Studi Cassinati, anno 2012, n. 2
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di Costantino Jadecola
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Quello che è stato uno dei più grandi comici francesi del dopoguerra era infatti figlio di un nostro conterraneo la cui famiglia negli anni Venti del secolo scorso da Casalvieri era andata a cercare “fortuna” in Francia.
“La stupidità dell’incidente: un camion che esce da un cantiere ed investe la moto diversi metri più lontani e tutto quello che ne deriva. Le radio a lutto, le televisioni in lutto, i francesi che escono dal lavoro e che vengono investiti in pieno dalla notizia che Coluche è morto. Morto sul colpo su una piccola strada vicino a Grasse non lontano dalla villa dove aveva deciso di ritirarsi per sei mesi per scrivere un nuovo spettacolo. Aveva deciso di offrirci il suo ritorno nel prossimo mese di settembre, l’amico Coluche…”: questo l’amaro avvio di uno dei moltissimi articoli che si interessarono alla morte di Coluche, all’indomani di quel tragico 19 giugno 1986 in cui il famoso comico perse la vita in sella alla sua moto.
Per la Francia quella morte fu qualcosa di molto doloroso se è vero che tutti i giornali francesi, e non solo quelli popolari, riempirono le loro copertine e le loro prime pagine con il rubicondo faccione del comico insieme a pagine e pagine di articoli: oltre tutto, era morto come era morto ma era morto, soprattutto, ad appena 41 anni di età quando, indubbiamente, aveva già dato molto ma, probabilmente, molto altro ancora avrebbe potuto dare. Qui da noi, di lui, di Coluche, non è che se ne sia parlato molto.
Eppure era uno di noi, uno della nostra terra: dell’alta Terra di Lavoro. Suo padre, infatti, Onorio Colucci, perché Coluche altro non è che un normale Colucci francesizzato, era partito negli anni Venti dell’altro secolo con i suoi da Casalvieri per andare a cercare al di là delle Alpi una vita meno grama di quella che avrebbero vissuto nel paesello natio.
Si fermano a Montroughe, alla periferia sud di Parigi, dove Onorio, che faceva l’imbianchino, nel 1944 sposa una fioraia del luogo, Mathilde Rouyer. Coluche arriva quello stesso anno, il 28 ottobre. Per l’anagrafe è Michele Gerardo Colucci.
Nel 1947, a trentuno anni appena di età, muore il padre cosicché tutto il peso della famiglia cade sulle spalle di mamma Mathilde, un peso gravato da inimmaginabili ristrettezze economiche e vissuto in una squallida, modesta stanza divisa con Michele e l’altra figlia più piccola. Nonostante ciò, racconterà Coluche, sua madre “voleva che si fosse vestiti impeccabilmente. Una caratteristica dei poveri. Come quella di avere delle grandi idee”.
Le idee, lui, se le trova in strada più che a scuola con la quale ha un rapporto a dir poco “burrascoso”: a 14 anni, bocciato agli esami, non tralascia nessuno dei mestieri che gli capitano a portata di mano: lavapiatti, cameriere, telegrafista, fruttivendolo, venditore di giornali porta a porta, fioraio, fotografo, fattorino, gelataio e via di seguito.
A 15 anni, racconterà, “mi sono chiesto che cosa avrei fatto nella vita: alcuni pensavano a diventare ladri; altri commercianti. Io ragionavo al contrario. Anticipare la chiamata alle armi, sposare al più presto una ragazza e possedere un frigorifero…”.
Al ritorno dal servizio militare decide di fare l’artista: si allontana da Montroughe, affitta una camera nel quartiere Latino, si compra una chitarra e diventa cantante di strada con una preferenza per quelle della “rive gouche”.
La svolta, invece, arriva quella sera in cui decide di entrare da “Bernandette” per incassare qualche mancia. Finisce, però, col dover lavare i piatti. Ma Michele non se la prende più di tanto: “ho fatto le pulizie e poi, siccome c’era un cabaret e nessuno che voleva cominciare, sono stato io che ho iniziato lo spettacolo cantando due canzoni di Bruand”.
