino, Ciociaria quella terra di viaggi che non dico, Guida, Napoli 2007, p. 133.

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