La produzione editoriale di Montecassino. Dagli amanuensi alla tipografia.

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di Annamaria Arciero
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10.jpg“Le vrai sire châtelain\ laisse écrire le villain\ sa maine digna\ lorqu’il signa\ égratigne le parchemin\” ( Il vero signore castellano lascia scrivere il villano, la sua nobile mano quando firma graffia la pergamena). Si legge ne “Le origini del macchinismo” di Alessandro Koyré e si riferisce alla concezione della cultura antica, secondo la quale, scrivere, che si copiasse o meno, era considerato un’attività manuale e quindi umile e degradante.
Certamente anche in quest’ottica, fin dal VI secolo, le prime regole monastiche inclusero la scrittura tra le attività che l’uomo umile doveva compiere per condurre una pia vita.  Sia Cassiodoro che S. Benedetto, quasi sicuramente l’uno ignorando l’altro, pur essendo coevi, inclusero il lavoro dello scrivano nella loro Regola.
Il colto Cassiodoro, dopo una vita trascorsa come diplomatico alla corte di Teodorico, fondò nel monastero Vivarium la prima biblioteca per la raccolta e riproduzione dei manoscritti, non solo sacri ma anche profani, così che la cultura classica e le tradizioni delle antiche civiltà non andassero perse.
S. Benedetto, anch’egli certamente di elevata cultura, considerò la copiatura e riscrittura dei testi cristiani una vera e propria opera di predicazione, a cui erano destinati gli amanuensi.
La sola parola ‘amanuense’ conduce l’immaginazione di ognuno al silenzio operoso dell’abbazia di Montecassino, dove oscuri monaci, chini sui loro banchetti, ricopiano attentamente  antichi manoscritti. Quante opere dell’ingegno umano si sono salvate grazie al lavoro di questi umili scrivani, che con pazienza certosina hanno sottratto alle intemperie dei secoli manoscritti, codici, pergamene… Dapprima furono solo i testi sacri ad essere copiati e salvati. In seguito, sull’esempio di Cassiodoro, anche i classici antichi e qualsiasi opera scritta, veniva accuratamente e fedelmente riprodotta.
Il lavoro di copiatura era lungo e faticoso, tanto è vero che, per ricopiare la Bibbia, era necessario un intero anno di lavoro fatto da più persone e alcuni testi risultavano così estesi e complicati che a volte non bastava l’intera vita di un amanuense per realizzarne una copia.
Proprio per questo, nei testi dei secoli IX e X, all’ultimo foglio, si trovano speso affermazioni quali: “L’approdo non è più gradito al marinaio di quanto non sia l’ultima riga del manoscritto allo stanco amanuense”; “Qui libro legit in isto oret pro Iaquinto sacerdote et monacho scriptore, ut Deum habeat audiotorem”; “Pro anima Causi monachi hec facta est. Omnis qui legitis, orate pro eodem”; e, con caratteri del XIII secolo, “Ve qui dicitis malum bonum et bonum malum, ponentes tenebras lucem et lucem tenebras, ponentes amarum in dulce et dulce in amarum”.
Ore e ore di copiatura nello scriptorium erano così importanti che gli amanuensi venivano esonerati dalle preghiere della terza, sesta e nona ora, per non interrompere il lavoro nelle ore di luce.
Quando la copia, rigorosamente in scrittura beneventana – tanto che tale scrittura è chiamata anche ‘cassinese’ – era terminata, entravano in opera i miniaturisti, a cui erano riservati l’onere e l’onore di abbellire con fantasia  la prima lettera di ogni capitolo. (Famosi sono i miniaturisti del 1500, Boccardi e Matteo da Terranova. L’ultimo miniaturista, morto due giorni prima del bombardamento di Montecassino, è stato Don Eusebio Grossetti).
Con l’avvento della stampa, nel XV secolo, il lavoro degli amanuensi andò lentamente esaurendosi. La stampa si diffuse in fretta in Europa, dando un contributo decisivo all’alfabetizzazione di massa: in modo più veloce, più economico e quantitativamente maggiore si riproducevano informazioni su svariate materie e conveniva apprendere l’uso della scrittura. Si apre l’era della “galassia Gutenberg”, come la definirà nel ‘900 Mc Luhan, teorizzando sulla scienza delle comunicazioni; si origina la civiltà del “ macchinismo”, come dirà Koyré.