E fu proprio allora, raccontano i biografi, che Colucci divenne Coluche.
Nel 1968 incontra Romain Bouteil ed insieme a lui ed anche alla collaborazione della sua ragazza, Sylvette Héry, aprirà in “rue d’Odessa” un locale, “Le Café de la Gare”, destinato non solo a diventare nel giro di qualche tempo il cabaret più alla moda di tutta Parigi ma anche a rivelare, oltre a Coluche ed a Miou-Miou (Sylvette Héry), artisti come Depardieu, Dewaere, Rufus ed altri ancora.
Insomma, è andata. E Coluche entra in orbita.
Nel 1970 si separa dal gruppo. Nei dieci anni a venire polverizza tutti i record di ascolto, di vendita e di guadagno e nel 1981 dà l’addio al “music hall”: “ora”, dice, “ho finalmente il tempo di spendere il mio denaro” e acquista due battelli che navigano nei Carabi, ancora un sogno d’infanzia, e compra tre case a Guadalupe che però esploderanno in alcuni attentati.
Intanto nel 1975 sposa una giornalista, Véronique Kantor, che gli darà due figli; nel settembre del 1985, invece, con la sua moto, la sua grande passione, batte il record mondiale di velocità sul chilometro lanciato (252.087 km/h).
Ma chi era Coluche? È opinione diffusa che fosse irriguardoso verso tutti e verso tutto. In realtà non accettava i compromessi. Forse era, piuttosto, una specie di Zorro che impersonava la rivincita della gente comune nei confronti del potere. “E far ridere”, diceva, “è il modo migliore per andare il più lontano possibile”.
Arriva addirittura ad ipotizzare una propria candidatura alle presidenziali del 1981: “Se sarò eletto? Sarà una catastrofe!”
I sondaggi lo danno al 16 per cento e la politica ha i suoi buoni motivi per temere le conseguenze di un suo non improbabile successo elettorale. Né più né meno come oggi sta accadendo con Beppe Grillo con il quale, peraltro, Coluche aveva lavorato insieme nel film Scemo di guerra (1985) di Dino Risi, film ambientato durante la seconda guerra mondiale fra le truppe italiane di stanza in Africa settentrionale ed ispirato ai diari di Mario Tobino Il deserto della Libia dai quali, una ventina d’anni più tardi, Mario Monicelli avrebbe tratto il suo ultimo film, Le rose del deserto.
Giocoforza, si prendono le contromisure. Il suo passato è sottoposto ad un meticoloso scandaglio. È soggetto a pedinamenti e destinatario di telefonate anonime e minacce di morte. Il suo braccio destro, René Gorlin, viene ucciso: all’origine, un movente passionale ma sussistono molti dubbi in tal senso.
Insomma, lo scompiglio è grande tant’è che il sociologo Bourdieu arriva a definire l’ipotizzata candidatura di Coluche come “la cosa più importante accaduta in Francia dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo.”
Anche altri importanti intellettuali, tra cui lo psicanalista Félix Guattari, il sociologo Alain Touraine e il filosofo Gilles Deleuze, sostengono Coluche a favore del quale firmano una petizione su Les nouvelles littéraires. Il comico, tuttavia, mantiene le distanze e a chi gli domanda cosa pensasse di quell’appoggio risponde: “Quelli sono dei malati”. Coniando, tra altri, questo slogan: “Prima di me la Francia era divisa in due, con me si sarà piegata in quattro dal ridere”.
Ma il nome di Coluche resta soprattutto legata ad una iniziativa benefica che in Francia ha fatto epoca: i “restos du cœur”, i ristoranti del cuore. L’idea di Coluche, alla quale di sicuro non è estraneo il ricordo della infanzia vissuta a Montroughe tra mille privazioni, è quella di distribuire gratuitamente nelle più importanti città francesi dei pasti caldi ai diseredati, agli emarginati, ai bisognosi.
Per questa idea, non solo i suoi amici ma la Francia intera si mobilita ed in tutto il paese nell’inverno tra il 1985 e il 1986 nascono ben 600 ristoranti del cuore che arrivano a distribuire circa 110 mila pasti al giorno sulla base di un menù unico: un primo piatto e poi legumi, formaggio e frutta.
