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La prima del 12 settembre 1943
La giornata era soleggiata e fin dalle prime ore dell’alba regnava l’atmosfera della festa settimanale: le persone erano spensierate anche perché, finita la guerra1, sarebbero tornati tanti giovani santeliani! Intorno alla Vasca c’era il solito mercato delle verdure e Fuorilaporta cominciava a popolarsi.
A giorno fatto improvvisamente arrivarono tre camion tedeschi verde scuro: l’ultimo sostò sotto il Circolo di Riunione, il secondo sotto il Globo e il primo più avanti, all’altezza delle Due Colonne. I soldati, scoperte le mitragliatrici poste sulle cabine, mostrarono subito le loro intenzioni, incutendo terrore tra le persone che si trovavano in piazza. Don Gennaro Iucci, che aveva appena finito di celebrare la Messa mattutina in S. Maria la Nova, fu avvertito immediatamente. Questi si rese conto del pericolo per cui fece uscire dalla Chiesa le donne mentre trattenne tutti gli uomini: alcuni li nascose sulla volta della navata centrale, sotto il tetto, altri li mandò sul campanile. Quando vide che non c’era più nessuno, socchiuse le porte e in sacri paramenti si fermò ad aspettare sull’altare.
In piazza le contadine volevano andarsene, ma i soldati di sentinella impedivano ogni movimento. Rastrellarono solo i pochi Santeliani che arrivavano sereni dalle varie strade e non erano stati fermati in tempo.
Anche mio padre fu preso, ma le mie lacrime, quelle delle sorelle e di mia madre sotto l’altarino di S. Giuseppe nella falegnameria, sortirono l’effetto insperato: il soldato rimise il fucile in spalla e se ne andò. A me restò l’accusa infamante di fascista e di filonazista che mi gridarono in tanti.
I Tedeschi allineavano gli uomini catturati ai lati dei camion, mentre due di loro li controllavano sotto la minaccia di lunghi fucili. Quando furono in numero sufficiente li fecero salire sugli automezzi, mentre i figli e le mogli gridavano e piangevano. Fu una scena di tragedia!
Riconobbi nella confusione creatasi l’amico Peppe Iucci, appena svegliatosi e affacciatosi alla terrazza di casa, con il padre Benedetto che continuavano a fumare imperturbabili, e Giuseppe Pacitto che si affannava a tranquillizzare la moglie Dea:
-Al ritorno sarò affamato! fammi trovare un bel piatto di pasta e fagioli!
A sera i camion rientrarono e i Santeliani scesero dai cassoni all’apparenza contenti, ma stanchi e tristi dentro, mentre moltissimi ragazzi giravano loro intorno per far festa. Vennero allineati sotto il Circolo di Riunione e un camerata distribuì una scatoletta di carne ed un pacchetto di Serraglio a ciascuno di loro.
La mattina dopo i soldati tedeschi tornarono e il loro comandante prelevò da una borsa della sua camionetta, ferma all’ingresso dell’Ufficio Postale, un fascio di biglietti di banca e li portò ad un altro militare che si trovava dalla parte opposta, all’ingresso di piazza Antonio Riga, soffermandosi a dividerli e a contarli, forse con il solo scopo di farli vedere, perché si comprendesse la loro intenzione di corrispondere la giusta mercede per il lavoro prestato; ma nessuno quella sera la ricevette.
Poi gli automezzi scomparvero lungo la strada di Cassino, da dove erano venuti. L’ultimo rallentò al ponte del Rio Macchio e impettiti soldati fecero brillare un ordigno alle scalette: lo scoppio non arrecò danni di sorta, ma generò tanto panico nella popolazione.
E così i soldati ci salutarono!
La domenica del 12 settembre segnò l’inizio della dolorosa fuga sui monti da parte di moltissime famiglie!
La seconda retata del 7 ottobre
La seconda retata ci fu un mese dopo e arrecò un indescrivibile terrore in ogni Santeliano. Era il pomeriggio del 7 ottobre: il cielo era coperto e scuro, per noi abituale da alcune settimane; cadeva anche qualche gocciolina e temevamo di sentirci addosso da un momento all’altro una vera e propria pioggia, la prima dell’autunno incipiente. Il tempo sicché contribuiva ad accrescere la tristezza nei pochi rimasti in paese, da quando la domenica del 12 i tre camion rastrellarono i civili. Molte famiglie erano andate via in montagna e la sera le strade erano deserte: non si incontrava nessuno. Il paese era spopolato, sembrava morto!
