Ricordi sparsi di un cassinate della diaspora

Print Friendly, PDF & Email
di Cosmo Barbato
.

Da Roma, dove risiedo fin dalla guerra, in una recente visita a Cassino, ospite dei miei cugini Avino, chiacchierando con loro abbiamo rievocato fatti e racconti che ci erano stati tramandati dai nostri genitori o che ci avevano visti testimoni diretti nei tempi andati. Un album insomma di ricordi, alcuni dei quali ho successivamente pensato di mettere per iscritto, per non dimenticare.

La tassa sul macinato
Un episodio che si raccontava in famiglia. Mio nonno, di cui ho ereditato il nome, aveva sul Viale Dante un mulino, che tanto tempo fa era fatto oggetto delle assidue attenzioni  della Finanza per via della odiata tassa sul macinato. Un giorno si pensò di giocare ai finanzieri, solerti segugi,  una beffa. Una mattina, di buon’ora, dalla casa di mio nonno attigua al mulino, uscì una domestica con una enorme cesta posta, come d’uso,  sul capo, ricoperta da un telo ben imbrattato di farina. Non aveva fatto che pochi passi che fu subito bloccata dai finanzieri: altolà, chi sei? chi ti manda? dove vai? dove porti la farina? da chi vai? metti giù la cesta. Aiutata dai militari, la cesta fu depositata in terra. Intanto intorno si andava formando una folla di curiosi. Scopri, ordinarono i finanzieri, sicuri di aver beccato il gatto col sorcio in bocca. No, io non scopro niente, replicò la donna, se volete scoprite voi. Scopri, io non scopro. Più passava il tempo, più si accalcava la gente richiamata dagli strilli. Finché un finanziere graduato, spazientito, con mossa decisa strappò il telo che copriva la cesta. Ma dentro, invece della farina, c’erano orinali e “zipeppe” colmi dei “prodotti” della notte dell’intera numerosa famiglia. A quella vista si alzò dalla folla un coro di fischi e pernacchie. I finanzieri, scornati, volevano arrestare la donna per oltraggio, ma questa, spalleggiata dagli spettatori, si giustificò: che ho fatto? io non volevo scoprire,  stavo andando a buttare quella robaccia nel Rapido e a lavare i vasi, mi vergognavo di scoprire la cesta, siete stati voi che avete voluto vedere per forza.

“Viva il duce, ma perdete!”
Rievocando con i miei cugini, venimmo a parlare di un barbone, lo chiamavano Ciccone, forse di nome faceva Francesco, non ricordo il cognome. Siamo nel periodo della guerra, prima però che la catastrofe investisse Cassino. Ciccone era quasi cieco, aveva perso la vista lavorando nelle saline di Margherita di Savoia dove era stato mandato al confino perché dichiarato sovversivo. In precedenza però era stato emigrato in Inghilterra, dove aveva conosciuto e apprezzato la democrazia. Vecchio e invalido, si trascinava per Cassino chiedendo l’elemosina, ma i fascisti “coraggiosamente” non gli davano tregua. Ogni tanto lo mettevano in mezzo per sfotterlo e per costringerlo a suon di ceffoni a gridare “Viva il duce” e “Abbasso l’Inghilterra”. Ciccone, che a mala pena si reggeva in piedi, resisteva: “Vui siete ‘a munnezzaglia degli  inglesi!”. Era questo il suo grido di ribellione agli aguzzini, ma quando non poteva più reggere alle angherie, alla fine cedeva: “E va bene, come volete, viva il duce, (e puntando l’indice contro i suoi aguzzini) ma perdete!” (si riferiva al “vincere” della guerra in corso). Da ragazzo mi accostavo a lui con discrezione cercando di consolarlo: “Coraggio, sono il figlio di Guido Barbato”. Ciccone non mi vedeva. Conosceva i sentimenti antifascisti di mio padre e apprezzava quella timida solidarietà: “Grazie, salutatemi ron Guido”. Non so che fine abbia fatto il “profeta” Ciccone, quando la guerra gli giunse in casa.