Di lì a qualche mese, Il 19 giugno 1986, la tragica fine per un incidente in moto, mentre percorreva la strada da Cannes a Opio: “la sua passione per la moto l’ha portato via. Stupidamente, su una strada al sole”. A 41 anni appena.
Parigi non lo dimentica e nel ventesimo anniversario della scomparsa gli intitola una piazza tra il 13.mo e il 14mo arrondissements, tra i quartieri della Maison-Blanche e del Parc Montsouris.
Per la Francia quella morte fu qualcosa di molto doloroso se è vero che tutti i giornali francesi, e non solo quelli popolari, riempirono le loro copertine e le loro prime pagine con il rubicondo faccione del comico insieme a pagine e pagine di articoli: oltre tutto, era morto come era morto ma era morto, soprattutto, ad appena 41 anni di età quando, indubbiamente, aveva già dato molto ma, probabilmente, molto altro ancora avrebbe potuto dare. Qui da noi, di lui, di Coluche, non è che se ne sia parlato molto.
Eppure era uno di noi, uno della nostra terra: dell’alta Terra di Lavoro. Suo padre, infatti, Onorio Colucci, perché Coluche altro non è che un normale Colucci francesizzato, era partito negli anni Venti dell’altro secolo con i suoi da Casalvieri per andare a cercare al di là delle Alpi una vita meno grama di quella che avrebbero vissuto nel paesello natio.
Si fermano a Montroughe, alla periferia sud di Parigi, dove Onorio, che faceva l’imbianchino, nel 1944 sposa una fioraia del luogo, Mathilde Rouyer. Coluche arriva quello stesso anno, il 28 ottobre. Per l’anagrafe è Michele Gerardo Colucci.
Nel 1947, a trentuno anni appena di età, muore il padre cosicché tutto il peso della famiglia cade sulle spalle di mamma Mathilde, un peso gravato da inimmaginabili ristrettezze economiche e vissuto in una squallida, modesta stanza divisa con Michele e l’altra figlia più piccola. Nonostante ciò, racconterà Coluche, sua madre “voleva che si fosse vestiti impeccabilmente. Una caratteristica dei poveri. Come quella di avere delle grandi idee”.
Le idee, lui, se le trova in strada più che a scuola con la quale ha un rapporto a dir poco “burrascoso”: a 14 anni, bocciato agli esami, non tralascia nessuno dei mestieri che gli capitano a portata di mano: lavapiatti, cameriere, telegrafista, fruttivendolo, venditore di giornali porta a porta, fioraio, fotografo, fattorino, gelataio e via di seguito.
A 15 anni, racconterà, “mi sono chiesto che cosa avrei fatto nella vita: alcuni pensavano a diventare ladri; altri commercianti. Io ragionavo al contrario. Anticipare la chiamata alle armi, sposare al più presto una ragazza e possedere un frigorifero…”.
Al ritorno dal servizio militare decide di fare l’artista: si allontana da Montroughe, affitta una camera nel quartiere Latino, si compra una chitarra e diventa cantante di strada con una preferenza per quelle della “rive gouche”.
La svolta, invece, arriva quella sera in cui decide di entrare da “Bernandette” per incassare qualche mancia. Finisce, però, col dover lavare i piatti. Ma Michele non se la prende più di tanto: “ho fatto le pulizie e poi, siccome c’era un cabaret e nessuno che voleva cominciare, sono stato io che ho iniziato lo spettacolo cantando due canzoni di Bruand”.
E fu proprio allora, raccontano i biografi, che Colucci divenne Coluche.
Nel 1968 incontra Romain Bouteil ed insieme a lui ed anche alla collaborazione della sua ragazza, Sylvette Héry, aprirà in “rue d’Odessa” un locale, “Le Café de la Gare”, destinato non solo a diventare nel giro di qualche tempo il cabaret più alla moda di tutta Parigi ma anche a rivelare, oltre a Coluche ed a Miou-Miou (Sylvette Héry), artisti come Depardieu, Dewaere, Rufus ed altri ancora.
Insomma, è andata. E Coluche entra in orbita.
