Benito Mussolini e Clara (Claretta) Petacci1 si incontrarono per la prima volta, casualmente, il 2 aprile 1932 nei pressi della pineta di Castelfusano, a Ostia, nel corso di una gita automobilistica. Poi il 27 giugno 1934 Claretta sposò l’ufficiale dell’aeronautica Riccardo Federici, dal quale però si separò legalmente nell’estate di due anni dopo (ottenendo poi il divorzio in Ungheria nel 1941). Nella seconda metà del 1934, tra la ventiduenne Claretta e il cinquantunenne Mussolini, iniziò, poco tempo prima che il duce si apprestasse a raggiungere l’apice della popolarità con la guerra d’Etiopia e la creazione dell’impero italiano, una intensa relazione che si protrasse fino alla loro morte.
Quando Mussolini fu arrestato il 25 luglio 1943, la famiglia Petacci abbandonò Roma, lasciando la villa della Camilluccia dove abitava da qualche anno, per riparare al nord. A Meina, comune in provincia di Novara, Claretta venne imprigionata con la sorella e i genitori per ordine di Badoglio. Reclusa nel carcere del capoluogo piemontese dal 10 agosto, ne uscì il 19 settembre su intervento tedesco, raggiungendo, con la famiglia, il fratello a Merano. Nel frattempo anche Mussolini, dopo l’arresto, il trasferimento prima a Ponza, poi alla Maddalena in Sardegna e quindi in un albergo di Campo Imperatore, altopiano nel cuore del massiccio del Gran Sasso, era stato liberato. Infatti il 12 settembre, paracadutisti tedeschi lo prelevarono dall’albergo in cui era tenuto prigioniero per portarlo in Germania. Rientrato in Italia, il 28 settembre costituì la Repubblica sociale italiana, o Repubblica di Salò e il 10 ottobre si insediò con la famiglia a villa Feltrinelli nel Comune di Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, mentre Claretta si trasferì in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza del duce.
Tra i due amanti iniziò un fitto rapporto epistolare. Mussolini inviò complessivamente 318 lettere2 (quasi ogni giorno, coincidenti con i 19 mesi della Rsi) a Claretta. La prima, datata 10 ottobre, fu scritta nello stesso giorno del trasferimento a Gargnano, l’ultima, del 18 aprile 1945, poco prima della partenza per Milano. Nelle sue lettere il duce, che non si firmava o quando lo faceva scriveva «Ben» o «B», intimò ripetutamente a Claretta di disfarsene. Per 88 volte Mussolini scrisse «straccia» e «stracciare» e per altre 52 volte ordinò «distruggere» e «distruggi». Tuttavia «all’imperioso “stracciare” … “straccia appena letto”» Claretta rispondeva: «non distruggere è storia»3. Dunque Claretta «non solo non segu[ì] la raccomandazione, ma f[ece] copie delle lettere ricevute, per scopi non chiari»4. Mussolini, informato dalla moglie Rachele, «che accusava Clara di essere una spia dei tedeschi», sapeva dei suoi ordini disattesi dall’amante, tuttavia perdonata5.
Claretta nelle sue lettere, fra le altre cose, si soffermava a descrivere e commentare gli avvenimenti del tempo, spendendo parole in difesa di qualche gerarca fascista o criticandone altri così come ne ebbe di particolarmente dure nei confronti dei familiari di Mussolini6. In merito alle vicende belliche in corso, nello specifico quelle in atto lungo la «Linea Gustav», Claretta biasimò fortemente l’atteggiamento assunto da papa Pio XII dopo il drammatico bombardamento del 15 febbraio 1944 che aveva portato alla distruzione della millenaria abbazia di Montecassino. Infatti scrisse: «Una cosa che mi ha dato un senso di rigurgito è stata l’ipocrisia del Papa. È vergognoso che quest’uomo al quale sta crollando il tempio di S. Pietro con tutti i conseguenti tempietti e quindi la religione tutta non trovi il coraggio di pronunciare quelle parole di sdegno e di rivolta contro i barbari nemmeno per il monastero di Cassino, che ha suscitato orrore e lagrime nel mondo tutto … e fa riferire il suo commento debole e insulso da un parente, così in forma pretesca e ipocrita che era meglio tacere …! Ha paura di perdere i dollari e l’oro. Teme che se gli angloamericani arrivassero a Roma non andrebbero più a genuflettersi dinanzi a lui, porgendo assegni e moneta! Ah povero nostro Signore … e povera religione! Oggi questo Papa è proprio una figura senza onore e senza dignità! In questo momento si doveva levare una voce di santa rivolta di esecrazione e di richiamo alla realtà sacra dell’umanità! Nulla … è forse questa la fine della religione cristiana e dei poco mistici servitori. Non capisco più nulla nemmeno in questo … Scrivi qualcosa tu». Nella sua risposta del 18 febbraio 1944 Mussolini, che quindici giorni prima si era autodefinito «il cadavere vivente», laconicamente e fugacemente commentava: «Il papa che dà la parola a un parente più o meno lontano per deplorare le rovine di Montecassino, è fuori del consueto»7.