Alluvione da pozzo nero
Durante il periodo dello sfollamento a Valvori, a un certo punto andammo ad abitare in una vecchia casa rustica dove  i miei genitori e noi due figli occupammo una stanza e in un’altra si accalcarono sei persone della famiglia di una mia zia. Cucina e un minuscolo gabinetto in comune. Il gabinetto scaricava in un pozzo nero che un bel dì non ricevette più: era colmo, forse era già pieno da prima che arrivasse l’apporto di noi dieci persone. Si pose dunque il problema di svuotarlo. Ma come fare? La casa si collocava a mazza costa, davanti aveva un piccolo spiazzo e più sotto digradava nell’orto di una anziana vedova del posto. Scoprimmo che il pozzo nero aveva un tappo sul fondo, dal quale i liquami potevano defluire in caduta libera. Sarebbero però finiti inevitabilmente nell’orto della vedova. Mio padre, prima di accingersi all’ingrata operazione, parlò con la proprietaria dell’orto, la quale acconsentì di buon grado: “Un po’ di pozzo nero va bene, concima gratis la terra mia”. Ma quando l’operazione ebbe inizio, la povera vedova corse disperata da mio padre con le mani nei capelli: “Mi aspettavo un po’ di concime, ora ho l’orto completamente allagato di merda, non ci posso nemmeno mettere piede, io vi denuncio per danni”. I danni non li pagammo mai perché, pochi giorni dopo, noi sfollati e gli abitanti del posto fummo tutti coattivamente deportati dai tedeschi.
Zi’ Perpetua beffata
Due episodi dello sfollamento a Valvori dopo i primi bombardamenti su Cassino. Molte famiglie di cassinati si rifugiarono in quel paesino di montagna i cui abitanti godevano di un certo benessere che derivava dall’emigrazione stagionale con piccole orchestrine e, in Inghilterra, a vendere patatine e pesci fritti. Un paio di famiglie presero alloggio nella casa di una arcigna vedova, zi’ Perpetua, che, come la maggior parte degli indigeni, nutriva poca simpatia per gli sfollati, al punto che si rifiutava persino di vendere ai suoi ospiti, benché paganti, una parte delle cospicue provviste che teneva rinserrate col catenaccio in una stanza. Addirittura aveva proibito ai ragazzi di accedere nell’orto a una pianta di kakì carica di frutti maturi che nessuno coglieva e che andavano perduti. I ragazzi, un po’ per fame e un po’ per dispetto,  escogitarono uno stratagemma: in assenza di zi’ Perpetua raggiunsero la stanza proibita arrampicandosi lungo un canalone fin sul  tetto e penetrando dalla finestrella di un abbaino. Una volta nella stanza, fecero man bassa delle provviste: salami, lardo, formaggi, fichi secchi, miele, ciambelle e tutto quel che poteva essere consumato sul posto e in parte asportato. Quando l’arcigna vedova si accorse dell’ammanco fece un inferno. Non si dava pace non riuscendo a capire come i ladri fossero penetrati nel suo forziere né sospettò che a fregarla fossero stati i ragazzi che ospitava in casa.
L’altra storia riguarda un episodio efferato che si verificò, malgrado che, in quella piccola comunità di montagna posta sulla linea del fronte, quotidianamente si esorcizzasse l’idea della morte sempre incombente. Un uomo del luogo di 35-40 anni, di cognome Avellino, assassinò con una coltellata al cuore un compaesano poco più adulto di lui. Si disse per motivi di interesse, ma forse c’era anche una questione di donne. In assenza di qualsiasi autorità civile, lo arrestarono i tedeschi e lo rinchiusero in una macelleria che dava sulla piazza della chiesa e che aveva come porta una cancellata. Dietro le sbarre, l’uomo si agitava come una belva prigioniera. Davanti, c’erano sempre tanti compaesani che lo insultavano e lo maledicevano. Quando poco dopo arrivò l’ordine di deportazione generale,  Avellino non fu caricato sui camion come tutta la popolazione presente a Valvori. Non so che fine abbia fatto.

