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Quali sono dunque nella storia di S. Nilo gli elementi, intorno ai quali Gaeta, con tutte le sue istituzioni, Amministrazione in testa, può proporre un’identità comunale matura e ampiamente rappresentativa, in grado cioè di coinvolgere anche chi devoto non è? In altri termini, è possibile individuare nella vita di Nilo punti nodali, su cui articolare una carta costituzionale di valori universali perennemente utili alla crescita della polis, ovvero di questa città che lo ospitò tra il 994 e il 1004?
Ne individuo almeno tre, che costituiscono l’abbecedario civile da rilanciare con forza, in questo tempo, in cui sempre più forte è l’emergenza educativa, fenomeno trans-generazionale e non solo dei giovani come sarebbe troppo facile pensare. Tali punti di questo abbecedario civile sono: 1) il senso della partecipazione; 3) il servizio alla comunità; 2) l’impegno nel dialogo.
a) Il senso della partecipazione
Mai come in questo momento c’è bisogno di recuperarlo, perché troppi fattori marciano contro. Viviamo in una profonda crisi economica, l’osservatorio quotidiano è ansioso sullo spread, i governanti fanno fatica a dare ricette adeguate. È diffuso lo scoraggiamento e, con esso, la sfiducia verso la politica vista come incapace a dare soluzioni, quando non espressa complice del disastro con i tanti esempi di corruzione. L’astensionismo elettorale non è mai stato così alto; disimpegno e qualunquismo dilagano, laddove la rassegnazione di fronte a un mondo che non si può migliorare è forte e pericolosa, suscitando in qualcuno soluzioni autodistruttive (vedi i diversi imprenditori suicidi) o distruttive (vedi la bomba alla scuola “Morvillo Falcone” di Brindisi). A conti fatti, la società di S. Nilo non stava affatto meglio: il sistema feudale consolidatosi nel X secolo annichiliva l’uomo comune in una depressione economica che lasciava senza speranze le masse rurali sfruttate nei latifondi da signorie opulente e lascive, inabissandole in un immobilismo sociale gerarchizzato, nell’ambito del quale sembrava vano ogni intervento riformista e si dava alternanza alla rassegnazione con estemporanee azioni violente, in cui la scelta ereticale fungeva spesso da alibi ad un esasperato dissenso. Ma deleteria era stata soprattutto la paurosa paralisi ideologica dell’anno Mille, aleggiando catastrofi apocalittiche come preludio all’imminente fine del mondo. Nilo visse proprio a Gaeta quel trapasso epocale che tremendo incentivo aveva dato al disimpegno sociale verso una storia umana ritenuta al capolinea.
Anche nel monachesimo s’era accentuata in quella vigilia la tendenza alla fuga mundi, considerato che il tempo volgeva al termine e molto più interessante sembrava l’ora che il labora, ovvero pregare soltanto, essendo il lavoro inutile senza prospettive future. In questo coacervo di combinazioni, ove il senso della partecipazione al mondo e alla storia è fortemente in crisi, Nilo procede profeticamente in controtendenza. Se è vero che come monaco guarda oltre il mondo, non per questo, però, egli cessa di essere lievito del mondo: tratta, infatti, con l’imperatore Ottone III per promuovere una renovatio universalis all’insegna della pace, dell’ordine e della giustizia sociale, ma con acuto senso politico sa che il migliore dei grandi movimenti non passa se non li recepisce il territorio e, in tal senso, opera, incontrando a Gaeta il duca Giovanni III e la moglie Emilia, il tutto in un equilibrio lungimirante, dove (al di là del diverso riferimento greco-latino) l’ente locale, il ducato, non deve perdersi in arroccamenti di campanile, ma si valorizza come cellula attiva e vitale di un mondo globale, di cui l’Impero di allora è raffigurazione; viceversa, si richiama l’istituzione centrale, di cui l’Imperatore è vessillo, al rispetto dell’ente locale, il ducato, quasi prefigurando quel genuino principio di sussidiarietà, in cui la realtà superiore è chiamata a promuovere e sublimare le potenzialità di quella subordinata, favorendone l’ordinata autodeterminazione in un programma, dove crescita e sviluppo non sono per pochi eletti né discriminanti per qualcuno.