Al contrario per il mondo cattolico Pio XII non solo si era speso molto, anche se senza successo, per scongiurare lo scoppio del conflitto mondiale8 ma allo stesso modo «nulla aveva omesso perché fosse evitata» la distruzione dell’abbazia9. Quando l’ottuagenario abate Diamare, uscito dalle macerie del cenobio cassinese, giunse a Roma fu ricevuto in udienza privata dal pontefice che lo intrattenne «con affettuosa bontà» e ascoltò «il racconto particolareggiato della distruzione dell’Abbazia». Pio XII ebbe «per il venerando Abbate espressioni di sentita partecipazione al suo dolore e di prezioso conforto, auspicando per lui e per i diletti religiosi della Congregazione Cassinese speciali aiuti divini, sì da superare con rinnovata fortezza tutte le amarezze dell’indicibile prova»10. Tuttavia reazioni ufficiali del pontefice non si registrarono11 e solo il 18 febbraio l’«Osservatore Romano», in un articolo intitolato La tragica ora di Montecassino, segnalò, senza peraltro specificarle, le «tempestive e insistenti premure» fatte dalla Santa Sede affinché il «mirabile Monastero venisse risparmiato da ogni possibilità di offesa»12. Poi a guerra ultimata nell’Enciclica Fulgens radiatur, qui riportata nel testo italiano, il pontefice stesso manifestò: «La guerra, quando nella recente conflagrazione raggiunse le spiagge della Campania e del Lazio, ha colpito in modo compassionevole, come ben sapete, Venerabili Fratelli, anche la sacra sommità di Monte Cassino; e per quanto Noi con ogni Nostro potere, pregando, esortando e supplicando, nulla avessimo tralasciato, affinché non si arrecasse una così enorme ingiuria alla nostra santa religione, alle arti e alla stessa umana civiltà, pur tuttavia essa ha distrutto ed annientato quella preclara sede di studi e di pietà, che, quasi luce, vincitrice delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli. Pertanto, mentre città, borghi e villaggi tutt’intorno furono ridotti a cumuli di rovine, parve che anche l’Archicenobio Cassinese, Casa Madre dell’Ordine Benedettino, abbia in un certo modo voluto partecipare al lutto dei suoi figli e condividerne le disgrazie. Di esso quasi null’altro rimane incolume se non il venerabile ipogeo, in cui con ogni devozione sono conservati i resti mortali del santo Patriarca»13.
Testimonianza autorevole dei tentativi, seppur infruttuosi, operati da Pio XII per salvaguardare la millenaria badia cassinese, è stata offerta da mons. Giovanni Battista Montini, stretto collaboratore negli anni di guerra di papa Pacelli, che, salito al soglio pontificio con il nome di Paolo VI e portatosi a Montecassino il 24 ottobre 1964 per consacrare la ricostruita basilica cassinese, affermò nell’omelia: «Per dovere del Nostro ufficio presso Papa Pio XII, di venerata memoria, Noi siamo bene informati testimoni di quanto la Sede Apostolica fece per risparmiare a questa fortezza non delle armi, ma dello spirito, il grave oltraggio della sua distruzione. Quella voce supplichevole e sovrana, inerme vindice della fede e della civiltà, non fu ascoltata. Montecassino fu bombardato e demolito. Uno degli episodi più tristi della guerra fu così consumato. Non vogliamo ora farci giudici di coloro che ne furono causa. Ma non possiamo ancora non deplorare che uomini civili abbiano avuto l’ardire di fare della tomba di San Benedetto bersaglio di spietata violenza»14.
