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Studi Cassinati, anno 2011, n. 4
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di Ferdinando Corradini
Intervento al convegno per la ricorrenza del 150° anniversario della istituzione del Tribunale di Cassino, tenutosi presso il Teatro “Manzoni” sabato 19 novembre 2011, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cassino.
Allorché San Benedetto, nel 529, giunse a Montecassino, la penisola italiana, pur avendo subito, a partire dal 410, le devastazioni conseguenti alle cosiddette invasioni barbariche, stava vivendo un periodo di relativa calma. Appena sei anni dopo (535), però, l’imperatore d’Oriente, Giustiniano, vi inviò un esercito per tentarne la riconquista. Iniziarono così le non meno devastanti guerre dette greco-gotiche, che finirono nel 553, con la vittoria delle armate imperiali. Tale situazione di pace armata, ebbe fine nel 568, allorché i Longobardi, un popolo di origine germanica, entrarono in Italia attraverso il Friuli. La conquista di questo popolo ebbe come conseguenza la fine dell’unità politica della penisola, ma non solo. Sul finire del VI secolo, provenienti da Benevento presero Aquinum e Casinum, compresa l’abbazia fondata pochi anni prima da San Benedetto, che distrussero. Da questo periodo e fino alla fine del X secolo, inoltre, non rinveniamo più la presenza di vescovi in Aquino.
Nell’anno 702, poi, i Longobardi di Benevento presero Sora, Arpino e Arce, portando, in questo modo il confine fra il ducato longobardo di Benevento e quello bizantino di Roma, in grosso modo, al fiume Liri. Questo confine diverrà successivamente quello fra il regno di Napoli e lo Stato pontificio e, fino al 1926, quello fra la provincia di Roma, da una parte, e di Terra di Lavoro, con capoluogo a Caserta, dall’altra. E cesserà soltanto nel 1927 con la istituzione della provincia di Frosinone. Ancora oggi, tuttavia, questo antichissimo confine delimita il territorio di competenza del Tribunale di Cassino da quello del Tribunale di Frosinone nonché quello dei distretti telefonici che prendono il nome dalle due città e che sono contraddistinti, rispettivamente, dai prefissi telefonici 0776 e 0775. Lo stesso delimita anche il territorio della diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo da quello della diocesi di Veroli..
Nell’anno 717 il longobardo abate Petronace rifondò l’abbazia e, nel 744, il duca di Benevento Gisulfo, anch’egli di stirpe germanica, gli donò tutto il territorio circostante il cenobio, ad esclusione, per ovvi motivi militari, di quello confinante con il ducato di Roma, ricompreso nei territori di Sora, Arpino, Aquino e Arce. Cominciò così l’esercizio del potere politico da parte degli abati. Nell’anno 774, poi, Carlo Magno sottomise i Longobardi del nord Italia.
Dobbiamo tutte queste notizie al monaco benedettino Paolo Warnefrido, più noto come Paolo Diacono, un nobile longobardo originario del Friuli, che, allorché i suoi connazionali del nord Italia furono sottomessi dai Franchi, venne a rifugiarsi con tutta la famiglia, e tanti altri longobardi del nord, nella “Patria beneventana”, che rimase indipendente ancora per qualche secolo. Nell’anno 883, poi, l’abbazia fu presa e distrutta dai Saraceni, che, chiamati dall’ipata di Gaeta, si erano stanziati alle foci del Garigliano. Solo nel 949 i monaci vi fecero ritorno, sotto la guida dell’abate Aligerno, anch’egli di stirpe longobarda.
