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Le vicende storiche
Le origini dell’abbazia sono state tramandate dai primi biografi del suo fondatore, l’abate benedettino Domenico di Foligno, proclamato santo e titolare della chiesa per acclamazione popolare da papa Pasquale II nel 11041.
I testi narrano un edificante episodio, secondo il quale Pietro di Rainerio, gastaldo di Sora, conoscendo la santità di Domenico, volle incontrarlo per confessargli i suoi peccati e farne ammenda. Convinto del pentimento dell’uomo, Domenico gli accordò il perdono pretendendo, però, ad ulteriore espiazione delle sue mancanze, la costruzione di un cenobio benedettino nel territorio sorano. Pietro acconsentì e donò al monaco il terreno che questi ritenne favorevole alla nuova costruzione, situato nel punto di confluenza del fiume Fibreno con il Liri, in località Inter formas (”Tra le forme”). Inizialmente Pietro introdusse nel nuovo monastero una comunità di monache, ma la condotta di queste fu talmente disdicevole che Domenico, dopo molte sollecitazioni e rimostranze, ordinò di allontanarle e di sostituirle con una comunità maschile. Pietro, mortificato dall’episodio, pregò, allora, lo stesso Domenico di guidare il monastero sorano e questi acconsentì restandovi per venti anni, fino alla morte, avvenuta nel 1031.
La committenza di Pietro ed il fatto che il primo abate del cenobio sia stato Domenico, sono confermate dallo stesso gastaldo nella prima delle sue donazioni fondiarie al monastero, datata 1030 e sottoscritta anche dalla moglie Doda, figlia di Oderisio, conte dei Marsi2.
Circa il periodo di fondazione della badia, taciuto dalle fonti, sussistono, invece, ancora molti dubbi. Due ipotesi, in particolare, hanno diviso gli storici: una datazione al 1030, sostenuta da Cesare Baronio negli ”Annales” sulla base del succitato strumento di donazione, e l’anno 1011, a cui fa riferimento anche la celebrazione del millenario.
La seconda ipotesi è, in realtà, un risultato matematico ottenuto sottraendo alla data di morte di Domenico, il 1031, i venti anni immediatamente precedenti che egli trascorse nell’abbazia sorana, secondo quanto si legge nelle sue biografie, ma non si ha alcuna certezza che il monaco abbia dimorato nel monastero per tanto tempo.
A tale proposito Dionigi Antonelli cita un documento di donazione al monastero di Trisulti, datato 25 agosto 1025, in cui Domenico risulta ancora abate di questo cenobio, da lui stesso fondato prima dell’incontro con Pietro3. La circostanza potrebbe, tuttavia, essere giustificata dal sistema monastico di Domenico ipotizzato da John Howe, in base al quale l’abate dirigeva personalmente tutte le sue fondazioni, ma per ovvi problemi pratici, vi si faceva rappresentare da responsabili scelti tra i monaci o da amministratori esterni, mentre lui viaggiava continuamente, spostandosi dall’una all’altra chiesa, monastero o oratorio, quando era richiesta la sua presenza4. Howe, in ogni caso, dà per certa la permanenza di Domenico nel monastero sorano, sebbene gli stessi biografi la descrivano come un caso eccezionale a cui Domenico non si adeguò di buon grado.
Molto più determinante nella confutazione dell’Antonelli è, invece, la prova che Pietro, definito sia da Alberico che dal monaco Giovanni, ”Sorae dominus” o “Soranus dominus” nell’episodio dell’incontro con Domenico, in realtà nel 1011 non era ancora successo al padre nel governo del gastaldato. In un passo del Chronicon Casinense, infatti, è riferita una donazione di Rainerio a Montecassino, databile tra il 1012 ed il 1021, in cui questi viene ancora nominato gastaldeus soranae civitatsi5.
Le perplessità di chi rifiuta una datazione al 1030 si basano su alcuni elementi interni alla donazione di Pietro e Doda e su un documento nel quale viene individuata una data ante quem rispetto a quella di fondazione del monastero. Lo strumento di Pietro e Doda fu promulgato nel settembre del 1030 e vi si legge che la badia era già stata costruita ed affidata a Domenico, in qualità di abate.
L’Antonelli è convinto che nello stesso anno non si sarebbero potuti verificare tutti gli episodi descritti nelle biografie di Domenico, ovvero l’introduzione della comunità femminile, le continue pressioni da parte del benedettino per porre fine allo scandalo, l’insediamento dei monaci e l’opera di convinzione di Pietro, affinché Domenico divenisse abate del monastero. A tali dubbi lo storico, in accordo con Mauro Cassoni, aggiunge il fatto che nel 1024 Pietro fece un’ingente donazione al cenobio di Sant’Elia, ritenuto una filiazione del monastero sorano6. Nessun documento, però, conferma che Sant’Elia sia stata una fondazione di Domenico; si sa che la chiesa faceva parte dei beni del suo monastero nel 1205, ma niente induce a pensare che ne sia stata una pertinenza fin dalla sua fondazione7.