Dunque, con la diffusione della stampa, diventa superfluo impiegare interminabili giorni di lavoro in ciò che la macchina stampatrice fa in poche ore e quindi l’impegno del monaco cassinese muta l’oggetto ma non lo scopo: ora ci si dedica alla catalogazione, al riordino di documenti, bolle, lettere, codici, pergamene. Il primo più accurato archivista fu il gaetano Erasmo Gattola , vissuto tra il XVII e il  XVIII secolo. In ben sedici volumi riordinò metodicamente, alla luce dei nuovi criteri filologici del Mabillon, fondatore della paleografia e con il quale era in grande rapporto di amicizia, i manoscritti esistenti nell’archivio benedettino, redigendo la Historia Abbatiae Cassinensis  dal 529 al 1733 e le Accessiones. Fu lui a ritrovare il famoso “Placito di Capua”, che colloca al 960 la nascita del volgare italiano.
La stampa delle sue opere il Gattola l’affidò, nel 1733, al tipografo Coleti di Venezia. (C’è da dire che gli stampatori  veneziani erano abili e rinomati, anzi pare che sia stato proprio un veneziano, Panfilo Castaldi, ad inventare la stampa, per averne ricevuto i primi caratteri mobili di origine cinese dalla moglie,  nipote di Marco Polo. Li avrebbe poi perfezionati, costruiti in vetro di Murano, e, incautamente, mostrati ad un suo discepolo magonzese, Fausto Conesburgo, che rivelò la scoperta a Gutemberg).
Il bisogno di una tipografia cassinese nasce, nel 1842, dalla mente ingegnosa di un giovane monaco trentenne, Don Luigi Tosti, che ha appena scritto e fatto stampare a Napoli, per i tipi di Cirelli, una “Storia dell’abbazia cassinese”, in tre volumi. Un’officina tipografica corrispondeva sia allo spirito della Regola, che vuole il lavoro congiunto alla preghiera, sia alla tradizione dei monaci amanuensi, salvatori dei capolavori dell’ingegno umano nel corso di secoli di barbarie. Associarsi alla macchina voleva dire interpretare i tempi e continuare a prodigare ai popoli i tesori che pochi eletti conoscevano.
L’Abate Don Giuseppe Frisari, entusiasta dell’idea, inoltrò allora regolare domanda alla Polizia borbonica per l’apertura di una tipografia a Montecassino. Il ministro Del Carretto concesse l’autorizzazione, in data 8 giugno 1842, accompagnandola con parole che ricordavano le benemerenze culturali dell’Archicenobio: “Il divisamento palesatomi intorno alla Tipografia che intende stabilire in cotesta Badia, per mettere a stampa delle opere rare e ricercate dall’Archivio Cassinese, mostra essere in cotesta Religiosa famiglia vivo tuttora il sacro fuoco delle scienze e delle lettere, onde fu acceso mai sempre l’illustre Ordine, che di tanti tesori dell’ingegno umano, sottratti con fatica dalle distruzioni barbariche, fece ricche le età posteriori. Quindi, circa la permissione di che mi richiede, io di buon grado la dò; ed ai regolamenti testè pubblicati per tutte le tipografie e litografie del Regno (le quali divietano quelle che  siano private, affin d’impedirsi edizioni furtive) fo questa unica eccezione, tanto perché la dimanda venuta da lei mi è sufficiente guarentigia dell’impossibilità del detto caso, quanto perché cotesta Abbadia, ragguardevole per celebrità storica, ben merita un tal privilegio. Ed ho l’onore di assicurarle che mi fo a darne tosto le opportune disposizioni all’Intendente della Provincia. Solo la pregherei di farmi noto il nome dello stampatore, e darmi certezza ogni mese o due secondo che giudicherà opportuno, delle opere che saranno pubblicate dall’Archivio Cassinese”
Già il 28 luglio dello stesso anno arrivò, dal 3° Ufficio di Polizia della Sotto-Intendenza del Distretto di Sora nella Provincia di Terra di Lavoro, l’autorizzazione a impiantare una Tipografia, “ allo scopo di mettere a stampa opere ricercate dai dotti, esistenti in cotesto Archivio”, e pure una Litografia,  tecnica tedesca inventata da circa un cinquantennio, anche se nella domanda non se ne faceva richiesta. La stamperia cominciò a funzionare, tuttavia, solo nel  marzo 1844, con un testo di lingua del Trecento. Ma un altro “disegno nobilissimo” era nato nella mente geniale del Tosti: fondare un periodico, dal titolo “L’Ateneo italiano”, in cui raccogliere la  più bella parte dell’ingegno e della cultura d’Italia, – storia, filosofia, letteratura, in una parola, civiltà – sotto l’ombra di S. Benedetto e di Montecassino, per sviarlo dal fascino degli Enciclopedisti e della rivoluzione francese e predisporla ad un rinnovamento cattolico e papale della vita civile d’Italia.
