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Studi Cassinati, anno 2012, n. 4
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di Anna Maria Arciero
«Caru fratre et caynatu confortateve ka eo ayo acconcza l’anima mea de que ayo grande consolazione e bui ne devete essere tenuti a tucti mei parenti de qua et alli boni homini de Ceccanu. Unde fratre mio eo te prego ke ame la anima mia et secondo lu testamentu meu essequate omne cosa ke lasso ka eo fora dampnatu in anima tua et de li fili mei inn istu puntu non fate cura per que eo bao in loco he nomne poy plu ayutare. Unde mandite a Coeperanu et fate demandare Cola de Ettore lu quale ene vicariu de Ceccanu et fece lu testamentu meu et mandateli floreni x et ipsu ve mandara lu testamentu et tu penza de exequirelu incontinente et esta bene con Deu. Scriptum die sabbati XVII novembris hora prima que pulsabatur ad dacollacionem meam. Omnino fate zo che dice lu meu testamento. I. di Pignatario».
Sembra scritta da uno sgrammaticato ciociaro di qualche tempo fa questa lettera di commiato. Quasi ci par di sentire Nino Manfredi nei panni del Ceccanese che gli diede notorietà. Quelle finali in u, quel frate e caynatu hanno un non so che di familiare … è la musicalità del dialetto delle zone viciniore al Cassinate, che fa subito simpatia, che sa di infanzia e di nonni. Eppure è del 1352, epoca in cui stavano nascendo i dialetti, che Dante aveva già scelti come «il volgare», privilegiandolo per la sua Commedia. Anche quel «Caeperanu» ci rimanda Dante: «il cui ossame ancor s’accoglie a Ceperan …» (Inferno, canto XXVIII).
Si tratta della lettera testamento che Iacopo da Pignataro scrisse, come precisato nella penultima frase finale in latino, un’ora prima della sua decapitazione, il 17 novembre del 1352, a Ceccano.
La storia di Iacopo da Pignataro è ben nota, ma forse val la pena di ripassarla per rinfrescarne la memoria e allargare le conoscenze.
In quel secolo XIV, allorché gli Ungari, capitanati da Ludovico d’Ungheria, vennero a vendicare la morte di Andrea, marito della regina di Napoli, Giovanna I d’Angiò, e a tentare la conquista del Regno napoletano, un capitano di ventura, un certo Jacopo da Pignataro, approfittando dello sconvolgimento in cui era la Terra di S.Benedetto, si rese ribelle: assoldò molta gente e scorazzò per la zona, vessando e spoliando le popolazioni locali e il monastero stesso. Infatti non ebbe timore a saccheggiare chiese e imprigionare monaci. Il papa Clemente VI, che risiedeva ad Avignone, emise un atto di condanna nei confronti di Iacopo, intimandogli di recarsi presso di lui, in Francia, ma egli continuò a fare scorrerie e seminare terrore nella zona finché, il 15 novembre1352, gli ufficiali pontifici non lo catturarono a Ceccano. Condannato a morte, si pentì, fece testamento, restituì il maltolto e accompagnò il testamento con questa lettera. Lettera e testamento compaiono nelle Accessiones ad historiam Abbatiae Casinensis – Venetiis 1734 – di Erasmo Gattola. La lettera è stata poi inserita nel 1938, da Iguanez, nei Documenti volgari meridionali del secolo XIV a Montecassino.
Il testamento di Iacopo da Pignataro è scritto in latino dal notaio Nicola Ettore di Ceccano. Come documento dell’epoca, presenta alcuni passi curiosi e interessanti: prima una serie di «relinquo» (lascio) e poi una serie di «volo et mando» (voglio e raccomando).
«Relinquo
– come restituzione e donazione, Rocca d’Evandro alla Chiesa Cassinese;
– tutti i beni che mi lasciò mia moglie Bella alla chiesa di Rocca d’Evandro;
– una canapina mia (un campo coltivato a canapa?) alla chiesa S. Salvatore di Pignataro;
– un mio cavallo sfresato (selvaggio?) a Francesco di Monte Agata;
– un cavallo Liardo (leardo, col mantello grigio) sfresato all’abate di Fossanova;
– un grande cavallo Liardo, che fu di Antonio de Parma, una coperta di seta verde, che fu di mia moglie e ogni cosa mia con le mie sopravvesti ai fratelli Laurenti di Priverno;
– trenta fiorini, da spartire tra loro, ai miei custodi che custodirono la mia persona, con buon servizio, in cattività.