Improvvisamente arrivarono Fuorilaporta tre camion delle SS. I soldati erano diversi dagli altri: avevano dei contrassegni strani sul bavero, pendeva sul petto un ricurvo pendaglio metallico e calzavano corti stivali. Il loro comportamento si manifestò subito: alcuni di essi, che erano sistemati sui parafanghi e gli altri all’interno dei cassoni, balzati a terra, cominciarono a far fuoco; altri correvano, sempre sparando in alto, verso l’imbocco delle strade che si dipartono dalla Vasca, per bloccare la fuga o per inseguire chi scappava. Fu un combattimento strano, in quanto gli armati erano solo da una parte! fu una sparatoria spaventosa!
Restai immobile, pietrificato per lo spavento dietro i vetri del balcone! Per fortuna zia Anita mi tirò dalle spalle!
Poterono rastrellare pochi uomini: Antonio Arciero, figlio di Arturo, che chiamavano Buschitto, Alfredo Cocorocchio, Carminuccio Gargano2, Benedetto Genovese, Alfredo La Marra, Giuseppe La Marra di Michelangelo di Rienzo, Giuseppe Quagliere, Marco Violo e qualche altro, in quanto moltissimi, all’apparire dei mostri al ponte del Riomacchio, erano già scappati3.
Benedetto Genovese, Alfredo Cocorocchio, Franceschino Fiorillo e Tonino Tatangelo avevano giocato una partitella a tressette al Bar della Chiesa di Santa Maria la Nova; bevvero tre quarti di vino e poi uscirono in piazza per incontrare altri amici e trascorrere tranquillamente la serata chiacchierando. Erano sereni; solo di tanto in tanto il pensiero volava ai Santeliani fuggiti sulle montagne per non farsi prendere. Avevano ragione! Come si vociferava in giro, gli uomini validi e capaci li portavano in Germania!
Mentre erano assorti in questi pensieri, videro comparire i tre mostri dal Riomacchio e si diedero subito alla fuga:
Tonino come un fulmine arrivò sulla Villa Comunale, accingendosi a saltare dal muretto per attraversare via Nuova Cartiera e sparire lontano. Aveva anche il lasciapassare, perché impegnato nella centrale idroelettrica della cartiera; ma il terrore fu immenso e si mise a correre! Benedetto lo seguì, ma girò in direzione opposta, verso la Fontana. Sentì una sventagliata di mitra e si fermò di botto. Un soldato gli sbarrò la strada e lui alzò le mani. Improvvisamente sentì cinque o sei calci alle gambe:
– Gli ordini del Fürer non si discutono! Poi lo spinse con la sua arma sul camion.
Giuseppe La Marra, militarizzato presso le Ferrovie dello Stato a Roma, era tornato per rivedere il padre Michelangelo; dopo una settimana lo andarono a cercare i Tedeschi per riportarlo in servizio; ma la sorella astutamente disse che si era arruolato nell’esercito fascista in Alta Italia. E Giuseppe intanto si andò a nascondere in una casupola della località chiamata Posto. Quel giovedì, stava uscendo di casa per fare un giro in piazza, seguito a breve distanza dal fratello Elia, quando si trovò in mezzo a quel fuoco infernale e fu preso. Elia invece ebbe tempo e l’accortezza di buttarsi nel fosso che passava tra casa sua e la strada e a farla franca.
Marco scendeva dalla casa situata su quella del sarto Antonio Cerrone, di fronte al Cinema Rapido: era stato invitato a trattenersi da un giovane soldato italiano pugliese, arruolato nell’esercito tedesco per prestare servizio come autista ad un ufficiale. Questi guardava affascinato la sua bella cugina, la morettina Maria, e faceva di tutto per avvicinarla; perciò quel pomeriggio lo aveva chiamato scorgendolo dalla finestra in piazza Riga. Marco si trovò improvvisamente, lui diciassettenne e disarmato, fra soldati che sparavano all’impazzata. Uno della sua stessa età gli puntò al petto il suo Mauser 98 e non volle sentire ragioni che era ragazzo.
-Vai pure tu a lavorare per la grande Germania!
E fu costretto a saltare con un balzo sull’ultimo camion. Alfredo Cocorocchio si era messo in salvo correndo, lungo via delle Torri, zigzagando per non farsi colpire, come gli avevano insegnato al campo di addestramento; era riuscito a sfuggire alle sventagliate e ad entrare in un locale di Marietta Caspoli, ma aveva trovato chiuso il portone che dava in largo S. Pietro, perciò fu costretto a tornare indietro con le mani alzate. Venne catturato e fatto salire insieme con gli altri sul camion.
Giuseppe Quagliere, ’Ngeppino, il sagrestano di S. Sebastiano, fu mandato via con un calcio nel sedere perché era vecchio e panciuto.
