Mola detta dell’«Anatrella»

Print Friendly, PDF & Email
.
di Marcello Ottaviani
 foto-02.jpgChi percorre la SP 82 Valle del Liri (una volta SS 82) incontra, dopo Fontana Liri, a circa tre chilometri, un bivio che conduce ad Anitrella, frazione del comune di Monte San Giovanni Campano1. Il Liri in quel punto divide questo comune da quello di Fontana Liri, come nel passato divideva il Regno di Napoli, sul lato sinistro, dallo Stato Pontificio, sul lato destro.
In quel punto il Liri, fiume delle mole, delle valchiere, delle cartiere e delle centrali elettriche, fa una cascatella di circa quattro metri, per poi sprofondare più in basso con forte dislivello e placarsi infine in uno slargo quasi circolare (il cosiddetto “Rajo”). Questo punto è stato favorevole all’impianto di industrie che impiegavano la forza dell’acqua, infatti sia a destra che a sinistra del fiume sono state costruite mole, cartiere e centrali elettriche2.
Preso il bivio per Anitrella, dopo aver attraversato il ponte sul Liri si incontra, sulla sinistra, il Mulino Caldaroni che adopera ancora le “pietre” per macinare il grano. Questo mulino ha una lunga storia che merita di essere raccontata.
Qualcuno si chiederà se vale la pena di parlare oggi di mulini idraulici, di palmenti, di ritrecini, certamente sì. Le mole ad acqua sono state una componente essenziale della nostra società contadina e una parte della nostra storia. Bisogna ricordare ai giovani che tali mulini hanno accompagnato la storia dell’umanità3. Fino ai primi del ‘900 nelle zone rurali erano in azione tali mulini, essenziali all’economia contadina. I mulini a cilindri, che si diffonderanno verso la fine dell’Ottocento, fornivano specialmente i grandi centri, nei quali erano usate farine molto differenziate utilizzate per dolci, paste alimentari, biscotti, ecc. Era più pratico ed economico invece, per la popolazione contadina sparsa nelle campagne che nelle nostre zone raggiungeva il 65%, avere una farina con abbondante crusca «… dal momento che essa gli occorre per l’alimentazione del bestiame e anche perché il contadino, servendosi di un mulino primitivo, può controllare più facilmente la quantità di grano che egli fa macinare, dal momento che in lui è radicata l’abitudine di servirsi del proprio grano»4.
Oggi le mole a palmenti sono quasi scomparse, anche da noi il lavoro di molitura è fatto dai molini a cilindri, ma la farina macinata a pietra è migliore perché ricca di quelle sostanze che vanno perdute con i mulini a cilindri. I cilindri girano alla velocità di 300-350 giri al minuto e lavorano una grande quantità di grano, ma impoveriscono le farine di vitamine e proteine; la mola a pietra invece gira ad una velocità di 80-100 giri al minuto, per cui le farine non si riscaldano eccessivamente e vitamine e proteine vengono conservate. Come accennato, ad Anitrella è ancora in funzione un mulino che ha un’antica e lunga storia.
Il fiume Liri è stato per secoli il confine naturale tra il Regno di Napoli, riva sinistra, e Stato Pontificio, riva destra, cui appartenevano Monte San Giovanni e Anitrella. Invece sulla riva sinistra, nel Comune di Fontana Liri, c’è la frazione Fontecupa, nei documenti detta anche Fondo Cupo, probabilmente perché poco assolata nei mesi invernali. Nel passato, anche se appartenenti a due Stati diversi, gli abitanti del luogo, detti «regnicoli» quelli del Regno di Napoli e «campagnoli» quelli dello Stato Pontificio (Campagna), avevano contatti e scambi continui per necessità di vita e di commercio, leciti e illeciti, come il contrabbando. I commerci avvenivano tra le due sponde: gli abiti, le stoffe, le chincaglierie provenienti da Napoli venivano vendute ai «campagnoli» e quest’ultimi volentieri permettevano che i «regnicoli» usassero le merci del mercato locale anitrellese e il mulino esistente sulla riva destra. Del resto bisogna aggiungere che tale mulino ancora oggi, come in passato, viene usato dai fontanesi. Gli abitanti di Fontecupa, della zona una volta detta “Spalanca”, del Muraglione, del Braccio d’Arpino, dei “Quicqueri”, della Starnella, si servivano e si servono della mola di Anitrella.