Dunque, un senso istituzionale quello di Nilo a 360 gradi, un senso in cui la collaborazione con le autorità di ogni ordine e grado rientra nel dovere dell’uomo a costruire la polis, laddove la partecipazione è una vocazione civica inalienabile, dinanzi alla quale non è concessa latitanza, ovvero un atteggiamento qualunquista che per il cristiano finirebbe per leggersi addirittura come peccato di omissione. Per questa via la partecipazione diviene un tutt’uno con il senso della comunità, a cui ciascuno deve il suo servizio per un sano e armonico edificio sociale.
E veniamo così al secondo punto nodale del nostro abbecedario civile:
b) Il servizio alla comunità
La biografia di Nilo detta anche le coordinate di questo servizio, che è genuino solo se vi si partecipa con libertà, generosità, dinamismo e qualità.
Anzitutto un servizio libero, vale a dire con un metro di giudizio critico, che non è allineamento passivo e incondizionato agli ordini dell’autorità, ma evoca un filtro intelligente e responsabile delle persone, quand’anche a dettar legge fossero papi e imperatori. Nilo, pur riconoscendo la giusta causa del legittimo papa Gregorio V, ne censura fortemente l’operato vendicativo, che costui concerta con l’imperatore Ottone III ai danni del malcapitato antipapa Giovanni Filagato, sottoponendolo a indicibili sevizie. Ne emerge, insomma, un progetto di partecipazione che è servizio ad una società, che ha titolo per fare regole di convivenza, ma che non può escludere il sacrosanto diritto all’obiezione di coscienza, quando s’intacca un valore essenziale come, appunto, il rispetto dell’uomo e della vita in tutte le sue manifestazioni: un rispetto che giammai ammette eccezioni lesive alla dignità della persona, si trattasse anche del reo più ignominioso, come all’osservanza cattolica può apparire uno spergiuro antipapa. In altri termini, la verità di un valore assoluto, come la difesa della vita, non è mai cedibile o negoziabile.
In secondo luogo, un servizio generoso, ovvero senza speculazioni o calcolati tornaconti, bensì solo nel gusto del bene comune, laddove gli interessi inquinano i rapporti e non costruiscono beneficamente la polis, perché alterano i rapporti, mentre la furbizia si sostituisce al merito, la scaltrezza alle abilità, il decisionismo rampante alla chiarezza d’idee. Nilo a Gaeta dà grande lezione di stile: offre tutto se stesso alla causa della città e nulla vuole in cambio. Si sottrae repentinamente agli onori quando il Ducato annuncia di volergli erigere un momento sepolcrale post mortem nel cuore della città. Fugge a Grottaferrata perché l’iniziativa non vada in porto, disperdendo la gratuità della sua missione.