A questo punto, scartata l’ipotesi del 1011 per le motivazioni su esposte, ammettendo che l’episodio delle monache possa essersi risolto in tempi brevi proprio per la sua la gravità e presupponendo che Pietro e Doda non aspettarono molto prima di fare la loro prima ingente e solenne donazione ad un monastero tanto importante per la loro pietà e per il prestigio sociale della loro casata, a mio avviso si puó ipotizzare una datazione tra il 1029 ed il 1030, senza andare più indietro nel tempo.
Domenico morì di malattia nel 1031 nel monastero di Sora e qui fu sepolto, come ci tramandano le ”Vite” e come conferma un documento del Cartario di Casamari, datato 1035, in cui il monastero è citato come il luogo in cui ”sacratissimus corpus Dominici tumulatum est”8. La prima ricognizione delle reliquie documentata dalle fonti risale al 1703 e fu voluta da papa Clemente XI.
Domenico eresse numerosi monasteri, chiese e romitori, avendone avuto facoltà da papa Giovanni XV9. La tradizione ci tramanda un uomo fortemente carismatico che fu autorizzato a costruire cenobi per soddisfare le esigenze di vita religiosa e comunitaria suscitate nei suoi numerosi seguaci, ma l’attività dell’abate riveste un’importanza che va oltre la semplice fascinazione collettiva limitata a luoghi e tempi circoscritti. Jhon Howe sostiene, infatti, che Domenico con le sue fondazioni, le sue relazioni sociali, la sua carica comunicativa e i suoi richiami ad una vita religiosa più pura e meditativa fu uno dei principali protagonisti di quella riforma della Chiesa, anche politica, che ebbe il suo acme con il pontificato di Gregorio VII, ma in maniera embrionale cominciò a serpeggiare già nel corso del X secolo10.
A proposito di Gregorio VII, Jean Bolland avanzò la teoria che avesse dimorato per qualche tempo nel monastero sorano. Il gesuita identificò con il futuro papa un monaco di nome Ildebrando, citato da Alberico di Montecassino tra coloro che si trovavano nell’abbazia quando il biografo vi si recò per chiedere notizie sulla vita di Domenico11. La notizia data dal Bolland è, però, assolutamente priva di fondamenti sia storici che documentari, nonostante ancora oggi continui ad avere dei sostenitori.
Tra le fondazioni di Domenico il monastero di Sora rivestì un’importanza particolare, non solo per il rinnovamento spirituale di cui la comunità fu portatrice, ma anche per la sua funzione politica e sociale, se si considerano il potere dei comittenti e le categorie sociali a cui appartenevano i donatori. Nobili, equites, borghesi, gente comune, artigiani, tutti contribuirono alla crescita del monastero e il suo prestigio divenne tale da assicurargli costantemente privilegi e protezione da parte della Santa Sede fino ad Innocenzo III.
Quest’ultimo nel 1205 emanò una bolla con cui, per difendere il beni del monastero da coloro che vi accampavano ingiustamente dei diritti, riconfermava ogni singolo possedimento, convalidava le libertà concesse dai suoi predecessori e dava ai monaci la facoltà di chiedere qualunque cosa occorresse loro alla Santa Sede con l’autorità del suo stesso nome.
Ma durante il pontificato del suo successore, Onorio II, la vita del monastero mutò radicalmente. Il pontefice si scagliò contro i vizi e la dissolutezza dei monaci di S. Domenico e nel 1222, con l’avvallo dell’imperatore Federico II deliberò di affiliare la badia a quella di Casamari, accorpata nel 1152 all’ordine di Citeaux12. Per il monastero sorano fu una doppia umiliazione. Non solo perdeva la sua autonomia, ma passava alle dipendenze di una sua stessa filiazione; i primi benedettini di Casamari infatti, avevano ricevuto l’abito proprio dall’abate di S. Domenico nel 103613.
Come scrisse l’abate Cassoni, con parole accorate, ”quella che una volta fu Madre, si vide divenir figlia della sua figlia”14.
Intorno al 1472 l’abbazia di Casamari e quella di S. Domenico furono date in Commenda ed entrambe soffrirono delle ristrettezze economiche di questa condizione. Il convento di S. Domenico rimase privo di monaci e la chiesa fu officiata in maniera irregolare. Per molto tempo fu addirittura il monaco curato del vicino monastero di S. Silvestro a rivestire il ruolo di priore della badia di S. Domenico, che, praticamente abbandonata, continuò inesorabilmente a decadere15.