Tornando ai giorni precedenti e successivi al bombardamento, va rivelato che l’abate Diamare aveva inviato a Roma, come rappresentante di Montecassino, d. Tommaso Leccisotti il quale quotidianamente «si aggirava nei corridoi del Vaticano con la speranza di sapere se si poteva fare qualcosa per salvare il suo monastero, in quanto le alte sfere vaticane erano costantemente impegnate a livello diplomatico per scongiurare azioni belliche contro l’abbazia. Nella mattina del 15 febbraio 1944, proprio mentre era in corso il bombardamento dell’abbazia, d. Tommaso chiese, vanamente, di incontrare il card. Maglione o mons. Montini che, nella sua qualità di sottosegretario vaticano, in quegli stessi momenti era impegnato «in una lunga riunione con l’abate primate dell’ordine dei benedettini, barone von Stotzigen, per discutere del possibile invio di un osservatore neutrale a Montecassino»15. Nella sera il ministro britannico presso la Santa Sede trasmise al Foreign Office a Londra, e la stessa dichiarazione fu inviata al Dipartimento di Stato a Washington, il rapporto dell’ambasciatore tedesco del giorno prima che gli era stato girato dal Vaticano, ma ormai era troppo tardi16. La notizia della distruzione si diffuse rapidamente a Roma, in Italia e in Germania. Manifesti con le foto delle macerie dell’abbazia e della dichiarazione scritta rilasciata dall’abate Diamare nella quale si attestava l’assenza di militari tedeschi, furono affissi in tutta la capitale. La propaganda tedesca utilizzò l’evento da un punto di vista mediatico per presentare il nazismo come difensore «della cultura europea contro i barbari dell’est e dell’ovest». Anche dall’altra parte del mondo grande eco ebbe la notizia della distruzione. L’«articolo di apertura di tutti i giornali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, e nella maggior parte della stampa delle nazioni neutrali» era incentrato sul bombardamento. Tutte le corrispondenze giornalistiche pubblicate in quei frangenti davano «come un dato accertato» la presenza di militari tedeschi nell’abbazia e il suo uso a scopi militari, finendo per orientare favorevolmente l’opinione pubblica dei Paesi in guerra con il nazi-fascismo sull’azione di distruzione compiuta17, fra l’altro approvata anche da alcuni esponenti del mondo cattolico statunitense e anglosassone, come l’arcivescovo di Baltimora e Washington e due abati benedettini inglesi18.
Nel frattempo, se mancavano reazioni ufficiali della Santa Sede, il segretario di Stato vaticano card. Luigi Maglione in un incontro con Harold Tittmann19 «non fu né blando, né silenzioso», giungendo a dichiarare che il bombardamento era stato «un errore colossale … un raro esempio di brutale stupidità»20. Tuttavia la questione che si stava ponendo prepotentemente e drammaticamente in quei momenti nelle alte sfere vaticane concerneva gli sviluppi futuri della guerra e cioè le azioni belliche che sarebbero state intraprese dagli Alleati nella spaventosa prospettiva che alla città di Roma potesse essere riservata la stessa sorte di Montecassino. Nei suoi appunti l’arcivescovo Domenico Tardini, segretario della Congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari, scriveva che i «comandanti alleati in Italia erano posseduti da una “mania distruttiva”» come stavano a dimostrare i bombardamenti di Castel Gandolfo e di Montecassino nonché le dichiarazioni rilasciate dal comandante delle truppe anglo-americane in Italia, il generale Alexander, secondo cui i bombardamenti avrebbero interessato tutti i luoghi ove si trovava anche un solo tedesco. Dunque pure a mons. Tardini la distruzione di Montecassino sembrava un «triste preludio» per la città eterna e, a suo giudizio, la «sola via» per impedire tale prospettiva era quella «che il Vaticano potesse accertare la responsabilità» del grave atto compiuto il 15 febbraio. La Santa Sede, in definitiva, non poté che agire in forma diplomatica per scongiurare la tragica eventualità di un’offensiva distruttiva su Roma facendo pressioni sui governi alleati21. Anche mons. Diamare volle vedere nel sacrificio di Montecassino il salvataggio della capitale. «Nei primi giorni dopo il suo arrivo al monastero di Sant’Anselmo» a Roma, l’abate disse a un confratello benedettino: «L’ha voluto il Signore ed è stata una buona cosa per la salvezza di Roma»22. Parimenti una ventina d’anni dopo, il suo successore, l’abate Ildefonso Rea, nell’ambito delle questioni determinate dal tentativo di riordino della geografia ecclesiastica italiana del 1966 con l’ipotesi di soppressione della diocesi cassinese, manifestò che, come avevano messo in rilievo «scrittori laici ed ecclesiastici e lo stesso sommo Pontefice Pio XII», il drammatico epilogo del 15 febbraio 1944 con la distruzione del cenobio cassinese aveva contribuito «alla salvezza di Roma, facendo, un’altra volta S. Benedetto quasi da scudo a S. Pietro».