Un servizio libero, un servizio generoso, un servizio dinamico. Un servizio dinamico, che nulla dà per scontato, ma che sfida ogni giorno la precarietà della vita, la sua fluidità, i repentini mutamenti. Un servizio che non si accomoda su una staticità impossibile, ma che si inventa ogni giorno dinanzi alle nuove esigenze. Si parla tanto oggi di “società liquida”, ove non ci sono più sicurezze collettive: ma ancor meno ce n’erano al tempo di Nilo, quando imperavano l’instabilità dei confini feudali, l’incertezza di economie locali autarchiche e il pericolo di mari scossi dalle scorribande saracene. Nilo con i suoi spostamenti, tra Calabria, Campania e Lazio Meridionale mostra grande disponibilità a riscrivere i suoi progetti di vita, man mano che scenari nuovi si schiudono all’orizzonte. La sua, insomma, è una grande lezione di flessibilità tanto necessaria al giorno d’oggi come nuova forma mentis per rispondere alla situazione contingente. Va da sé che Nilo non considera affatto la sua mobilità come valore assoluto: egli cerca stabilità; ovunque vada ci va per fermarsi e dare fissaggio e solidità alla sua esperienza e a quella della sua famiglia monastica. Non è un monaco vagante: lo spostamento è indotto dalle circostanza mai cercato come anelito d’anarchia. Il suo pellegrinaggio, insomma, non è fine a se stesso, ma mira sempre ad una meta. Come a dire alla politica: la flessibilità del lavoro, cui inevitabilmente si lega una concezione precaria della vita quotidiana, è un’esigenza politica transeunda su cui ci s’accorda in tempo di crisi, ma non è un valore ideale, come insinua l’odierna dittatura del mercato (insomma non è vero che il posto fisso è monotono); il valore ideale è la stabilità, perché su questa si progetta e si edifica seriamente una casa, una famiglia, una comunità tranquilla.
Infine, un servizio qualificato. Partecipare all’edificazione della polis non basta. Occorre poterlo fare, mettendo a frutto le capacità e i talenti, di cui ogni singolo è splendido, unico, irripetibile portatore. L’autorità deve saper valorizzare abilità e competenze delle persone, dando loro lo spazio adeguato per potersi esprimere al meglio. Direi quasi che il rapporto dialettico tra autorità e singolo, deve essere quello tra il Battista e Gesù: “Lui deve crescere, ed io diminuire”. Un buon sindaco, che si muove sinceramente per il bene comune non soffoca ma crea le migliori condizioni per mettere a frutto il lavoro dei suoi consiglieri; analogamente vale per un vescovo di fronte ai carismi dei suoi preti. Anche in ciò Nilo si pone come modello ideale: nella comunità greca di Serapo, pur avendo tutti i titoli per esserne a capo, egli si fa da parte per valorizzare Paolo che mostra attitudine al coordinamento e alla guida di un contesto, in cui ciascuno sinfonicamente presta il suo servizio come meglio può e sa fare: ecco allora, Bartolomeo che si muove su un’onda più intellettuale per assicurare dignità e rispetto ad un’esperienza interessata ad incidere nel circuito politico-culturale; ma ecco pure Stefano, che, ad un livello più spicciolo ma non meno importante, mantiene solida la coesione del gruppo, alimentando con grossi sacrifici la dimensione caritativa. Ed in questo ricco pluralismo di apporti personale, la comunità prospera e cresce ogni giorno di più.
Da qui il discorso s’affaccia naturalmente sull’ultimo punto nodale del nostro abbecedario civile:
c) L’impegno nel dialogo
È, infatti, nel dialogo e solo nel dialogo che fruttificano i rapporti di collaborazione, tra persone con storie e caratteri diversi. E Nilo fu uomo del dialogo. Ancora una volta la vicenda di S. Nilo può tornare utile scorta ad un’era contemporanea, dove la globalizzazione avvicina immediatamente espressioni di umanità storicamente distanti, generando focolai quotidiani di conflittualità internazionale, interreligiosa ed interculturale. Certo, il mondo di Nilo era più lento nei contatti e più piccolo nelle dimensioni concepite: non aveva internet e il pianeta terra finiva alle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra). Eppure, non era meno complicata quell’Italia meridionale affastellata di genti, d’Oriente e d’Occidente, micce esplosive per il monopolio etnico: Bizantini, Longobardi, Franchi ed Arabi avevano traversato l’Alto Medioevo in tensione permanente. Guerre e scontri erano stati ed erano all’ordine del giorno in un clima d’incomprensione, che non cessava nonostante il passare dei secoli producesse la mescolanza delle razze. Inoltre, in tempi più vicini a Nilo, s’era aggiunta la rapacità famelica di aspiranti feudatari di stirpe germanica, che, forti dell’Impero ottoniano, reclamavano un posto al sole nel giardino d’Europa.