Nel 1653 l’abbazia fu chiusa definitivamente e nel 1682 il complesso doveva apparire così fatiscente da attirare l’attenzione del pontefice Innocenzo XI che ne ordinò personalmente il restauro. L’edificio, tuttavia, dovette essere di nuovo lasciato a se stesso se nei primi anni del XVIII secolo fu ancora bisognoso di lavori, questa volta disposti da papa Clemente XI, che si interessò anche alla ripresa del culto di San Domenico con una solenne ricognizione delle reliquie.
I periodi di rinascita del monastero continuavano, tuttavia, ad essere di breve durata. Dopo essere stato nuovamente abbandonato, parve tornare a nuova vita nel 1717 con la venuta dei monaci Trappisti, insediati a Casamari dal cardinale commendatario Annibale Albani. Ben presto però, anche questi smisero di occuparsi di S. Domenico per le difficoltà economiche dovute alla commenda, e la badia fu ancora una volta trasferita sotto la giurisdizione del parroco di S. Silvestro.
Nel 1799 i soldati di Napoleone Bonaparte rivolsero alla chiesa la loro furia dissacratoria. In quell’occasione solo il tempestivo trasferimento delle reliquie di San Domenico nella chiesa di Santa Restituta evitò che queste andassero per sempre perdute.
Un nuovo periodo felice sembrò schiudersi nel 1831 quando l’abate di Casamari, Sergio Micara, riuscì a riottenere in commenda il monastero da Ferdinando I e dopo averlo fatto restaurare ed abbellire con nuovi arredi e decorazioni, vi stabilì una colonia di monaci, permettendo di nuovo che tornasse a funzionare come chiesa e come convento. Finalmente nel 1850 Ferdinando II restituì il monastero al Capitolo Vaticano in cambio dell’Abbazia di S. Pietro di Licosato e di San Nazario di Cuccaro in provincia di Salerno, ma di lì a poco la badia fu costretta a subire un nuovo colpo16.
Nel 1861, con la nascita del Regno d’Italia, ai territori annessi alla corona sabauda vennero estese le leggi Siccardi, convalidate più tardi dalle leggi ”eversive”, con le quali si decretava la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni da parte del Demanio. Nel 1862 fu imposto il sequestro dei beni del monastero ”nella considerazione che le rendite erano devolute a beneficiati non cittadini italiani, né dimoranti nel territorio italiano” . I beni del monastero furono restituiti al capitolo Vaticano solo nel 1870, in seguito all’annessione di Roma, ma con un ”aggiusto di rata”, ovvero con trattenuta delle rendite precedenti alla restituzione. Il Capitolo, allora, intentò una causa contro il Regio economato dinanzi al Tribunale di Cassino, sostenendo che il Governo non aveva il diritto di incamerare beni che, pur trovandosi nel territorio del Regno, erano di fatto di proprietà dello Stato della Chiesa, e rivendicò tutte le rendite dall’epoca del sequestro in poi17.
L’ultima prova subita dall’abbazia fu il violento terremoto che colpì la Marsica nel 1915, causando danni e vittime anche in gran parte del Lazio meridionale; la città di Sora fu devastata e l’abbazia seriamente danneggiata, ma stavolta, compiuti i necessari restauri, essa poté riprendere e proseguire senza nuove interruzioni la sua vita spirituale e la sua attività pastorale. Il 22 gennaio 1935 il vescovo Agostino Mancinelli la eresse a parrocchia ascrivendole la cappellania di S. Antonio di Padova in località Tofaro e quella della Madonna del Buonconsiglio, conosciuta dagli abitanti del luogo con il tradizionale titolo di Madonna delle Mele18. I locali del monastero divennero sede di formazione teologica e fino al 1971 collegio per giovani avviati alla carriera ecclesiastica19.
L’importanza storica e religiosa dell’abbazia è stata recentemente riconosciuta dalla Congregazione per il Culto Divino e per la Disciplina dei Sacramenti, che nella persona del Cardinale Prefetto Antonio Canizares Llovera, il 12 febbraio 2011, le ha concesso il titolo di “Basilica Minore”.
Le vicende architettoniche
L’abbazia è costituita da una chiesa e da un secondo corpo di fabbrica comprendente i locali ad uso dei monaci che assieme al muro di cinta delimitano il chiostro.
La chiesa ha un impianto basilicale a tre navate, terminanti ciascuna con abside, e presenta un presbiterio rialzato sulla cripta, al quale si accede mediante un’ampia scala centrale. L’interno riceve luce da finestre ad ogiva aperte in corrispondenza della navata centrale. Le tre absidi, alleggerite da monofore, sono decorate esternamente con archetti pensili poggianti su peducci. La cripta ha volte a crociera sostenute da sedici colonnine realizzate con elementi di spoglio, e quindi di ordine e materiale diversi, ed è illuminata da finestrelle ad arco aperte sulle absidi.