Nel 1970 si separa dal gruppo. Nei dieci anni a venire polverizza tutti i record di ascolto, di vendita e di guadagno e nel 1981 dà l’addio al “music hall”: “ora”, dice, “ho finalmente il tempo di spendere il mio denaro” e acquista due battelli che navigano nei Carabi, ancora un sogno d’infanzia, e compra tre case a Guadalupe che però esploderanno in alcuni attentati.
Intanto nel 1975 sposa una giornalista, Véronique Kantor, che gli darà due figli; nel settembre del 1985, invece, con la sua moto, la sua grande passione, batte il record mondiale di velocità sul chilometro lanciato (252.087 km/h).
Ma chi era Coluche? È opinione diffusa che fosse irriguardoso verso tutti e verso tutto. In realtà non accettava i compromessi. Forse era, piuttosto, una specie di Zorro che impersonava la rivincita della gente comune nei confronti del potere. “E far ridere”, diceva, “è il modo migliore per andare il più lontano possibile”.
Arriva addirittura ad ipotizzare una propria candidatura alle presidenziali del 1981: “Se sarò eletto? Sarà una catastrofe!”
I sondaggi lo danno al 16 per cento e la politica ha i suoi buoni motivi per temere le conseguenze di un suo non improbabile successo elettorale. Né più né meno come oggi sta accadendo con Beppe Grillo con il quale, peraltro, Coluche aveva lavorato insieme nel film Scemo di guerra (1985) di Dino Risi, film ambientato durante la seconda guerra mondiale fra le truppe italiane di stanza in Africa settentrionale ed ispirato ai diari di Mario Tobino Il deserto della Libia dai quali, una ventina d’anni più tardi, Mario Monicelli avrebbe tratto il suo ultimo film, Le rose del deserto.
Giocoforza, si prendono le contromisure. Il suo passato è sottoposto ad un meticoloso scandaglio. È soggetto a pedinamenti e destinatario di telefonate anonime e minacce di morte. Il suo braccio destro, René Gorlin, viene ucciso: all’origine, un movente passionale ma sussistono molti dubbi in tal senso.
Insomma, lo scompiglio è grande tant’è che il sociologo Bourdieu arriva a definire l’ipotizzata candidatura di Coluche come “la cosa più importante accaduta in Francia dopo la dichiarazione dei diritti dell’uomo.”
Anche altri importanti intellettuali, tra cui lo psicanalista Félix Guattari, il sociologo Alain Touraine e il filosofo Gilles Deleuze, sostengono Coluche a favore del quale firmano una petizione su Les nouvelles littéraires. Il comico, tuttavia, mantiene le distanze e a chi gli domanda cosa pensasse di quell’appoggio risponde: “Quelli sono dei malati”. Coniando, tra altri, questo slogan: “Prima di me la Francia era divisa in due, con me si sarà piegata in quattro dal ridere”.
Ma il nome di Coluche resta soprattutto legata ad una iniziativa benefica che in Francia ha fatto epoca: i “restos du cœur”, i ristoranti del cuore. L’idea di Coluche, alla quale di sicuro non è estraneo il ricordo della infanzia vissuta a Montroughe tra mille privazioni, è quella di distribuire gratuitamente nelle più importanti città francesi dei pasti caldi ai diseredati, agli emarginati, ai bisognosi.
Per questa idea, non solo i suoi amici ma la Francia intera si mobilita ed in tutto il paese nell’inverno tra il 1985 e il 1986 nascono ben 600 ristoranti del cuore che arrivano a distribuire circa 110 mila pasti al giorno sulla base di un menù unico: un primo piatto e poi legumi, formaggio e frutta.
Di lì a qualche mese, Il 19 giugno 1986, la tragica fine per un incidente in moto, mentre percorreva la strada da Cannes a Opio: “la sua passione per la moto l’ha portato via. Stupidamente, su una strada al sole”. A 41 anni appena.
Parigi non lo dimentica e nel ventesimo anniversario della scomparsa gli intitola una piazza tra il 13.mo e il 14mo arrondissements, tra i quartieri della Maison-Blanche e del Parc Montsouris.
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