La prima notizia della «Mola detta dell’Anatrella» risale al 1425. Il 5 gennaio di quell’anno Giacomo d’Aquino, conte di Laureto e Satriano, signore di Monte San Giovanni, vende ai fratelli Antonio, Prospero ed Odoardo Colonna, il Castello di Monte San Giovanni e altre terre, fra le quali il «… tenimento del luogo e fortezza detta l’Anatrella, coi molini, la valle dell’Anatra E.T.C…»5.
Nel 1583 Giacomo Boncompagni, già Signore dello Stato di Sora acquistato nel 1579, vuole ingrandire i suoi possedimenti e decide di acquisire anche lo Stato di Arpino e Aquino, possedimento dei nobili d’Avalos6. Incarica pertanto un funzionario di sua fiducia, Bazzano, di stendere una relazione su queste terre, compreso Monte San Giovanni. Riferendo su quest’ultimo territorio, che non verrà acquistato, il Bazzano scrive: «Ma sopra il fiume [Liri] tre Molini da grano cioè due all’Anatrella et uno a Campolato ove quei della Terra sono obbligati portare il grano a macinare, et ve ne portano anco alcuni delle Terre convicine. Al presente tutti questi Molini stanno affittati tomoli settecento alla misura del Regno che trattone le spese, sempre si può mettere che rendono l’anno tomoli seicentocinquanta et più … n. 650»7.
Il 20 maggio 1595 il papa Clemente VIII (1592-1605) acquistò il Castello di Monte San Giovanni con i territori di Strangolagalli e Colli per la somma di 170 mila scudi. Da questa data fino al 1870 Monte San Giovanni è sede di un Governatore Pontificio. Le mole venivano amministrate dalla Reverenda Camera Apostolica (RCA) che le dava in affitto a privati. Nell’ultimo decennio del 1700 concessionari delle mole di Anitrella sono i fratelli Marsoni di Monte San Giovanni.
Nel 1790, l’affittuario era il signor Carlo Giorgi, la RCA fece fare una perizia delle mole e dei locali annessi8. Da questo inventario apprendiamo che la «Mola detta dell’Anatrella [è] posta nel Fiume Liri, che viene dall’Isola di Sora contigua ad una valca nel Territorio di Monte San Giovanni». Il tetto dell’edificio era ad una pendenza, «di canali, Tavole piane, ed Arcarecci». Sopra i locali delle mole vi erano le stanze del molinaro e davanti al mulino «… Fabrica consistente in un Portico sotto per ricovero delle Bestie …» . Il documento descrive analiticamente l’impianto per la molitura: «Una Macina tutta d’un pezzo da Grano composta da un Corrente con suo Cerchio di ferro alto nel ciglio oncie cinque [cm. 5,5] di Pietra di Pofi, e suo Letto parimente tutto d’un pezzo alto oncie dieci [cm. 11] con suo Cerchio di ferro, ed armatura di travi sotto il detto Letto … Una Tramoggia da Grano … Un Retrecine con suo Fuso, Mazza, e numero sedici Pale, con suo Polo di Ferro, naticchie, due Cerchi di Ferro … Cassone, o sia Farinaro di Mezzareccie …, Arganetto sopra per alzare la Macina con suoi Cosciali in stato servibile». Il canale che portava l’acqua al ritrecine9, foderato e coperto con travi di legno, era lungo trenta palmi10.
Nel 1806 compare prepotentemente sulla scena la famiglia dei conti Lucernari. Originari di Velletri, mostrano una grande capacità di allargare i propri possedimenti immobiliari e una notevole pragmaticità nel cogliere i cambiamenti della società che si va lentamente trasformando, impiegando i capitali agricoli nella costruzione di lanifici e cartiere11.
Dotati di una indubbia intraprendenza e di potenti appoggi della Curia romana, attuano anche una sapiente politica matrimoniale12.