Questi Santeliani, ed altri, fortunatamente si ritrovarono insieme sul camion di centro.
Benedetto, uomo avveduto e scherzoso, dava coraggio agli amici e consigliava loro di stare calmi, di tenersi sempre vicini e di essere attenti alle sentinelle, a guardare in ogni punto e trovare qualche anfratto per dove poter eventualmente fuggire; di non provare subito, però.
-Non temete! Tornano a casa i gatti, non ci torneremo noi? State tranquilli!
Quel pomeriggio stesso li portarono a Sant’Angelo in Theodice, sulla riva sinistra del Gari. Lavorarono per alcune ore, senza nessuna sosta, con la scure a tagliare gli alberi e col piccone e la pala a spianare il terreno dove i Tedeschi prevedevano l’arrivo degli anglo-americani. Per questo motivo avevano accortamente demolito le case allineate sulla riva opposta, creandovi delle fortificazioni, per tenere facilmente sotto il tiro le truppe nemiche se avessero tentato l’attraversamento del fiume.
Quando fu buio, li riportarono alla Chiesa di S. Antonio a Cassino. Qui, più che dormire, specie Benedetto, Peppino e Alfredo, erano in ansia di trovare una eventuale uscita nascosta; si stavano accingendo anche ad entrare in sagrestia. Ma si accorsero che solo il loro guardare destava sospetti nel soldato di guardia con il Mauser 98 spianato ed allora Benedetto disse agli amici:
-State calmi: oggi, questa sera stessa, non possiamo! Ma vi assicuro che torneremo a casa nostra!
Intanto a Sant’Elia era stato freddato come un cane Tonino: lo avevano colpito al petto ed era caduto con la testa sulla terra ricoperta del suo sangue che usciva a fiotti dalla ferita. Passata la tempesta, accorsero delle anime pie ed in silenzio, senza piangere, trattenendo le lacrime, lo avvolsero in una coperta, delicatamente lo deposero, quasi per non fargli male, sul pianale di una carretta di Guerino e lo portarono a casa in via Marconi. Lo vidi mentre la moglie, riversa sul suo capo, gli stringeva i capelli in un gesto sconsolato, priva di forze, sorretta dalle amiche. Mario, di appena tre anni, tutto suo padre, veniva di continuo accarezzato dalle donne che affollavano la stanza.
Antonietta, ad ogni persona che entrava in punta di piedi, indicava la ferita come volesse spiegare la causa della morte: scostava la cravatta, alzava il lembo della camicia e metteva a nudo un foro grande, livido, nero.
Il giorno seguente portarono di nuovo i Santeliani lungo il Gari, sempre di fronte a S. Angelo, ad estirpare i cespugli, a liberare la campagna dalla vegetazione, di modo che essa potesse facilmente essere controllata dalle postazioni di fronte. Qui non potevano muoversi, perché dei soldati armati, uno per ogni gruppo di dieci civili, non permettevano di alzare nemmeno la testa. A Giuseppe faceva pena Buschitto, perché era piccolino e con le mani da barbiere, non abituato a lavorare col piccone più pesante di lui; a volte gli si avvicinava e lo aiutava. Ma, pensava tra sé:
-Quel senzacristo col fucile e baionetta inastata lo ammazzerà di sicuro! qualche giorno mi dovrò chinare a chiudere gli occhi a questo bravo ragazzo!
Carminuccio lavorava dignitosamente; ogni tanto però si fermava e batteva il piccone a terra con violenza, chiamando per nome i nove figli, più Marcello che la moglie teneva a balia. Alcuni erano piccoli e stavano in montagna e lui doveva portare loro da mangiare!
I Santeliani erano sfiniti; molti si lamentavano per i dolori alle mani in quanto alle dita e al palmo si erano formate delle vesciche.
La sera li portarono a dormire in un altro posto, al carcere di San Domenico: anche qui, al cancello, c’erano due sentinelle a gambe divaricate.
Dopo il rancio, si misero a girare all’interno del recinto, chiacchierando come andando a spasso, intanto stavano all’erta a controllare il muro. Ed ecco, scorsero verso il basso, dalla parte della collina, una piccola apertura per la quale forse potevano infilarsi.
Si fermarono a chiacchierare sotto l’ala nord del carcere, offrendosi, seduti in cerchio, volutamente allo sguardo del soldato di sentinella. Alfredo, il più coraggioso, si alzò andò addirittura da lui ad accendere una profumatissima tre stelle, tratta dal pacchetto avuto in regalo poco prima.
Aspettarono la notte sperando nella buona sorte. Quando fu buio pesto tentarono. Benedetto invitò anche Giuseppe, Antonio e Marco a fuggire, ma questi si trovavano piuttosto vicino alla sentinella e non ebbero coraggio di rischiare.