In questa esasperante situazione, Nilo s’impose come l’uomo della pace e dell’incontro. Nessuno ai suoi tempi seppe avvicinare quanto lui culture e popoli diversi, troppo spesso antagonisti, diffidenti l’uno dell’altro, attaccati fanaticamente alle proprie identità, pronti a vedere le differenze come minacce, e dunque una serie di nemici da abbattere. Profetico ponte spirituale, politico e culturale, Nilo educò l’Occidente ad apprezzare l’Oriente, e l’Oriente a non essere prevenuto verso l’Occidente. Puntò a smorzare ciò che divide, promuovendo invece ciò che unisce. Nel tempo, in cui tra gli scismi di Fozio e di Michele Cerulario, Greci e Latini s’accanivano polemici per l’aggiunta del Filioque nel Credo romano, S. Nilo cantava per i Greci in splendidi versi la liturgia di S. Benedetto, mentre la sua cerchia trasmetteva ai Latini il gusto mariano dell’Odigitria, arricchendo così la contemplazione della Theotokos, la Vergine Madre di Dio. In tutto ciò, il rilancio cultuale dei SS. Cosma e Damiano rappresentò a quel tempo il trionfo di modelli ecumenici per una Gaeta medievale, bizantina nelle istituzioni e nei legami, latina nel sangue e nella geografia. Nilo lascia così in eredità un cantiere cittadino sempre aperto ad un confronto capace di interpretare l’alterità come ricchezza, laddove l’io e il tu, senza rinunciare alle rispettive identità personali, etniche e culturali, sappiano edificare il noi, ovvero un sistema di relazioni in cui la collettività (cioè il semplice raccogliersi di singoli amorfi a fini organizzativi) diventi comunità (cioè l’unione affettiva di singoli con nome e cognome) e la comunicazione (cioè il parlare civilmente) maturi sempre più in comunione (cioè condivisione autentica di attese e progetti), affinché dalla massa emerga un popolo, e cioè la cittadinanza non sia più un aggregato casuale di uomini costretti a stare sullo stesso posto, tutt’al più sopportandosi pazientemente, ma tale cittadinanza sia il cemento genuino di un’amicizia civile che tutti accoglie e nessuno esclude.
Conclusione
Ed è il momento del bilancio conclusivo. Non v’è dubbio che l’incidenza di S. Nilo nella Gaeta del suo tempo sia stata tale e tanta da avere eco in tutto il mondo allora conosciuto dalle genti mediterranee. Nativo di Rossano, residente negli ultimi tempi a Grottaferrata, avrebbe meritato almeno la perenne cittadinanza onoraria. E, tra le righe, i Docibili, nell’intenzione di fargli un monumento sepolcrale, gliel’avevano assegnata, quei Docibili, che allora governavano Gaeta a tutto campo, il duca Giovanni III e il vescovo Bernardo, suo fratello. Civis Cajetanus, dunque, Nilo va considerato già a tutti gli effetti. Occorrerà, però, fare un passo avanti. Il duca non c’è più, ma c’è il sindaco; il vescovo, invece c’è ancora e si chiama pure Bernardo. Perché non promuovere ufficialmente S. Nilo a compatrono della città? Nei valori essenziali, che la sua vita annunciò, e cioè partecipazione, servizio e dialogo, tutti possono ritrovarsi, accanto alla devozione ed oltre la devozione, fedeli e non. La sua festa può diventare per il Comune di Gaeta la festa della collaborazione, la festa dell’incontro, la festa d’una amicizia civile senza frontiere.
* Testo del discorso pronunciato a Gaeta, la sera di lunedì 18 giugno 2012, presso la Chiesa di San Nilo Abate in un incontro cittadino organizzato dal parroco don Antonio Cairo.
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