Nel 1806 il pontefice Pio VII Barnaba Chiaramonti concede in enfiteusi perpetua alla Guardia Nobile Francesco Lucernari dei terreni, nei territori di Ceprano e di Monte San Giovanni, che comprendevano Anitrella, Colli e Strangolagalli, naturalmente con le mole e i trappeti. Le mole Lucernari erano affittate al signor Cimorroni che le aveva subaffittate a Clodoveo Maturi13.
Con atto notarile del 28 febbraio 1831 del notaio Apolloni, registrato a Roma il 3 marzo 1831, Francesco Lucernari entra in possesso delle mole di Anitrella cedute dalla Reverenda Camera Apostolica14. Le mole lavoravano intensamente di giorno e fino a notte inoltrata nei mesi estivi, un lavoro che si intensificò notevolmente dopo il 1873. Infatti in quell’anno venne aperto il ponte in ferro, fatto costruire da Francesco Lucernari, che univa le due province di Roma e Caserta oramai tutte e due ricomprese nell’Italia unita. I carri trainati dai cavalli, e in seguito gli autocarri, attraversavano questo ponte con maggior quantità di merci e gli scambi si intensificarono. Non bisogna dimenticare che all’inizio del ‘900 Anitrella poteva vantare una cartiera, un mulino, un frantoio e due pastifici!
Giuseppe Spinedi, un medico che risiedette per un certo tempo nel comune di Monte San Giovanni Campano e che scrisse un libro interessante su questi luoghi, offre questo lusinghiero apprezzamento: «Richiama però l’unanime concorso dai luoghi più lontani, massima nelle estive siccità, quello [mulino] di Anitrella a sistema Americano, il quale con più pietre giorno e notte molina cereali già puliti dalla polvere e liberati dalle zizzanie da suoi vagli meccanici pur mossi da forza idraulica»15.
Ai primi del ‘900 i Lucernari decisero di impiegare la forza motrice dell’acqua per produrre energia elettrica. Si presero contatti con diverse ditte e alla fine fu stipulato il contratto con l’ing. Fazio della ditta R. Ottavi e C.16. «Il contratto tra Lucernari e Ottavi prevedeva che la centrale dovesse fornire energia necessaria all’uso dall’alba a “… mezz’ora avanti all’Avemaria”, al mulino e al pastificio e per i mesi di novembre e dicembre, dalla mezzanotte all’alba, anche al frantoio”17. Quale luogo d’installazione della turbina fu scelto il locale delle mole che vennero trasferite negli attuali locali. La turbina era servita dallo stesso canale che portava l’acqua alle mole e queste vennero animate dall’energia elettrica prodotta.
Sempre affittata dai Lucernari ai privati, la mola di Anitrella ha continuato a macinare per anni e anni.
Nel 1951 il conte Ferdinando Lucernari affittò il mulino a Gerardo Caldaroni con l’obbligo di continuare la macinazione con le mole di pietra. Gerardo (tutti lo chiamano Gelardo) acquistò il mulino nel 1979 e oggi lo gestisce con la figlia Maria Donata. Ho avuto il piacere di fare questa “chiacchierata” con Gerardo Caldaroni, uno degli ultimi veri molinari della nostra provincia. Il suo mulino è uno dei pochi rimasti nel territorio che ancora impiega le mole di pietra, si macina insomma con il sistema antico e il pane fatto con la farina proveniente da questo mulino ha un profumo particolare. Questa conversazione ha lo scopo di conoscere meglio le mole.
Ottaviani – Caro Gelardo, da quando fai il mugnaio?
Gerardo   – Dal 1952.
O – Prima chi era il molinaro?
G – Era mio zio, Emilio Caldaroni.
O – Da dove vengono le pietre delle mole?
G – Due dalla Francia, sono La Fertè, le migliori in commercio, il nome è scritto in ghisa; le altre da Pofi
O – Quando furono messe le pietre La Fertè?
G – Forse sono state sostituite nei primi anni del ‘900.
O – Che diametro hanno queste mole?
G – Sono larghe m. 1,30.
O – E che spessore?