Vi è da dire che Montecassino e San Vincenzo al Volturno costituivano due signorie fondiarie autonome, che, fin dai tempi di Carlo Magno, godettero di notevoli privilegi e immunità concesse dagli Imperatori di Germania, che vedevano nelle stesse due importanti “chiavi” che consentivano loro l’accesso e il controllo del sud dell’Italia. Tali privilegi e immunità subirono delle limitazioni allorché, nel 1140, il normanno Ruggero II riunì tutto il sud dell’Italia, dando vita al regno di Sicilia, dopo aver sottomesso i Longobardi, che erano stanziati prevalentemente lungo la dorsale appenninica; i Bizantini, che occupavano la Puglia e la Calabria; e i Saraceni, che avevano acquisito il controllo della Sicilia. Le cose non andarono meglio, per i monaci, con Federico II, il quale nel 1239 chiuse l’abbazia, che fu riaperta nel 1266, grazie al fatto che l’anno prima il francese Carlo d’Angiò aveva sottratto il regno di Sicilia a Manfredi, figlio di Federico II. Il ruolo di rifondatore dell’abbazia fu affidato questa volta al transalpino Bernardo Ayglerio, il quale, però, morì di dolore, allorché, nel 1282, all’abbazia fu sottratta la giurisdizione penale.
Ma com’era organizzata l’amministrazione della giustizia nella Terra di San Benedetto dall’VIII al XIII secolo? Sappiamo che a San Germano, come allora si chiamava Cassino, aveva sede la curia maior. Al vertice della stessa vi era naturalmente l’Abate, il quale era coadiuvato da un advocatus, che, nei rapporti esterni, svolgeva il ruolo proprio dell’avvocato e di consulente dell’Abate, mentre, nei rapporti interni, svolgeva le funzioni di Giudice. Lo stesso era coadiuvato dai boni homines, che, come ci indica l’espressione che li contraddistingue, erano delle “persone per bene”. Vi era poi il “castaldo” che era una sorta di ufficiale giudiziario e il “notaio”, che, in un’epoca in cui era molto diffuso l’analfabetismo, aveva l’importante funzione di “annotare”, cioè, in buona sostanza, di scrivere: si trattava, in pratica, di un cancelliere.
Dalla curia maior dipendevano le curiae minores, che avevano sede negli altri centri della Terra di San Benedetto. A capo di ciascuna di esse vi era un monaco benedettino, indicato come “Rettore”. Anch’egli era coadiuvato dai boni homines, da un “giudice” e dal “baiulo”: quest’ultimo costituiva una via di mezzo fra l’ufficiale giudiziario e il giudice di pace, aveva, cioè, sia potere decisionale per le controversie di minor importanza che coercitivo. Com’è chiaro, allora non vigeva ancora il principio della divisione dei poteri. Nelle sentenze del periodo non rinveniamo mai menzionati gli avvocati, come li intendiamo oggi. Forse le loro funzioni erano svolte dai boni homines, che, però, a quel che par di capire, erano piuttosto dei “pacieri”.
Sotto alcuni aspetti il diritto vigente nella Terra di San Benedetto era veramente all’avanguardia. Sappiamo, infatti, che nelle chartae libertatis che l’abbazia concesse nel 1183 a Piedimonte e, nel 1190, a Pontecorvo e San Angelo a Theodice, era espressamente previsto che nessuno poteva essere tratto a giudizio senza giusto motivo, oppure arrestato, pignorato, confiscato nei suoi beni senza giudizio. Si tratta, com’è di tutta evidenza, dell’applicazione del principio nullum crimen sine lege, nulla poena sine judicio, che ci è stato insegnato aver trovato applicazione soltanto a partire dal Settecento.
Ma qual era il diritto che trovava applicazione nel nostro territorio? Quello longobardo, sia sostanziale che processuale. Lo stesso era stato, però, “depurato” dai suoi aspetti “barbarici”. Nelle sentenze conservate nell’archivio di Montecassino, infatti, non si fa mai riferimento alle ordalie, dette anche “giudizi di Dio”, consistenti nelle prove dell’acqua, del fuoco, camminare sui carboni ardenti, ecc.