I danni di guerra
Un giorno di marzo del 1982 al mio recapito di Roma arrivò una cartolina indirizzata a Guido Barbato, cioè – era da ritenere – a mio figlio, che in quei giorni si trovava in gita scolastica all’estero. Era un avviso delle Poste che gli comunicava la giacenza presso l’ufficio di una raccomandata. Mi recai di persona portando un documento di mio figlio e lo stato di famiglia e faticosamente riuscii a farmi consegnare la raccomandata. Si trattava di una cartolina nella quale si invitava Guido Barbato a ritirare a sua volta una comunicazione dell’Intendenza di Finanza di Frosinone presso l’Albo Pretorio di Roma che si trova in Via di Monte Caprino, sotto il Campidoglio. Che cosa aveva a che fare mio figlio, che allora aveva sedici anni, con un’Intendenza di Finanza? Incuriosito, anche in quell’ufficio mi recai di persona. Qui altra discussione per cercare di farmi consegnare la raccomandata in assenza del destinatario. Alla fine riuscii a farmi dare la busta. Dentro, su carta intestata dell’Intendenza di Finanza di Frosinone, c’era la seguente comunicazione: “A seguito della sua istanza di risarcimento danni di guerra avanzata a questa Intendenza in data 26 febbraio 1946 relativa a una  casa di sua proprietà in Viale Dante in Cassino, da nostre accurate indagini esperite in luogo risulta che nel sito indicato insiste un fabbricato, dal che si deduce o che detta casa non è andata distrutta dagli eventi bellici (a Cassino!) ovvero che è stata ricostruita evidentemente col contributo dello Stato. Pertanto l’istanza non viene accolta. Ha tempo 90 giorni per un eventuale ricorso”. Dunque,  destinatario non era Guido Barbato mio figlio, bensì Guido Barbato mio padre. La risposta (negativa) alla sua “istanza avanzata” nel 1946 arrivava dopo trentasei anni! E mio padre era morto già nel 1973. Il fabbricato che “insisteva nel sito indicato” era di un nuovo proprietario, perché mio padre, non avendo alcuna  possibilità di riedificare a Cassino, da profugo per sopravvivere aveva venduto  il terreno sul quale c’era stata una villa e su cui  non c’era ormai che un cumulo di macerie. Non feci ricorso per non far correre il rischio a qualche mio discendente di ricevere, magari nel 2024, un’altra esilarante raccomandata dall’Intendenza di Finanza di Frosinone. Pubblicai però la lettera, naturalmente senza riscontro, su “Paese Sera”, il giornale in cui lavoravo.

La dichiarazione di guerra
Ho un vivo ricordo dell’annuncio della dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra, dato da Mussolini da Palazzo Venezia quel 10 giugno 1940. Abbiamo visto mille volte quella scena in televisione, ma quel giorno ascoltammo quelle sciagurate parole per radio. Era stato preannunciato un importante discorso. Tutti eravamo in attesa. A casa nostra si temeva che l’annuncio importante sarebbe stato la dichiarazione di guerra che ormai era nell’aria. Mio padre da molti mesi era già stato richiamato col grado di maggiore, dopo essersi congedato alla fine della Prima Guerra mondiale col grado di primo capitano (grado oggi soppresso). La nostra era una famiglia antifascista. Mio padre, avvocato, era stato radiato dall’albo professionale. Certi giorni non c’erano in casa 10 lire per fare la spesa. Paradossalmente, col richiamo alle armi, la nostra situazione economica fece uno straordinario balzo. Ma la dichiarazione di guerra significava che un pericolo reale si profilava per mio padre militare. Non pensavamo allora che la guerra sarebbe arrivata fin nelle nostre case. Dunque, mia madre accese la radio tenendo abbracciati noi due figli. Fuori, per strada, s’era fatto un gran silenzio. Quando la parola guerra giunse alle nostre orecchie, mia madre scoppiò a piangere. Poco dopo una folla festante percorse le strade di Cassino: non si rendeva conto la gente degli orrori che si profilavano all’orizzonte, non potevano sapere che in quel momento iniziava anche la catastrofe della nostra città. “Dio stramaledica gli inglesi” e “Ce magnamo pane e terra e iammo ‘n culo all’Inghilterra” erano le grida che si levavano tra uno sventolio di bandiere. Mia madre invece sentiva il dramma che si andava profilando. Nell’ingenuità della nostra disinformazione, temendo attacchi aerei e magari l’uso di gas asfissianti, seguendo le indicazioni della Protezione antiaerea preparò sui comodini delle bacinelle con dentro delle pezze imbevute d’acqua: dovevano servire per tamponare naso e bocca a mo’ di filtro! I vestiti sempre pronti per scappare chi sa dove in caso di allarme. Fuori la baldoria durò fino a tardi. Poi rientrarono tutti in casa iniziando a preparare le finestre per l’oscuramento, ignari che in quelle ore si andava segnando il nostro destino.

