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Studi Cassinati, anno 2012, n. 4
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di Costantino Jadecola
Nell’ultimo scorcio del 2012, fra ottobre e dicembre, c’è stato l’epilogo di una storia iniziata sessantotto anni prima, al crepuscolo delle vicende belliche nel territorio della provincia di Frosinone, quando gli uomini di un reparto dell’esercito canadese trovarono, smarrito tra i disastri provocati dalla guerra, un bambino dall’apparente età di sei anni. Si chiamava Gino ma loro presero a chiamarlo Jean.
Dire che si prendono cura di lui è sicuramente riduttivo delle accortezze e delle attenzioni che gli riservano tant’è che quando, tempo dopo, se ne devono separare per motivi di servizio fanno una certa fatica. Sono però convinti di lasciarlo il buone mani: quelle di Antonio Farneti e di Lina Zaccaria, una coppia di fidanzati di Coccolia, frazione del Comune di Ravenna, i quali, quando, tempo dopo, si sposano, iniziano subito le pratiche per la sua adozione.
La storia di Gino – che volendo, si può leggere sul sito www.dalvolturnoacassino.it – grosso modo è giunta a questo punto quando di essa se ne ha notizia a Cassino. A parlarne è «Il Rapido», un settimanale che è alla sua terza settimana di vita. È, infatti, lunedì 17 dicembre 1945 quando il giornale pubblica in apertura Un bambino biondo con occhi neri, un articolo a firma del direttore Ezio Antonio Grossi.
La notizia, che Grossi afferma di aver pescato «in una di quelle rubriche nelle quali certi giornali quotidiani usano pubblicare, alla rinfusa, e forse a scopi riempitivi, tutto ciò che ha scarso interesse: ‘Zibaldone’, ‘brogliaccio’ e simili», è questa: «Un bambino biondo con occhi neri è stato raccolto alla periferia di Cassino dalle Truppe Canadesi. Egli non ha mai saputo dire con precisione il suo nome, e non ricorda con esattezza il luogo dove abitava. I canadesi, che lo chiamavano Gino Brìghegli, lo portarono con loro e lo lasciarono a Coccolia (Ravenna) il 10 maggio del 1945. Da quel giorno è stato raccolto dalla famiglia di Antonio Farneti, via Ravegnana 64, Coccolia. Ha circa sei anni d’età, è robusto, fiorente, biondo con occhi neri. La UDI di Ravenna ha diramato un comunicato per aprire ricerche sulla famiglia».
Alla luce di questa notizia, ma soprattutto che il bambino non abbia «mai saputo dire con precisione il suo nome», né il luogo dove abitava, Grossi, che è anche lui papà di un bambino, «l’unico ch’io abbia, e che presso a poco ha oggi l’età di Gino Brighegli», confessa che appena suo figlio «cominciò a parlare, io mi sforzai di fargli apprendere il suo nome di battesimo, il cognome, la paternità e la maternità, la data e il luogo ai nascita, il domicilio: ogni giorno, più volte al giorno, io gli ripetevo come una poesiola, quelle notizie e non fui tranquillo fino a quanto potetti constatare che le aveva apprese e le ripeteva alla perfezione. È che io avevo, ed ho, l’ostinato timore che il bambino, per una fatalità qualsiasi possa smarrirsi in questa babelica vita moderna o che, da un momento all’altro una disgrazia possa capitare ai suoi genitori: almeno qualche filantropo, un metropolitano, un agente, potranno riaccompagnarlo a casa o affidarlo ad un parente.
Durante gli otto mesi che io trascorsi poi in quell’inferno degli uomini vivi che fu il fronte di Cassino, assalito ancor più da quel timore – anzi era certezza di morire – continuai a pretendere dal mio bambino, ogni giorno, la declinazione delle sue generalità: se si salva lui, pensavo, un soldato, un profugo, uno scampato, potrà almeno tramandare allo stato civile quelle generalità. Ci salvammo tutti – e non so come – tranne mia madre; oggi il mio bambino conosce anche a menadito la topografìa di Roma ove si svolge la nostra vita di profughi, sicché non potrà capitargli ciò che è capitato all’altro suo coetaneo e concittadino, al bambino biondo con occhi neri, di Cassino, al quale i soldati canadesi hanno dato, e non so perché, il nome di Gino Brighegli.
Gino Brighegli, biondo, occhi neri; Cassino: se ne potrebbe fare un cartellone pubblicitario da dedicare ad una di quelle melense manifestazioni che si chiamano “giornata della solidarietà nazionale”, “giornata per i profughi”, “soccorsi ai sinistrati”: un bimbo biondo, solo e sperduto in primo piano e poi lo sfondo di tutte le rovine della città».