Non rinveniamo neanche notizia dell’esecuzione di condanne a morte. Esemplare, a tal proposito, quanto accadde nel 1270 a S. Elia. In quell’anno la popolazione si ribellò all’abbazia, uccidendo i due monaci che svolgevano la funzione di Rettori. I venti capi della rivolta furono condannati all’esilio e alla confisca dei beni. Poco dopo, tale mite (se raffrontata con i reati commessi) pena, fu condonata dall’Abate, a seguito dell’intercessione del suo medico. Vi è da aggiungere che tali accadimenti offrirono al re Carlo I d’Angiò il pretesto per privare l’Abbazia della giurisdizione penale o “criminale”, come si diceva all’epoca: il Re ritenne che non si poteva lasciare tale giurisdizione nelle mani di chi ne faceva un uso così blando.
Interessante la norma contenuta nella charta libertatis concessa dall’abate Desiderio alla comunità di Traetto (odierna Minturno) nel 1061: extraneum iudicem sine vestra voluntate super vos non ordinamus. Il che sta a significare che l’Abate si impegnava a chiedere il parere vincolante della comunità, prima di inviare alla stessa un giudice forestiero. Sarà opportuno ricordare che, all’epoca, i “giudici” svolgevano anche funzioni amministrative. Analoga regola rinveniamo nella charta libertatis concessa dal medesimo abate a Suio nel 1079. Si trattava, com’è di tutta evidenza, di norme che sancivano un notevole rispetto per la “sovranità” delle comunità locali.
L’utilizzo del diritto longobardo trovava un ulteriore rafforzamento nella mancata applicazione del principio della “personalità del diritto”: i forestieri che si stabilivano nella Terra di San Benedetto, infatti, non potevano pretendere che venissero loro applicate le norme vigenti nello “Stato” di cui erano originari, ma dovevano uniformarsi a quello applicato nei possedimenti dell’Abbazia.
Nei documenti conservati nell’Archivio dell’Abbazia rinveniamo, quindi, notevoli testimonianze del diritto longobardo. Questo fatto ci spiega perché tali documenti siano oggetto di continua attenzione da parte degli studiosi del diritto germanico. Uno degli istituti tipici di tale diritto era costituito dal morgengabe (alla lettera, vuol dire “regalo del mattino”). In origine era un dono che il marito faceva alla moglie il giorno seguente quello delle nozze. Successivamente divenne una “donazione” fra coniugi regolamentata dalla Legge: il re Liutprando sancì che la stessa non potesse superare il quarto dei beni di proprietà del marito. Un altro istituto del diritto longobardo era il mundio: la donna era posta sotto la tutela perpetua della famiglia: tale tutela spettava al padre e, alla sua morte, al fratello, e, in mancanza di questi, ai parentes fino al settimo grado o al marito. In mancanza di tali soggetti, spettava all’Abbazia. Colui che assumeva tale ufficio veniva indicato come “mundualdo”. Altro istituto che rinveniamo è il faderfio, che consisteva in una donazione che il padre faceva alla figlia in occasione delle nozze. Di notevole interesse e attualità è la wadiatio, che altro non era se non una transazione con la quale le parti definivano una lite. In occasione di tale transazione, la parte che aveva maggiormente sacrificato i suoi interessi, riceveva dall’altra il launegilt [un piccolo dono in compensazione, n.d.r.]. Dello stesso troviamo menzione nella famosa controversia del 960 fra l’abate di Montecassino e tal Rodelgrimo di Aquino (quella in cui si trova la famosa deposizione testimoniale sao ko kelle terre per kelle fini …): chiusa la controversia con la wadiatio, che riconosceva le ragioni dell’Abate, costui donò un mantello alla controparte.
Non bisogna essere dei glottologi per capire che tutti i termini con cui abbiamo indicato gli istituti sono di origine germanica, perché longobardo era il diritto di cui gli stessi erano espressione. Se nella vita dovesse capitarvi di imbattervi in qualche padano che vanta origini longobarde, potrete tranquillamente dirgli che voi non siete da meno.
Vorrei concludere citando un passo del Fabiani, da cui ho tratto la quasi totalità delle notizie riportate in questo scritto: “Il ripopolamento, la bonifica, il dissodamento, la messa a coltura della Terra di San Benedetto, e la fondazione di paesi e città sia nel suo ambito che in altre regioni d’Italia e d’Europa, come Monaco, Salisburgo, Strasburgo, Francoforte e tante altre ancora, costituiscono indubbiamente uno dei più interessanti capitoli dell’opera di civilizzazione compiuta dai monaci benedettini durante il medioevo. La loro azione traeva ispirazione e impulso da quella norma che è il cardine fondamentale della regola di S. Benedetto, monumento di sapienza e di legislazione sociale: Ora et labora.