G – Ora si sono consumate, vediamo un po’, diciamo cm. 20, quella di sotto è più   pesante, perché deve schiacciare i chicchi di grano.
O – Quanti giri fanno al minuto queste mole?
G –     140 circa al minuto.
O – Quali sono gli attrezzi che venivano usati una volta, come facevi anche tu, per la manutenzione delle mole?
G – La bugarda [bugiarda], il piccone e le lamette [mazzolo a lamette] per fare i canaletti, si dice rabbigliare le pietre.
O –    Che cos’è quell’attrezzo che vedo attaccato al muro?
G – Serve per alzare e rigirare la mola superiore per martellarla, è una parte dell’argano, qualcuno lo chiama “la mancina”, altri lo chiamano “le forcelle”.
O –    Le parti del mulino in dialetto come si chiamano?
G – Questa è la tremoja [tramoggia], dove si butta il grano, questo lo chiamano tubo [sarebbe il fuso che porta il movimento alla macina].
O – Quali sono le qualità che fanno un buon molinaro?
G – Capire la farina, quando è buona, quando è liscia, quando è più grezza, quando è malleabile [morbida] con le mani.
O – Ci vuole grande sensibilità nelle mani?
G – Certamente sì.
O – Come arrivavano una volta i contadini alle mole?
G – Le donne a piedi portavano il sacco di grano in testa, a volte pesava anche trenta chili; gli uomini arrivavano con l’asino o il carretto. Venivano non solo dalla “campagna” [ s’intende la Campagna Romana, il territorio dell’ex-Stato Pontificio, di cui facevano parte Anitrella e Monte San Giovanni Campano], ma anche da Fontecupa, Braccio d’Arpino, Muraglione, i “Quiqueri”, “Spalanca” [Comune di Fontana Liri]. Ci conoscevamo tutti, si parlava, si scherzava, si facevano battute. Le ragazze speravano di trovare marito, per restare a parlare saltavano il turno, facevano passare altre persone. Anche perché si veniva da una guerra, la vita era dura e si era contenti di vedersi e di stare insieme. Ora è tutto cambiato, arrivano tutti con la macchina, non si fa altro che correre, correre …
O – Cosa facevi tu quando i contadini arrivavano con i sacchi del grano?
G – Pensavano loro a buttare il grano dentro la tremoja. La farina spesso se la riportavano con la crusca.
O – Controllavi il grano?
G – Lo maniavo [palpavo] per vedere com’era, se era pulito. Ora c’è il     buratto.
O – Da quando c’è il buratto?
G – Vediamo, circa cinquant’anni.
O – Il buratto in dialetto si chiama “pulitora”?
G – Sì, in francese si chiama “plansichter” [questo termine è tedesco e significa setaccio piano, buratto].
O – Adesso questo mulino è diverso, ci sono altre attività connesse.
G – Certo, i tempi sono cambiati, vendo sempre la farina che macino con queste pietre, ma vendo anche mangimi, attrezzi agricoli, piantine d’ortaggi, fiori.
O – Ti voglio dire che le pietre La Fertè fino al 1790 in questo mulino non c’erano, c’erano pietre di Pofi. Furono messe all’inizio del ‘900, quando furono introdotti i motori elettrici.
G – Questo non lo sapevo.
O – Te lo dico io, l’ho letto nei documenti.
G – Per il granturco è meglio la pofana, perché è più tenera, però io per la polenta uso lo stesso La Fertè, che viene buona lo stesso.
O – Caro Gelardo, grazie per quanto mi hai detto. Ora darò un’occhiata alle tue mole*.

* Ringrazio sentitamente Dionisio Caldaroni, fiduciario della Villa Lucernari di Mario Coratti, che mi ha permesso di attingere all’Archivio Coratti.