«Il Rapido» torna a parlare di Gino un paio di mesi dopo (anno II, numero 3, 11 febbraio 1946) pubblicando una foto del bambino, varie informazioni ed anche il recapito della famiglia di cui è “ospite”, indirizzo che sarà ancora lo stesso moltissimi anni dopo, quando, nell’accingermi a scrivere sul secondo dopoguerra in provincia di Frosinone (Mal’aria, 1999), cercai di approfondire le informazioni recuperate da «Il Rapido», imbattendomi nella cortesia di Antonio Farneti che mi fornì materiale sufficiente per mettere insieme la storia del bambino e anche per dedurre che la zona dove Gino poteva essere stato recuperato doveva essere piuttosto quella di Pontecorvo, dove in effetti erano transitate truppe canadesi.
Tuttavia, sia dalla pubblicazione su Mal’aria che da quella poi riproposta su I giorni della Hitler (2009), non emersero ulteriori riscontri se non quello di poter annoverare tra i lettori di quest’ultimo testo anche il “bambino biondo con occhi neri” la cui richiesta si materializzò, credo, attraverso una e-mail.
Si trattava di un contatto che cercavo da tempo ma che al momento fu fine a se stesso salvo poi a materializzarsi la scorsa estate quando fui contattato dalla professoressa Mariangela Rondinelli di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, che da tempo si interessava alla storia di Gino attraverso fonti canadesi.
Dalle sue ricerche era emerso che il vero cognome di Gino era Bragaglia e che i soldati canadesi lo avevano in realtà trovato in un “villaggio” presso Frosinone, “villaggio” che, a seguito di ricerche condotte da Gianni Blasi, Maurizio Federico e Paolo Sbardella, fu infine identificato in Torrice.
Cosicché dopo un primo ritorno ufficioso in patria tra il 19 e il 20 ottobre, Gino Farnetti Bragaglia, due mesi dopo, il 16 dicembre, è stato accolto con tutti gli onori nel suo paese d’origine dal dott. Ernesto Raio, commissario straordinario del comune, dal colonnello Tony Battista, addetto militare dell’ambasciata canadese in Italia, e dal dott. Eugenio Soldà, prefetto di Frosinone e, naturalmente, da un gran numero di concittadini.
Dal canto suo, Gino, per ricambiare tanta attenzione, ha avuto la possibilità di mettere a dimora un acero, la pianta simbolo del Canada, al bivio di Torrice, sulla via Casilina, nel luogo, si legge in una targa dettata da lui stesso, da dove “si contempla la mia casa e la zona in cui fui trovato, in questa terra che accolse i resti di nove militari canadesi”. In particolare, l’acero è “in ricordo di Paul Hagen, Lloyd ‘Red’ Oliver e Mert Massey (Royal Canadian Army Service Corps) che mi salvarono e si presero cura di me nel giugno 1944. La mia gratitudine va a loro ed a tutti i canadesi che contribuirono a restituirci la liberta.”
Ho regalato a Gino le copie delle pagine de «Il Rapido» nelle quali si parlava di lui: se vogliamo, tra i primi tasselli di un puzzle che per metterlo insieme ci son voluti ben sessantotto anni.
Dire che si prendono cura di lui è sicuramente riduttivo delle accortezze e delle attenzioni che gli riservano tant’è che quando, tempo dopo, se ne devono separare per motivi di servizio fanno una certa fatica. Sono però convinti di lasciarlo il buone mani: quelle di Antonio Farneti e di Lina Zaccaria, una coppia di fidanzati di Coccolia, frazione del Comune di Ravenna, i quali, quando, tempo dopo, si sposano, iniziano subito le pratiche per la sua adozione.
La storia di Gino – che volendo, si può leggere sul sito www.dalvolturnoacassino.it – grosso modo è giunta a questo punto quando di essa se ne ha notizia a Cassino. A parlarne è «Il Rapido», un settimanale che è alla sua terza settimana di vita. È, infatti, lunedì 17 dicembre 1945 quando il giornale pubblica in apertura Un bambino biondo con occhi neri, un articolo a firma del direttore Ezio Antonio Grossi.
La notizia, che Grossi afferma di aver pescato «in una di quelle rubriche nelle quali certi giornali quotidiani usano pubblicare, alla rinfusa, e forse a scopi riempitivi, tutto ciò che ha scarso interesse: ‘Zibaldone’, ‘brogliaccio’ e simili», è questa: «Un bambino biondo con occhi neri è stato raccolto alla periferia di Cassino dalle Truppe Canadesi. Egli non ha mai saputo dire con precisione il suo nome, e non ricorda con esattezza il luogo dove abitava. I canadesi, che lo chiamavano Gino Brìghegli, lo portarono con loro e lo lasciarono a Coccolia (Ravenna) il 10 maggio del 1945. Da quel giorno è stato raccolto dalla famiglia di Antonio Farneti, via Ravegnana 64, Coccolia. Ha circa sei anni d’età, è robusto, fiorente, biondo con occhi neri. La UDI di Ravenna ha diramato un comunicato per aprire ricerche sulla famiglia».