Il fascino della Rocca Janula
La Rocca Janula ha costituito un capitolo importante della nostra infanzia e penso anche delle generazioni precedenti. Come i romanzi di Salgari. Tale era il fascino che esercitava su noi ragazzi. Il mio primo sentimento nei suoi confronti però fu di antipatia: d’estate, alle sei del mattino, mio padre svegliava noi due figli per andare a fare una passeggiata mattutina con l’aria buona fino alla Rocca, con la merenda nel cestino preparata la sera prima da mia madre; ritorno entro le 9. L’escursione alla fine risultava divertente ma quella sveglia antelucana era un tormento. Più tardi, quando da adolescente godetti di una certa autonomia, la Rocca divenne la meta clandestina delle avventure  di noi ragazzi: si parlava di passaggi segreti, di antiche armature nascoste, chissà forse di qualche tesoro. Scoprimmo effettivamente un buio ingresso sotterraneo nel quale avevamo paura a penetrare. Per darci coraggio e per creare un incentivo, facevamo una colletta: mezza lira a testa a chi entrasse per primo. Armati di una torcia, abbiamo tutti tentato, ma nessuno riuscì a percorrere più di cinquanta metri: poi prevaleva la paura, alimentata anche dalla diceria che la rocca fosse infestata dai fantasmi (mia zia Lavinia giurava di averli visti da Cassino agitarsi sugli spalti). A un certo punto smettemmo temporaneamente di frequentarla perché un nostro coetaneo, figlio di Geremia Pio, noto pasticciere di Cassino, perse la vita precipitando dal “Rocchitto”, una fortificazione laterale del complesso che dava dalla parte di San Silvestro. La notizia ovviamente fece molta impressione in città e fu di monito a noi ragazzi, che però tornammo poco dopo, sia pure con maggiore prudenza,  alle nostre esplorazioni. Il passaggio sotterraneo però c’era, non so dove conducesse, chi diceva a Cassino, chi a Montecassino. Più tardi qualcuno ipotizzò che, durante la guerra, i tedeschi avrebbero utilizzato un passaggio sotterraneo  per i loro spostamenti al coperto; notizia peraltro non accertata. La Rocca in primavera e in autunno era un luogo di scampagnate. Molto attesa da tutti e particolarmente dalla gioventù era  la festa del 25 marzo, quando la statua dell’Annunziata, venerata nella cappella della Rocca, veniva portata a Cassino con una lunga e molto festosa processione nella quale si mescolavano fervore religioso e  residui di ferie pagane, tant’è che non era molto amata dalla Chiesa. Ricordo un canto dialettale che veniva intonato dalle donne: “Maronna r’ la Rocca, come stai rimposta bella! Maronna Virginella, pietà pe’ nui, pietà”. Conservo a casa nel mio studio un disegno a china donato a mio padre dall’autore, Giovanni D’Ambrosio, un amico cassinate. Rappresenta la vecchia Cassino con sullo sfondo, troneggiante, la Rocca Janula e dietro l’Abbazia. Reca la data del 1949 e sotto un distico: “Rocca bella mia/ ne me pozze mai scurdà/ re tutte le pazzie/ re quarant’anne fa”. Gli anni delle  mie passate “pazzie” sono oggi all’incirca settanta.