Ora et labora, la Croce e il libro su Montecassino, la Croce e l’aratro giù nei piccoli monasteri e nelle ville fondati al piano e altrove, sono il motto e i simboli in cui si compendia tutta l’opera di civilizzazione che i monaci svolsero nella Terra di S. Benedetto ed in tante altre terre”.
Nell’anno 702, poi, i Longobardi di Benevento presero Sora, Arpino e Arce, portando, in questo modo il confine fra il ducato longobardo di Benevento e quello bizantino di Roma, in grosso modo, al fiume Liri. Questo confine diverrà successivamente quello fra il regno di Napoli e lo Stato pontificio e, fino al 1926, quello fra la provincia di Roma, da una parte, e di Terra di Lavoro, con capoluogo a Caserta, dall’altra. E cesserà soltanto nel 1927 con la istituzione della provincia di Frosinone. Ancora oggi, tuttavia, questo antichissimo confine delimita il territorio di competenza del Tribunale di Cassino da quello del Tribunale di Frosinone nonché quello dei distretti telefonici che prendono il nome dalle due città e che sono contraddistinti, rispettivamente, dai prefissi telefonici 0776 e 0775. Lo stesso delimita anche il territorio della diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo da quello della diocesi di Veroli..
Nell’anno 717 il longobardo abate Petronace rifondò l’abbazia e, nel 744, il duca di Benevento Gisulfo, anch’egli di stirpe germanica, gli donò tutto il territorio circostante il cenobio, ad esclusione, per ovvi motivi militari, di quello confinante con il ducato di Roma, ricompreso nei territori di Sora, Arpino, Aquino e Arce. Cominciò così l’esercizio del potere politico da parte degli abati. Nell’anno 774, poi, Carlo Magno sottomise i Longobardi del nord Italia.
Dobbiamo tutte queste notizie al monaco benedettino Paolo Warnefrido, più noto come Paolo Diacono, un nobile longobardo originario del Friuli, che, allorché i suoi connazionali del nord Italia furono sottomessi dai Franchi, venne a rifugiarsi con tutta la famiglia, e tanti altri longobardi del nord, nella “Patria beneventana”, che rimase indipendente ancora per qualche secolo. Nell’anno 883, poi, l’abbazia fu presa e distrutta dai Saraceni, che, chiamati dall’ipata di Gaeta, si erano stanziati alle foci del Garigliano. Solo nel 949 i monaci vi fecero ritorno, sotto la guida dell’abate Aligerno, anch’egli di stirpe longobarda.
Vi è da dire che Montecassino e San Vincenzo al Volturno costituivano due signorie fondiarie autonome, che, fin dai tempi di Carlo Magno, godettero di notevoli privilegi e immunità concesse dagli Imperatori di Germania, che vedevano nelle stesse due importanti “chiavi” che consentivano loro l’accesso e il controllo del sud dell’Italia. Tali privilegi e immunità subirono delle limitazioni allorché, nel 1140, il normanno Ruggero II riunì tutto il sud dell’Italia, dando vita al regno di Sicilia, dopo aver sottomesso i Longobardi, che erano stanziati prevalentemente lungo la dorsale appenninica; i Bizantini, che occupavano la Puglia e la Calabria; e i Saraceni, che avevano acquisito il controllo della Sicilia. Le cose non andarono meglio, per i monaci, con Federico II, il quale nel 1239 chiuse l’abbazia, che fu riaperta nel 1266, grazie al fatto che l’anno prima il francese Carlo d’Angiò aveva sottratto il regno di Sicilia a Manfredi, figlio di Federico II. Il ruolo di rifondatore dell’abbazia fu affidato questa volta al transalpino Bernardo Ayglerio, il quale, però, morì di dolore, allorché, nel 1282, all’abbazia fu sottratta la giurisdizione penale.