«Volo et mando
– che mio fratello Cristoforo doni alla chiesa di Rocca d’Evandro la terra in cui facevo il vino;
– che sia restituita a Jacopo da Ceccano il suo mulino che gli portai via con la mia banda;
– che gli uomini di Priverno prigionieri siano liberati senza alcuna riscossione di pecunia o lesione di persona e tornino liberi a Priverno;
– che Antonio de Palma e Corrado Comestabulo restituiscano o paghino i castelli e gli altri diritti alla chiesa cassinese che tengono a nome nostro e possiedono indebitamente e lo restituiscano così che Dio e il Beato S.Benedetto misereatur mei nel giorno della mia morte».
Considerata, anche in base al testamento, la zona d’azione di Jacopo, da Priverno a Rocca d’Evandro, si può ben immaginare di quale entità sia stata la rovina che egli apportò nella zona al nostro monastero benedettino e a tutta la Terra di S. Benedetto. Il Tosti, nel III volume della sua Storia della Badia di Montecassino, lo definisce «procelloso» allorché parla del periodo intorno alla metà del secolo XIV, quando, tra il terremoto del 1349 e la venuta degli Ungheri, si inserirono appunto le gesta del nostro. Di nuovo il Tosti lo nomina, definendolo «terribile e ribelle vassallo», a proposito delle pessime condizioni in cui versava la libreria cassinese tra il 1348 e il 1351, lasso di tempo in cui avvenne la visita del Boccaccio a Montecassino. Il Tosti narra che messer Boccaccio raccontò ad un certo Benvenuto da Imola, commentatore della Divina Commedia che, venuto a Montecassino, aveva trovato la libreria «senza porta né chiave, un erbaio su per le finestre, e panche e libri seppelliti nella polvere, e tutto maraviglia, recatosi in mano or questo or quel libro, trovonne alcuni scemi di quaderni strappati e del margine delle pagine, ed in mille maniere guasti […]. Andatogli a cuore che le fatiche e gli studi di chiarissimi ingegni fossero caduti in mano di scellerati uomini, deplorando e piangendo se ne andò …» (e noi sappiamo che messer Boccaccio se ne andò sottraendo un manoscritto in scrittura beneventana: il codice contenente alcuni libri di Tacito e di Apuleio, che alla sua morte passarono alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Qualcuno sostiene che li prese in prestito, per copiarli, ma poi abbia “dimenticato” di restituirli).
Così argomenta il Tosti: «I monaci rubati, cacciati, imprigionati dagli Ungari e dal terribile Jacopo da Pignataro, devastati dal terremoto, si aggiravano tra quei rottami, non come uomini che pensino a libri e scienze, ma come infelici che lamentavano la patita sciagura [… ]. Fino al tempo del pontificato di papa Urbano V, i monaci vissero sotto le capanne per difetto di tetto che li coprisse. Oltre al terremoto, avevano sofferto certe visite devote degli Ungheri di Ludovico e del procelloso Jacopo da Pignataro, i quali non avevano dato di piglio solo ai calici e alle croci d’argento, ma anche ai libri, come scrive nelle sue lettere lo stesso Urbano V. Adunque, guardando come fossero tempestati quei poveri monaci, non dubito dell’erba alle finestre e del guasto dei libri …». Quello che fa irritare il Tosti, circa il racconto del novelliere fiorentino, è che egli abbia omesso di citare gli argomenti storici per «mordere e beffarsi dei monaci». C’è da dire che in quel tempo era di moda una «mala interpretazione» dei versi di Dante, che nel canto XXII del Paradiso, mette in bocca a S. Benedetto queste parole: «Quel monte a cui Cassino è nella costa fu frequentata già in sulla cima da gente ingannata e mal disposta […] la regola mia rimasa è giù per danno delle carte. Le mura che solean esser badia fatte son spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria …».
Questa brutta «dipintura dei monaci» fa indignare il Tosti, che confuta l’amarissima diceria con argomentazioni ineccepibili che qui non è il caso di riferire. Ma rimane l’amaro della mancanza di chiarezza, di sincerità, di obiettività di messer Boccaccio a cui, vien proprio da pensare, ha fatto pure comodo la situazione di degrado per trafugare quei volumi antichi. O li trafugò per salvarli dall’incuria dei monaci cassinesi?