Appare chiaro che la tremenda ipotesi di bombardare Roma non venne fortunatamente messa in atto essenzialmente per la decisione del comandante in capo delle forze militari germaniche in Italia, il feldmaresciallo Albert Kesselring, «di non difendere la città durante il ripiegamento tedesco» e continuare la sua tattica di guerra attestandosi, dopo lo sfondamento della «Linea Gustav», su quella «Gotica» a nord di Firenze. Se appare difficile ipotizzare che la decisione del comando tedesco possa essere stata influenzata dalla distruzione di Montecassino è innegabile che nei quattro mesi che intercorsero tra i due eventi il Vaticano abbia cercato di utilizzare la devastazione cassinese al fine di salvaguardare Roma. Non a caso dopo la liberazione di quest’ultima, avvenuta il quattro giugno, mons. Lombardi della segreteria di Stato vaticana disse allo stesso abate Diamare che «non era un segreto affermare che il Vaticano sfruttò la tragedia di Montecassino per ottenere dai belligeranti il rispetto per la città di Roma»23 e, dunque, nell’ottica vaticana il rilascio di dichiarazioni ufficiali di condanna della distruzione dell’abbazia cassinese avrebbero rischiato di compromettere l’opera diplomatica in atto improntata a scongiurare il coinvolgimento della capitale in operazioni belliche.
2 Le lettere sono state raccolte nel volume B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere a Claretta Petacci 1943-1945, a cura di Luisa Montevecchi, Mondadori Electa S.p.A., Milano 2011.
3 L. Montevecchi, Straccia appena letto. Le lettere di Benito Mussolini a Clara Petacci, in B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere … cit., p. 45.
4 E. Aga-Rossi, L’amore per Clara Petacci, in B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere … cit., p. 14. Conservò tutto, «comprese le buste in cui le lettere le [erano] pervenute, spesso le doppie buste secondo il sistema organizzato da Mussolini per farle avere le missive tramite persona fidata. E poiché le lettere di Mussolini non reca[vano] quasi mai la data, [era] lei che scrive[va] sulla busta o sulle lettere la data o, talvolta, l’ora in cui le [aveva] ricevute» (L. Montevecchi, Straccia appena letto … cit., p. 48).
5 «In lei Mussolini cercava una consolazione, conferme impossibili» e «più volte ribad[ì] nelle lettere l’intensità del suo sentimento» (E. Aga-Rossi, L’amore per Clara Petacci … cit., pp. 14-15). Il 22 marzo 1944 il duce le scrisse: «La nota dominante e in tempi normali bellissima dote del tuo amore è stato il tuo egocentrismo, il tuo egoismo spinto a limiti insuperabili. Che gli inglesi siano a Formia, a Gaeta, a Terracina, che minaccino Roma; che l’Italia sia in fiamme; che io mi dibatta tra mille difficoltà, mille carogne e canaglie, tutto ciò non ti riguarda. Te ne infischi» (B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere … cit., pp. 188-189, n. 108).
6 Contro Rachele Guidi Mussolini in primis e poi contro Galeazzo Ciano, ad esempio. Nei confronti del genero del duce assunse una netta e dura posizione chiedendo che al processo di Verona fosse condannato a morte in quanto «traditore, vile, sudicio, interessato e falso», un giudizio esteso anche alla moglie Edda Mussolini, «sua degna compare».