Ma com’era organizzata l’amministrazione della giustizia nella Terra di San Benedetto dall’VIII al XIII secolo? Sappiamo che a San Germano, come allora si chiamava Cassino, aveva sede la curia maior. Al vertice della stessa vi era naturalmente l’Abate, il quale era coadiuvato da un advocatus, che, nei rapporti esterni, svolgeva il ruolo proprio dell’avvocato e di consulente dell’Abate, mentre, nei rapporti interni, svolgeva le funzioni di Giudice. Lo stesso era coadiuvato dai boni homines, che, come ci indica l’espressione che li contraddistingue, erano delle “persone per bene”. Vi era poi il “castaldo” che era una sorta di ufficiale giudiziario e il “notaio”, che, in un’epoca in cui era molto diffuso l’analfabetismo, aveva l’importante funzione di “annotare”, cioè, in buona sostanza, di scrivere: si trattava, in pratica, di un cancelliere.
Dalla curia maior dipendevano le curiae minores, che avevano sede negli altri centri della Terra di San Benedetto. A capo di ciascuna di esse vi era un monaco benedettino, indicato come “Rettore”. Anch’egli era coadiuvato dai boni homines, da un “giudice” e dal “baiulo”: quest’ultimo costituiva una via di mezzo fra l’ufficiale giudiziario e il giudice di pace, aveva, cioè, sia potere decisionale per le controversie di minor importanza che coercitivo. Com’è chiaro, allora non vigeva ancora il principio della divisione dei poteri. Nelle sentenze del periodo non rinveniamo mai menzionati gli avvocati, come li intendiamo oggi. Forse le loro funzioni erano svolte dai boni homines, che, però, a quel che par di capire, erano piuttosto dei “pacieri”.
Sotto alcuni aspetti il diritto vigente nella Terra di San Benedetto era veramente all’avanguardia. Sappiamo, infatti, che nelle chartae libertatis che l’abbazia concesse nel 1183 a Piedimonte e, nel 1190, a Pontecorvo e San Angelo a Theodice, era espressamente previsto che nessuno poteva essere tratto a giudizio senza giusto motivo, oppure arrestato, pignorato, confiscato nei suoi beni senza giudizio. Si tratta, com’è di tutta evidenza, dell’applicazione del principio nullum crimen sine lege, nulla poena sine judicio, che ci è stato insegnato aver trovato applicazione soltanto a partire dal Settecento.
Ma qual era il diritto che trovava applicazione nel nostro territorio? Quello longobardo, sia sostanziale che processuale. Lo stesso era stato, però, “depurato” dai suoi aspetti “barbarici”. Nelle sentenze conservate nell’archivio di Montecassino, infatti, non si fa mai riferimento alle ordalie, dette anche “giudizi di Dio”, consistenti nelle prove dell’acqua, del fuoco, camminare sui carboni ardenti, ecc.
Non rinveniamo neanche notizia dell’esecuzione di condanne a morte. Esemplare, a tal proposito, quanto accadde nel 1270 a S. Elia. In quell’anno la popolazione si ribellò all’abbazia, uccidendo i due monaci che svolgevano la funzione di Rettori. I venti capi della rivolta furono condannati all’esilio e alla confisca dei beni. Poco dopo, tale mite (se raffrontata con i reati commessi) pena, fu condonata dall’Abate, a seguito dell’intercessione del suo medico. Vi è da aggiungere che tali accadimenti offrirono al re Carlo I d’Angiò il pretesto per privare l’Abbazia della giurisdizione penale o “criminale”, come si diceva all’epoca: il Re ritenne che non si poteva lasciare tale giurisdizione nelle mani di chi ne faceva un uso così blando.