Nel 1624, il dotto Simone Millet, commentando una traduzione francese dei Dialoghi di San Gregorio Magno, scrive una dettagliata descrizione dell’abbazia di Montecassino, da lui visitata qualche tempo prima, e racconta che la biblioteca, meravigliosamente ricca per i libri e i manoscritti che contiene, «è sempre aperta, affinché ognuno possa andarvi a studiare quando vuole, ma i libri sono tutti incatenati e, come se ciò non bastasse, per maggiore precauzione e per meglio conservare un così raro tesoro, i Padri di questa casa hanno ottenuto una bolla del Papa, la quale proibisce a chicchessia d’asportarne qualunque libro».
Memori forse del furto di Boccaccio?
Sembra scritta da uno sgrammaticato ciociaro di qualche tempo fa questa lettera di commiato. Quasi ci par di sentire Nino Manfredi nei panni del Ceccanese che gli diede notorietà. Quelle finali in u, quel frate e caynatu hanno un non so che di familiare … è la musicalità del dialetto delle zone viciniore al Cassinate, che fa subito simpatia, che sa di infanzia e di nonni. Eppure è del 1352, epoca in cui stavano nascendo i dialetti, che Dante aveva già scelti come «il volgare», privilegiandolo per la sua Commedia. Anche quel «Caeperanu» ci rimanda Dante: «il cui ossame ancor s’accoglie a Ceperan …» (Inferno, canto XXVIII).
Si tratta della lettera testamento che Iacopo da Pignataro scrisse, come precisato nella penultima frase finale in latino, un’ora prima della sua decapitazione, il 17 novembre del 1352, a Ceccano.
La storia di Iacopo da Pignataro è ben nota, ma forse val la pena di ripassarla per rinfrescarne la memoria e allargare le conoscenze.
In quel secolo XIV, allorché gli Ungari, capitanati da Ludovico d’Ungheria, vennero a vendicare la morte di Andrea, marito della regina di Napoli, Giovanna I d’Angiò, e a tentare la conquista del Regno napoletano, un capitano di ventura, un certo Jacopo da Pignataro, approfittando dello sconvolgimento in cui era la Terra di S.Benedetto, si rese ribelle: assoldò molta gente e scorazzò per la zona, vessando e spoliando le popolazioni locali e il monastero stesso. Infatti non ebbe timore a saccheggiare chiese e imprigionare monaci. Il papa Clemente VI, che risiedeva ad Avignone, emise un atto di condanna nei confronti di Iacopo, intimandogli di recarsi presso di lui, in Francia, ma egli continuò a fare scorrerie e seminare terrore nella zona finché, il 15 novembre1352, gli ufficiali pontifici non lo catturarono a Ceccano. Condannato a morte, si pentì, fece testamento, restituì il maltolto e accompagnò il testamento con questa lettera. Lettera e testamento compaiono nelle Accessiones ad historiam Abbatiae Casinensis – Venetiis 1734 – di Erasmo Gattola. La lettera è stata poi inserita nel 1938, da Iguanez, nei Documenti volgari meridionali del secolo XIV a Montecassino.
Il testamento di Iacopo da Pignataro è scritto in latino dal notaio Nicola Ettore di Ceccano. Come documento dell’epoca, presenta alcuni passi curiosi e interessanti: prima una serie di «relinquo» (lascio) e poi una serie di «volo et mando» (voglio e raccomando).
«Relinquo
– come restituzione e donazione, Rocca d’Evandro alla Chiesa Cassinese;
– tutti i beni che mi lasciò mia moglie Bella alla chiesa di Rocca d’Evandro;
– una canapina mia (un campo coltivato a canapa?) alla chiesa S. Salvatore di Pignataro;
– un mio cavallo sfresato (selvaggio?) a Francesco di Monte Agata;
– un cavallo Liardo (leardo, col mantello grigio) sfresato all’abate di Fossanova;
– un grande cavallo Liardo, che fu di Antonio de Parma, una coperta di seta verde, che fu di mia moglie e ogni cosa mia con le mie sopravvesti ai fratelli Laurenti di Priverno;
– trenta fiorini, da spartire tra loro, ai miei custodi che custodirono la mia persona, con buon servizio, in cattività.
«Volo et mando
– che mio fratello Cristoforo doni alla chiesa di Rocca d’Evandro la terra in cui facevo il vino;
– che sia restituita a Jacopo da Ceccano il suo mulino che gli portai via con la mia banda;
– che gli uomini di Priverno prigionieri siano liberati senza alcuna riscossione di pecunia o lesione di persona e tornino liberi a Priverno;
– che Antonio de Palma e Corrado Comestabulo restituiscano o paghino i castelli e gli altri diritti alla chiesa cassinese che tengono a nome nostro e possiedono indebitamente e lo restituiscano così che Dio e il Beato S.Benedetto misereatur mei nel giorno della mia morte».