Benedetto e Alfredo ci riuscirono! Di là dal muro, però, si dovettero tuffare nell’acqua: era l’amico Rapido, lo riconobbero dalla corrente vorticosa e fredda, che intorpidiva le gambe e il corpo! Preferirono camminare lungo il fiume con la testa fuori, così non potevano essere visti dalle sentinelle. Fatti cinquecento passi, li scorsero dei contadini che si trattenevano all’esterno delle case e li invitarono ad andare tranquilli. Si accorsero che non erano soli: una lunga fila si era formata incurante delle eventuali fucilate dei guardiani!
Giuseppe restò per una settimana ancora. La mattina, all’uscita dal carcere, spesso trovava la sorella Michela e la cognata Angela Maria che gli portavano qualcosa da mangiare. Un giorno stavano lungo l’argine del Gari a spianare delle postazioni, quando ad un tratto sentirono il caratteristico rombo di aeroplani americani che volavano a bassa quota. La sentinella li fece distendere tutti per terra. Giuseppe prese coraggio e avanzò mani e piedi verso la riva; visto che il soldato non si era accorto di nulla, si nascose in una buca scavata proprio da loro alcuni giorni prima, e vi rimase fino a quando non andarono via tutti. La sera si buttò nel fiume e raggiunse la sponda opposta. Aspettò la notte per uscire e, bagnato come era, attraverso le campagne, raggiunse di corsa la zona di S. Antonino. Si fermò a riprendere fiato ad una casa di contadini, ai quali raccontò ogni cosa. Questi provarono pena, lo fecero asciugare vicino al fuoco, gli diedero da mangiare e lo mandarono a riposare in una stalla. La mattina all’alba attraverso le campagne raggiunse Sant’Elia.
Di Antonio non si seppe nulla. Al rientro dallo sfollamento in paese arrivò la notizia secondo la quale si era arruolato nell’esercito della Repubblica di Salò e che morì in alta Italia il 23 febbraio 1945.
Marco, l’ultimo a tornare a Sant’Elia, fu costretto a restare con i Tedeschi, che si erano spostati a Mignano Montelungo. Qui stavano preparando un’altra linea difensiva e lui dovette seguirli e restare per diversi giorni ancora. Il lavoro divenne più duro, in quanto si trattava di scavare i ricoveri nella roccia, spianare il terreno per le piazzole. A sera le spalle e le mani facevano male e le dita erano tutte piagate. Li riportavano a Cervaro, a dormire per terra, sulla paglia, in uno spiazzo coperto vicino al Comune, utilizzato per le prove dalla Banda Musicale. Qui conobbe molti giovani dell’alta Italia e un ragazzo del posto che gli insegnò la strada per arrivare a S. Michele e a Portella.
Dopo il rancio, ad una certa ora, quando ormai era buio, la sentinella li lasciava piuttosto liberi perché si appartassero dietro un muro. Marco la sera del 18, come aveva stabilito, si allontanò più del solito.
Quando fu sicuro di non essere scoperto, se la diede a gambe verso la chiesa di S. Paolo attraverso una folta vegetazione ora scomparsa. Al chiarore della luna scorgeva solo la sagoma del monte Raditto. Correva, correva in quella direzione a bocca aperta, il fiato grosso ormai usciva con un ansare ritmico fino a quando, stremato dalla fatica del giorno e dalla corsa, non si sdraiò sotto un albero. Dormì alcune ore e l’alba lo svegliò.
Arrivò a Portella e finalmente a casa. Ma non vi trovò nessuno! I suoi si erano rifugiati a San Venditto!
Ormai Sant’Elia era stata abbandonata da tutti. Cominciò la diaspora per le montagne e poi per le cittadine della Calabria e persino della Sicilia.
1 Solo quattro giorni prima, l’8 settembre, era stato annunciato dal capo del governol’armistizio con gli anglo-americani che gran parte della popolazione italiana e dei militari dislocati sui vari fronti interpretarono come la fine della guerra.
2Testimonianza del figlio Mario.
3 Erano riusciti a fuggire Franceschino Fiorillo, Enrico e Roberto Petrucci, saltando dal muro in via Picano. Ettore Violo, un ragazzo di quattordici anni, mio amico, si trovava in via IV Novembre; ebbe l’accortezza di alzare le mani e allontanarsi lentamente alla volta di casa sua. Poté così avvertire suo padre Pasqualino e il sarto Lisandro Di Ponio; tutti e tre camminando nel fosso che fiancheggiava la strada, arrivarono alla odierna Croce di ferro e poi si allontanaronoverso Santa Catarina.
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