7 B. Mussolini, A Clara. Tutte le lettere … cit., pp. 120-121. Il 18 aprile Mussolini abbandonò la riviera gardesana e si trasferì a Milano seguito da Claretta e dai suoi. Il 23 aprile la famiglia Petacci si divise, Claretta e il fratello Marcello rimasero nella città lombarda, mentre i genitori e la sorella raggiunsero Barcellona in aereo. Quindi il 25 aprile Claretta e Marcello si aggregarono alla colonna di gerarchi fascisti, in fuga da Milano verso Como, che fu intercettata due giorni dopo a Dongo. Dopo il trasferimento a Bonzanigo di Mezzegra, il 28 aprile Mussolini e Claretta furono uccisi a Giulino, al pari di Marcello Petacci a Dongo. Il 29 aprile i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci, assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo e a Achille Starace, furono esposti a Piazzale Loreto a Milano, appesi per i piedi alla pensilina di un distributore di carburanti.
8 In un radiomessaggio del 24 agosto 1939, «rivolto ai governanti ed ai popoli … nell’imminente pericolo della guerra», Pio XII aveva affermato che «nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare». Invece a pochi giorni di distanza, il primo settembre, con l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche ebbe inizio il secondo conflitto bellico mondiale.
9 T. Leccisotti, Montecassino, Pubblicazioni Cassinesi, Montecassino 1983, p. 161.
10 «La Civiltà Cattolica», a. 95°, vol. I, Tip. So.Gra.Ro, Roma 1944, p. 328.
11 L’ultima comunicazione ufficiale del Vaticano su Montecassino risaliva all’8 gennaio quando «aveva trasmesso una parte – la più debole e la meno significativa – della dichiarazione dell’ambasciatore di Germania che smentiva che i tedeschi si stessero servendo dell’abbazia». Proteste ufficiali del Vaticano si ebbero invece in seguito al bombardamento di Castel Gandolfo, residenza estiva del pontefice, del primo febbraio che colpì anche un convento causando la morte di diciassette suore (D. Hapgood, D. Richardson, Monte Cassino, Rizzoli editore, Milano 1985, p. 163).
12 «La Civiltà Cattolica», a. 95°, vol. I, Tip. So.Gra.Ro, Roma 1944, p. 332. Il quotidiano cattolico commentava inoltre: «Se è soltanto per un domani più o meno lontano l’ufficio di ricercare, in definitivo giudizio, la cause di tanta sciagura, che, a guerra aperta, per l’incalzare degli avvenimenti bellici e per il contesto delle passioni, non sembra ora praticamente e moralmente possibile precisare, tuttavia oggi si impone il cocente rammarico – non certo il minore della vasta tragedia – per così tremenda distruzione. Essa, già tristissima nella sua realtà, attesta anche il lagrimevole decadimento dei valori più elevati; e dalle sue fumanti macerie sorge un rimprovero e un mònito alla nostra sventurata generazione, la quale, nell’odiosa violenza da cui è sconvolta, distrugge le opere più sublimi che la virtù e il genio hanno saputo suscitare in onore di Dio, con l’incessante richiamo dei redenti verso di Lui».
13 «La Civiltà Cattolica», a. 98°, vol. II, Tip. So.Gra.Ro, Roma 1947, pp. 15-16. L’enciclica fu indirizzata al mondo cattolico il 21 marzo 1947 a commemorazione del «XIV centenario del transito di S. Benedetto». Il Santo Padre, proclamando in medio Ecclesiae l’elogio del grande Patriarca dell’Occidente cristiano e asserendo «Europae pater S. Benedictus est», «invitava a rialzarne il monumento più adatto, la casa prostrata», cioè a contribuire alla ricostruzione dell’abbazia. Dunque anche dopo la fine della guerra Pio XII «non abbandonò Montecassino, la cui restituzione al primitivo decoro rimase un suo ardente voto» (T. Leccisotti, Montecassino … cit., p. 170).
14 Ivi, p. 161.
15 D. Hapgood, D. Richardson, Monte Cassino … cit., pp. 164, 214.
16 Ivi, p. 222. Sir D’Arcy Osborne aveva telegrafato alle 21,45: «Il 14 febbraio l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede ha trasmesso all’abate primate dei benedettini la seguente dichiarazione: “Le autorità militari tedesche sostengono che le notizie di lavori difensivi tedeschi all’abbazia di Montecassino sono false. È assolutamente falso che vi siano pezzi d’artiglieria, mortai o mitragliatrici. Non vi sono grossi concentramenti di truppe nella zona [nelle vicinanze di Montecassino]. È stato fatto tutto il possibile per evitare che Montecassino diventi un centro di Traffico”».