Considerata, anche in base al testamento, la zona d’azione di Jacopo, da Priverno a Rocca d’Evandro, si può ben immaginare di quale entità sia stata la rovina che egli apportò nella zona al nostro monastero benedettino e a tutta la Terra di S. Benedetto. Il Tosti, nel III volume della sua Storia della Badia di Montecassino, lo definisce «procelloso» allorché parla del periodo intorno alla metà del secolo XIV, quando, tra il terremoto del 1349 e la venuta degli Ungheri, si inserirono appunto le gesta del nostro. Di nuovo il Tosti lo nomina, definendolo «terribile e ribelle vassallo», a proposito delle pessime condizioni in cui versava la libreria cassinese tra il 1348 e il 1351, lasso di tempo in cui avvenne la visita del Boccaccio a Montecassino. Il Tosti narra che messer Boccaccio raccontò ad un certo Benvenuto da Imola, commentatore della Divina Commedia che, venuto a Montecassino, aveva trovato la libreria «senza porta né chiave, un erbaio su per le finestre, e panche e libri seppelliti nella polvere, e tutto maraviglia, recatosi in mano or questo or quel libro, trovonne alcuni scemi di quaderni strappati e del margine delle pagine, ed in mille maniere guasti […]. Andatogli a cuore che le fatiche e gli studi di chiarissimi ingegni fossero caduti in mano di scellerati uomini, deplorando e piangendo se ne andò …» (e noi sappiamo che messer Boccaccio se ne andò sottraendo un manoscritto in scrittura beneventana: il codice contenente alcuni libri di Tacito e di Apuleio, che alla sua morte passarono alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Qualcuno sostiene che li prese in prestito, per copiarli, ma poi abbia “dimenticato” di restituirli).
Così argomenta il Tosti: «I monaci rubati, cacciati, imprigionati dagli Ungari e dal terribile Jacopo da Pignataro, devastati dal terremoto, si aggiravano tra quei rottami, non come uomini che pensino a libri e scienze, ma come infelici che lamentavano la patita sciagura [… ]. Fino al tempo del pontificato di papa Urbano V, i monaci vissero sotto le capanne per difetto di tetto che li coprisse. Oltre al terremoto, avevano sofferto certe visite devote degli Ungheri di Ludovico e del procelloso Jacopo da Pignataro, i quali non avevano dato di piglio solo ai calici e alle croci d’argento, ma anche ai libri, come scrive nelle sue lettere lo stesso Urbano V. Adunque, guardando come fossero tempestati quei poveri monaci, non dubito dell’erba alle finestre e del guasto dei libri …». Quello che fa irritare il Tosti, circa il racconto del novelliere fiorentino, è che egli abbia omesso di citare gli argomenti storici per «mordere e beffarsi dei monaci». C’è da dire che in quel tempo era di moda una «mala interpretazione» dei versi di Dante, che nel canto XXII del Paradiso, mette in bocca a S. Benedetto queste parole: «Quel monte a cui Cassino è nella costa fu frequentata già in sulla cima da gente ingannata e mal disposta […] la regola mia rimasa è giù per danno delle carte. Le mura che solean esser badia fatte son spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria …».
Questa brutta «dipintura dei monaci» fa indignare il Tosti, che confuta l’amarissima diceria con argomentazioni ineccepibili che qui non è il caso di riferire. Ma rimane l’amaro della mancanza di chiarezza, di sincerità, di obiettività di messer Boccaccio a cui, vien proprio da pensare, ha fatto pure comodo la situazione di degrado per trafugare quei volumi antichi. O li trafugò per salvarli dall’incuria dei monaci cassinesi?
Nel 1624, il dotto Simone Millet, commentando una traduzione francese dei Dialoghi di San Gregorio Magno, scrive una dettagliata descrizione dell’abbazia di Montecassino, da lui visitata qualche tempo prima, e racconta che la biblioteca, meravigliosamente ricca per i libri e i manoscritti che contiene, «è sempre aperta, affinché ognuno possa andarvi a studiare quando vuole, ma i libri sono tutti incatenati e, come se ciò non bastasse, per maggiore precauzione e per meglio conservare un così raro tesoro, i Padri di questa casa hanno ottenuto una bolla del Papa, la quale proibisce a chicchessia d’asportarne qualunque libro».
Memori forse del furto di Boccaccio?
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