Interessante la norma contenuta nella charta libertatis concessa dall’abate Desiderio alla comunità di Traetto (odierna Minturno) nel 1061: extraneum iudicem sine vestra voluntate super vos non ordinamus. Il che sta a significare che l’Abate si impegnava a chiedere il parere vincolante della comunità, prima di inviare alla stessa un giudice forestiero. Sarà opportuno ricordare che, all’epoca, i “giudici” svolgevano anche funzioni amministrative. Analoga regola rinveniamo nella charta libertatis concessa dal medesimo abate a Suio nel 1079. Si trattava, com’è di tutta evidenza, di norme che sancivano un notevole rispetto per la “sovranità” delle comunità locali.
L’utilizzo del diritto longobardo trovava un ulteriore rafforzamento nella mancata applicazione del principio della “personalità del diritto”: i forestieri che si stabilivano nella Terra di San Benedetto, infatti, non potevano pretendere che venissero loro applicate le norme vigenti nello “Stato” di cui erano originari, ma dovevano uniformarsi a quello applicato nei possedimenti dell’Abbazia.
Nei documenti conservati nell’Archivio dell’Abbazia rinveniamo, quindi, notevoli testimonianze del diritto longobardo. Questo fatto ci spiega perché tali documenti siano oggetto di continua attenzione da parte degli studiosi del diritto germanico. Uno degli istituti tipici di tale diritto era costituito dal morgengabe (alla lettera, vuol dire “regalo del mattino”). In origine era un dono che il marito faceva alla moglie il giorno seguente quello delle nozze. Successivamente divenne una “donazione” fra coniugi regolamentata dalla Legge: il re Liutprando sancì che la stessa non potesse superare il quarto dei beni di proprietà del marito. Un altro istituto del diritto longobardo era il mundio: la donna era posta sotto la tutela perpetua della famiglia: tale tutela spettava al padre e, alla sua morte, al fratello, e, in mancanza di questi, ai parentes fino al settimo grado o al marito. In mancanza di tali soggetti, spettava all’Abbazia. Colui che assumeva tale ufficio veniva indicato come “mundualdo”. Altro istituto che rinveniamo è il faderfio, che consisteva in una donazione che il padre faceva alla figlia in occasione delle nozze. Di notevole interesse e attualità è la wadiatio, che altro non era se non una transazione con la quale le parti definivano una lite. In occasione di tale transazione, la parte che aveva maggiormente sacrificato i suoi interessi, riceveva dall’altra il launegilt [un piccolo dono in compensazione, n.d.r.]. Dello stesso troviamo menzione nella famosa controversia del 960 fra l’abate di Montecassino e tal Rodelgrimo di Aquino (quella in cui si trova la famosa deposizione testimoniale sao ko kelle terre per kelle fini …): chiusa la controversia con la wadiatio, che riconosceva le ragioni dell’Abate, costui donò un mantello alla controparte.
Non bisogna essere dei glottologi per capire che tutti i termini con cui abbiamo indicato gli istituti sono di origine germanica, perché longobardo era il diritto di cui gli stessi erano espressione. Se nella vita dovesse capitarvi di imbattervi in qualche padano che vanta origini longobarde, potrete tranquillamente dirgli che voi non siete da meno.
Vorrei concludere citando un passo del Fabiani, da cui ho tratto la quasi totalità delle notizie riportate in questo scritto: “Il ripopolamento, la bonifica, il dissodamento, la messa a coltura della Terra di San Benedetto, e la fondazione di paesi e città sia nel suo ambito che in altre regioni d’Italia e d’Europa, come Monaco, Salisburgo, Strasburgo, Francoforte e tante altre ancora, costituiscono indubbiamente uno dei più interessanti capitoli dell’opera di civilizzazione compiuta dai monaci benedettini durante il medioevo. La loro azione traeva ispirazione e impulso da quella norma che è il cardine fondamentale della regola di S. Benedetto, monumento di sapienza e di legislazione sociale: Ora et labora.
Ora et labora, la Croce e il libro su Montecassino, la Croce e l’aratro giù nei piccoli monasteri e nelle ville fondati al piano e altrove, sono il motto e i simboli in cui si compendia tutta l’opera di civilizzazione che i monaci svolsero nella Terra di S. Benedetto ed in tante altre terre”.
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