1 “Campano” non si riferisce alla Campania, ma a “Campagna e Marittima” dello Stato Pontificio. Su Anitrella v. Pio Valeriani, Anitrella di Monte San Giovanni, s.d., Tipografia Casamari e Monte San Giovanni Campano ieri e oggi, Tipogr. Casamari, 1972; Nadia Rotondi, L’Ex-Cartiera Lucernari ad Anitrella: vicende storiche, Comune di Monte S. G. Campano, 2001; Alfredo Martini, Biografia di una classe operaia, Bulzoni Editore, Roma, 1984; Mauro Grossi, I Lucernari di Monte San Giovanni Campano, Veroli, 2002; Valentino Visca, Monte San Giovanni Campano e Canneto nei secoli, Editrice Frusinate, 2008; Marcello Ottaviani, Cartiera Piccardo di Fontana Liri (1879-1925) Tipolipo monticiana, 2010; Viviana Fontana (a cura di), L’acqua vero e unico mezzo della vita, Archivio di Stato di Frosinone, Frosinone, 2006.
2 È attiva oggi la centrale idroelettrica Enel di Fontecupa.
3 Dei mulini ad acqua, in tempi lontani dai nostri, hanno parlato Antìpatro di Tessalonica (I sec. a.C.), Strabone (18 a.C.), Vitruvio (23 a.C.), Lucrezio Caro (I sec. a.C.), Plinio il Giovane (I sec. d.C.), Procopio di Cesarea (V-VI sec. d.C.), ecc. Per notizie dettagliate sulla storia dei mulini idraulici cfr. March Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, Bari, 2009.
4G. Negri, La macinazione agricola dei cereali per un migliore sfruttamento, Milano, 1930, p. 79.
5 Pio Valeriani, Anitrella … cit., p. 5; Valentino Visca, Monte San Giovanni Campano … cit.; Archivio Principe Colonna, perg. XXX, 33.
6 I d’Avalos, nobili spagnoli fedelissimi degli Aragonesi di Napoli, possedevano Aquino, Arpino, Ischia e Procida, Pescara, Francavilla, Scanno, Castel di Sangro, Pescasseroli, Roccasecca, Pescosolido, Monte San Giovanni Campano, nonché beni in Lombardia, cfr. ASV, prot. 13, n. 38.
7 Giovanni Baffioni, Paolo Boncompagni-Ludovisi, Jacopo Boncompagni (1548-1612), Compera dello stato di Arpino (1583), p. 92.
8 Archivio di Stato di Roma, Camerale II, Beni Camerali, b. 194; Nadia Rotondi, L’Ex-Cartiera Lucernari … cit., pp. 40-41 e 107-113.
9 Il ritrecine è la ruota di pietra orizzontale con intorno le pale che, immersa nell’acqua, fa girare un asse che trasmette il movimento al palmento superiore. Il mulino con ritrecine era il più semplice e il più comune.
10 Il palmo romano equivaleva a circa cm. 22,34, pertanto il canale era lungo circa m. 67.
11 È degli anni venti dell’800 l’inizio della costruzione della Cartiera Lucernari di Anitrella, vedi le opere citate nella nota n. 1.
12 I conti Lucernari avevano vasti possedimenti sia nel territorio di Monte San Giovanni che in quello di Pontecorvo. Annibale Lucernari aveva sposato la nobile pontecorvese Benedetta Filippi Rocca che gli aveva portato in dote vasti territori, appunto, di Pontecorvo (Mauro Grossi, I Lucernari … cit., pp. 30-33).
13 Clodoveo Maturi di Fontana Liri era il padre di Marianna andata sposa a Pietro Nicolamasi di Isola Liri, importante padrone di lanifici. La figlia di Pietro, Rosanna Nicolamasi, era titolare del lanificio di Remorice, già lanificio Ciccodicola (ultimo ventennio sec.XIX ); cfr. Quaderni di Ricerca, Biblioteca Comunale Isola Liri.
14 Archivio di Stato di Frosinone, Deleg. Ap., b. 724, fasc. 1760 1/3. La RCA il 12 novembre 1855 vuole avere conferma del possesso delle mole da parte dei Lucernari.
15 Giuseppe Spinedi, Monografia medica di Monte San Giovanni Campano, Tipografia Roux e Favale, Torino, 1884.
16 Rotondi Nadia, L’Ex-Cartiera Lucernari … cit., pp. 66-71. Rotondi cita documenti attinti dall’Archivio Lucernari.
17  Ivi, p. 69.

(843 Visualizzazioni)