Il giocatore del Lotto
A Cassino si giocava molto al Lotto, la speranza dei poveri. Prima della guerra c’era un personaggio che si poteva considerare più che un povero uno scansafatiche cronico, un po’ perditempo un po’ anche ubriacone. Tenace giocatore, interprete scientifico della “Smorfia” napoletana, ogni sabato, dopo la visita al botteghino, passava immancabilmente nella (ahimè cancellata dalla guerra) chiesa del Riparo, dove c’era una cappella con sull’altare un grande crocifisso considerato miracoloso. Il nostro, quando si era ben assicurato di essere solo, faceva la sua perorazione: “Se mi fai vincere, la metà è per te”, oppure “Avrai almeno dieci candele”. Qualcuno notò quel movimento settimanale e assieme a un gruppo di amici preparò uno scherzo (i cassinati sapevano essere caustici). Un sabato, quando il nostro stava in ginocchio davanti al crocifisso, da dietro all’altare uscì una voce cavernosa ma perentoria: “Sfaticà, va’ a faticà!”. L’uomo guardò sbalordito il crocifisso, credendo fosse stato lui a parlare. Poi irruppe in un’invettiva: “E tu, pe’ nun te fa’ li cazzi tuoi si fernuto ‘n croce”. La sceneggiata si concluse tra i fischi e i lazzi degli amici burloni che sbucarono fuori dai loro nascondigli.

Un premio deludente
Sarà stato il gennaio o il febbraio 1943, la data esatta non la ricordo. Alunno di terza media, un giorno portai in classe un coltello da viaggio sottratto a mio padre, un bell’oggetto raro a quei tempi: doppia lama, cavatappi, punteruolo, apriscatole, forbicette, cacciavite. Me ne vantavo con i compagni che, per vederlo,  se lo passavano tra i banchi durante l’ora di matematica, finché il traffico fu interrotto bruscamente dal burbero professor Musculiati il quale, con mia grande costernazione, decise di sequestrarlo. Come avrei giustificato con mio padre la sparizione del coltello? Ero nel banco che mi tormentavo con questi brutti pensieri quando entrò il classe il preside Gaetani che cominciò a confabulare col professore, rivolgendosi verso la mia parte. Mi aspettavo una ramanzina. Poi mi chiamarono alla cattedra. Mi feci piccolo piccolo aspettandomi una sospensione per via del coltello e invece no, il preside mi accolse con un…Bravo! Hai vinto il primo premio nazionale del tema sulla festa degli alberi, verrà a Cassino sua eccellenza il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai per consegnarti il premio. La festa degli alberi veniva celebrata tutti gli anni ed era dedicata alla memoria del fratello del duce, Arnaldo Mussolini. Per radio veniva trasmesso un testo che doveva ispirare il tema, poi si andava a mettere a dimora qualche alberello. Come anticipo del premio, mi fu restituito il coltello che riposi di soppiatto senza dire niente a mio padre. Poi venne il giorno della premiazione. Mancavano pochi mesi al 25 luglio, la guerra incalzava, il regime scricchiolava, ma Cassino si preparò ad accogliere solennemente il ministro Bottai. All’inizio dello Stradone (oggi Corso della Repubblica) fu posto un grande striscione: “Dite al Duce che gli vogliamo un sacco di bene”. Ci furono sfilate, giochi ginnici, fanfare, esibizioni di impettite signore in camicia nera, un grande palco. E ci fu la premiazione. A me una piccola biblioteca in cui primeggiavano due titoli, ambedue con dedica autografa: “Parlo con Bruno” di Benito Mussolini (Bruno era il figlio del duce, caduto col suo aereo nel 1941) e “Quaderno affricano” (con doppia effe) di Giuseppe Bottai. Al secondo classificato, fatto venire a Cassino non so da dove, una bella mitragliatrice, un grosso giocattolo che faceva gola a un ragazzino quale io ero. Il confronto non sfuggì ai miei un po’ invidiosi compagni. E il mio ambìto premio finì inevitabilmente col  diventare oggetto di scherno.

(82 Visualizzazioni)