17 Lo stesso presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, dodici ore dopo l’inizio del bombardamento (le quattro del pomeriggio negli Usa, le 22 in Italia) dichiarò: «Ho letto nei giornali del pomeriggio del bombardamento dell’abbazia di Montecassino da parte delle nostre Fortezze. Nella corrispondenza era spiegato molto chiaramente che il motivo per cui è stata bombardata era che i tedeschi se ne servivano per bombardare noi. Era un caposaldo tedesco, con artiglieria e tutto il necessario, lassù nell’abbazia» (Ivi, p. 223).
18 Mons. J. Curley affermò che i tedeschi, come rivelavano le informazioni, si erano impadroniti «di quel luogo sacro per poter proseguire la loro nefanda guerra» per cui si riteneva «sicuro che tutti i cattolici di tutto il mondo comprenderanno il bombardamento da parte dei nostri ragazzi». Uno dei due abati benedettini, Bruno Fehrenbacher, dell’abbazia di Buckfast, villaggio della contea di Devon in Cornovaglia, dichiarò: «Per quanto mi dolga della distruzione della nostra casa madre a Montecassino, mi rendo conto che gli Alleati hanno fatto tutto quello che potevano per evitarla» (Ivi, p. 235).
19 Harold H. Tittman ricopriva il ruolo di consigliere dell’ambasciata americana di Roma. Per tutto il periodo bellico praticamente sostituì il rappresentante personale del presidente degli Stati Uniti presso il pontefice che, portatosi in convalescenza negli Usa nell’aprile del 1941, trovò forti difficoltà a far ritorno a Roma dopo la dichiarazione di guerra di Italia e Germania agli Stati Uniti dell’11 dicembre 1941. Dopo tale data Tittmann e la sua famiglia si rifugiarono, come altri diplomatici, all’interno della Città del Vaticano, in cui rimase fino alla liberazione di Roma del 4 giugno 1944, mantenendo i rapporti tra il governo americano e la Santa Sede.
20 D. Hapgood, D. Richardson, Monte Cassino … cit., p. 236. A giudizio di Tittmann i militari alleati dovevano «avere un motivo eccezionale» che li aveva indotti al bombardamento ma il card. Maglione replicò stizzito che non c’erano tedeschi né nel monastero né nelle immediate vicinanze come aveva potuto desumere da fonti non alla portata del diplomatico americano il quale «dovette ammettere che la sua unica fonte di informazione era la radio» poiché il Dipartimento di Stato americano non aveva provveduto a inviargli alcuna nota in merito. Quindi in un altro rapporto Tittmann smentì la notizia pubblicata sul «Giornale d’Italia» secondo cui egli «avrebbe dichiarato al cardinale Maglione che Montecassino avrebbe potuto essere ricostruito con denaro americano», affermazione alla quale il segretario di Stato vaticano «avrebbe risposto “sdegnosamente” che “anche se fosse stato ricostruito in oro e pietre preziose, non sarebbe stato più lo stesso monastero”».
21 Immediatamente furono avviate delle inchieste che poi si protrassero ben oltre la fine della guerra. Tuttavia nel corso degli anni l’iniziale certezza della presenza nemica a Montecassino, manifestata con l’espressione «prove inconfutabili», si andò sgretolando. Nel 1949 in Gran Bretagna i risultati di un’inchiesta con cui si evidenziava che i comandi alleati non erano in possesso di «prove conclusive» prima della distruzione furono tenuti segreti per trent’anni. Parimenti negli Stati Uniti le varie inchieste militari e quelle promosse dal Congresso americano portarono l’ufficio di Storia militare americana, nel 1969, a concludere che «l’abbazia non era effettivamente occupata da truppe tedesche» (Ivi, pp. 255-256).
22 Ivi, p. 237. Anche nel corso della commemorazione del primo anniversario della distruzione di Cassino, tenutasi il 15 marzo 1945, davanti alle autorità italiane e straniere portatesi a Montecassino, mons. Diamare, dopo la «benedizione e la rituale cerimonia della calce gettata dai membri del governo» a simboleggiare l’inizio della ricostruzione, disse che «anche la distruzione di Cassino [era] un bene perché Dio così [aveva] voluto. Non scrutiamo gli arcani della Provvidenza» (T. Leccisotti, Montecassino … cit., p. 162).
23 D. Hapgood, D. Richardson, Monte Cassino … cit., p. 260.
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