Era chiaramente un’opera di propaganda neo-guelfa e il Tosti, chiedendo “perdono per l’ardimento di un povero monaco”, scrisse una lettera agli “ uomini più chiari di tutta Italia”: Manzoni, Pellico, Balbo, Troya, Galluppi, Rosmini, Cantù,  Cibrario, Gioberti, affinché, “avendo ricevuto da Dio un sì bello ingegno, mostrassero coi loro scritti come la Religione sia l’unica fonte di ogni Progresso Scientifico, Letterario, Artistico”. Tutti di buon grado accettarono di cooperarvi, ad eccezione del Gioberti, al quale, avendo da poco pubblicato il “Primato”, era stato chiesto di redigere l’introduzione. Questi declinò l’incarico per il timore che il suo nome “ posto in capo al giornale” desse ombra al governo borbonico. E fu buon profeta, perché il Ministro Del Carretto, quando il Tosti, in un eccesso di zelo, gli mandò i nomi dei collaboratori, capì lo scopo primo e proibì addirittura la pubblicazione del periodico.
Quindi solo la tipografia  cominciò a funzionare. Furono stampati nel 1845 i Commentari della guerra di Cipro, nel 1865 Il Codice Cassinese della Divina Commedia, nel 1849 la Storia della lega lombarda e Il Salterio del soldato di Tosti,  nel 1869 I Codici e le arti a Montecassino, di Don Andrea Caravita, tra il 1876 e il 1882 vari manoscritti in quattro grandi volumi arricchiti di circa 100 tavole di facsimili in cromolitografia e via negli anni seguenti manoscritti, divisi in serie canonica, patristica, filologica, e poi fu edito in due volumi il Codex diplomaticus Cajetanus, contenente più di 400 carte del comune di Gaeta dal 787 al 1294 e illustrate da note critico-storiche.
Anche la litografia, frattanto, produceva opere autonome di elevato valore, tanto che il volume Paleografia artistica di Montecassino, diretto da Don Oderisio Piscicelli e riproducente le tavole di scrittura  dei codici cassinesi, fu premiato alle esposizioni di Roma nel 1870, di Vienna nel 1873, di Parigi nel 1878, del Vaticano nel 1888, di Torino nel 1890, di Chicago nel 1893.
Era nata, con la proprietà letteraria delle pubblicazioni, la Miscellanea Cassinese, a cui nel corso degli anni futuri daranno lustro i volumi e le opere di Kehr, Saba, Inguanez, Santinelli, Fraschetti, Federici, Leccisotti, Leuterman, Lentini, Fabiani, Pantoni, Willard, Matronola, Citarella, Avagliano, Dell’Omo. Gli ultimi due autori appartengono ormai anche alla “galassia Marconi”.”


Indicazioni bibliografiche
– Antonio Mirro, in “Rassegna Romana”, gennaio-febbraio 1933, ediz. Fides Romana.
– Andrea Caravita, I codici e le arti a Montecassino, Montecassino, 1869.

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