Alla luce di questa notizia, ma soprattutto che il bambino non abbia «mai saputo dire con precisione il suo nome», né il luogo dove abitava, Grossi, che è anche lui papà di un bambino, «l’unico ch’io abbia, e che presso a poco ha oggi l’età di Gino Brighegli», confessa che appena suo figlio «cominciò a parlare, io mi sforzai di fargli apprendere il suo nome di battesimo, il cognome, la paternità e la maternità, la data e il luogo ai nascita, il domicilio: ogni giorno, più volte al giorno, io gli ripetevo come una poesiola, quelle notizie e non fui tranquillo fino a quanto potetti constatare che le aveva apprese e le ripeteva alla perfezione. È che io avevo, ed ho, l’ostinato timore che il bambino, per una fatalità qualsiasi possa smarrirsi in questa babelica vita moderna o che, da un momento all’altro una disgrazia possa capitare ai suoi genitori: almeno qualche filantropo, un metropolitano, un agente, potranno riaccompagnarlo a casa o affidarlo ad un parente.
Durante gli otto mesi che io trascorsi poi in quell’inferno degli uomini vivi che fu il fronte di Cassino, assalito ancor più da quel timore – anzi era certezza di morire – continuai a pretendere dal mio bambino, ogni giorno, la declinazione delle sue generalità: se si salva lui, pensavo, un soldato, un profugo, uno scampato, potrà almeno tramandare allo stato civile quelle generalità. Ci salvammo tutti – e non so come – tranne mia madre; oggi il mio bambino conosce anche a menadito la topografìa di Roma ove si svolge la nostra vita di profughi, sicché non potrà capitargli ciò che è capitato all’altro suo coetaneo e concittadino, al bambino biondo con occhi neri, di Cassino, al quale i soldati canadesi hanno dato, e non so perché, il nome di Gino Brighegli.
Gino Brighegli, biondo, occhi neri; Cassino: se ne potrebbe fare un cartellone pubblicitario da dedicare ad una di quelle melense manifestazioni che si chiamano “giornata della solidarietà nazionale”, “giornata per i profughi”, “soccorsi ai sinistrati”: un bimbo biondo, solo e sperduto in primo piano e poi lo sfondo di tutte le rovine della città».
«Il Rapido» torna a parlare di Gino un paio di mesi dopo (anno II, numero 3, 11 febbraio 1946) pubblicando una foto del bambino, varie informazioni ed anche il recapito della famiglia di cui è “ospite”, indirizzo che sarà ancora lo stesso moltissimi anni dopo, quando, nell’accingermi a scrivere sul secondo dopoguerra in provincia di Frosinone (Mal’aria, 1999), cercai di approfondire le informazioni recuperate da «Il Rapido», imbattendomi nella cortesia di Antonio Farneti che mi fornì materiale sufficiente per mettere insieme la storia del bambino e anche per dedurre che la zona dove Gino poteva essere stato recuperato doveva essere piuttosto quella di Pontecorvo, dove in effetti erano transitate truppe canadesi.
Tuttavia, sia dalla pubblicazione su Mal’aria che da quella poi riproposta su I giorni della Hitler (2009), non emersero ulteriori riscontri se non quello di poter annoverare tra i lettori di quest’ultimo testo anche il “bambino biondo con occhi neri” la cui richiesta si materializzò, credo, attraverso una e-mail.
Si trattava di un contatto che cercavo da tempo ma che al momento fu fine a se stesso salvo poi a materializzarsi la scorsa estate quando fui contattato dalla professoressa Mariangela Rondinelli di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, che da tempo si interessava alla storia di Gino attraverso fonti canadesi.
Dalle sue ricerche era emerso che il vero cognome di Gino era Bragaglia e che i soldati canadesi lo avevano in realtà trovato in un “villaggio” presso Frosinone, “villaggio” che, a seguito di ricerche condotte da Gianni Blasi, Maurizio Federico e Paolo Sbardella, fu infine identificato in Torrice.
Cosicché dopo un primo ritorno ufficioso in patria tra il 19 e il 20 ottobre, Gino Farnetti Bragaglia, due mesi dopo, il 16 dicembre, è stato accolto con tutti gli onori nel suo paese d’origine dal dott. Ernesto Raio, commissario straordinario del comune, dal colonnello Tony Battista, addetto militare dell’ambasciata canadese in Italia, e dal dott. Eugenio Soldà, prefetto di Frosinone e, naturalmente, da un gran numero di concittadini.
Dal canto suo, Gino, per ricambiare tanta attenzione, ha avuto la possibilità di mettere a dimora un acero, la pianta simbolo del Canada, al bivio di Torrice, sulla via Casilina, nel luogo, si legge in una targa dettata da lui stesso, da dove “si contempla la mia casa e la zona in cui fui trovato, in questa terra che accolse i resti di nove militari canadesi”. In particolare, l’acero è “in ricordo di Paul Hagen, Lloyd ‘Red’ Oliver e Mert Massey (Royal Canadian Army Service Corps) che mi salvarono e si presero cura di me nel giugno 1944. La mia gratitudine va a loro ed a tutti i canadesi che contribuirono a restituirci la liberta.”
Ho regalato a Gino le copie delle pagine de «Il Rapido» nelle quali si parlava di lui: se vogliamo, tra i primi tasselli di un puzzle che per metterlo insieme ci son voluti ben sessantotto anni.
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