Nella costruzione della chiesa furono impiegati materiali di epoca romana provenienti da monumenti funerari esistenti nella zona che di per sé riveste una grande importanza archeologica anche per i rinvenimenti successivi. Alcuni storici hanno voluto individuare nel luogo in cui sorge il complesso monastico il sito della villa natale di Marco Tullio Cicerone in base alla descrizione che lo stesso oratore dà del proprio luogo natale nel secondo libro del De Legibus. Nel brano Cicerone colloca la villa eretta da suo padre su un’isoletta formata da due rami del Fibreno prima che questi si ricongiungano per confluire nel Liri. La dettagliata rappresentazione topografica non coincide, però, interamente con la morfologia del territorio presso S. Domenico e qualcuno, anzi, la riferisce ad una località poco distante denominata Carnello. La questione, trattata da molti storici, è ormai secolare – lo stesso Cesare Baronio vi allude senza tuttavia dare conclusioni certe – e continua ad essere controversa20.
Ciò che oggi vediamo della chiesa è il risultato dei lavori del secolo scorso che hanno tentato di riportare l’edificio alla struttura originaria in stile gotico-lombardo.
Già all’epoca dell’affiliazione con l’abbazia di Casamari, i cistercensi potrebbero aver costruito un portico, a cui apparterrebbe il pilastro sistemato sul sagrato della chiesa, ma almeno fino agli inizi del XVIII secolo la chiesa dovette conservare il suo antico aspetto, a giudicare dalla descrizione che ne fa Filippo Rondinini nel 1707 e dalla piantina che la correda. La chiesa a quell’epoca appariva ancora semplice, spoglia, priva di altari laterali e di pitture, fatta eccezione per l’affresco absidale realizzato su commissione del cardinale commendatario Scipione Borghese. Dalla piantina si deduce che la chiesa aveva un unico ingresso sulla facciata21.
Fu a partire della metà del XIX secolo che le modifiche divennero avventate al punto da snaturare quasi completamente l’edificio.
Nel 1842 l’architetto Luigi De Medicis elaborò per l’abate Macario Baldelli un progetto che mirava a dare slancio alla chiesa con l’allungamento dei pilastri e la realizzazione di volte in stile gotico, mentre la scala di accesso al presbiterio sarebbe stata sostituita da due rampe nelle navate laterali. Quanto fu effettivamente realizzato in quell’occasione non è documentato con precisione, ma sappiamo che da quel momento in poi, soprattutto durante il priorato di Bonifacio Castaldi, fu un susseguirsi di architetti, progetti ed interventi azzardati, confusi, non completati o vanificati da ripensamenti successivi, che quasi mai rispettavano le caratteristiche dell’antica struttura, e pertanto furono spesso oggetto di contrasti con l’opinione pubblica, gli addetti ai mestieri e le istituzioni competenti22.
Due immagini precedenti al terremoto del 1915 mostrano l’interno della chiesa e la facciata dopo i restauri voluti dal Castaldi: l’interno presentava volte in stile gotico, decori in stucco e due rampe curvilinee in sostituzione della scala centrale che racchiudevano l’ingresso della cripta; nel catino absidale un nuovo affresco, verosimilmente coevo, copriva quello citato dal Rondinini. La facciata era costituita da un tozzo rettangolo scandito da quattro lesene e sormontato solo nella parte centrale da una sorta di timpano curvilineo. Ai lati del rosone si trovavano motivi circolari entro cuspidi, che forse in precedenza costituivano delle aperture.
Dopo il terremoto la Soprintendenza ai Monumenti di Napoli decise con determinazione come ovviare ai danni, non solo provocati dalla calamità naturale, ma anche dall’incompetenza di chi aveva voluto i precedenti rifacimenti. Si realizzò la copertura con capriate a vista, fu eliminato quanto era stato aggiunto di posticcio e si spostarono le scalinate del presbiterio nelle navate laterali. Le pareti ed i pilastri furono decorati con finto travertino e si riportò alla luce l’affresco secentesco raffigurante la Madonna assunta tra gli angeli. Dopo un altro lungo ciclo di restauri la chiesa è stata riaperta nel 1994 con l’interno nuovamente modificato, ma più vicino alla struttura originaria. Tolta la decorazione in travertino e ricostruita la scala centrale del presbiterio finalmente la chiesa è tornata ad essere quell’organismo compiuto e misurato, dall’aspetto semplice e austero, che il sentimento artistico e religioso dell’XI secolo ispirò ai suoi costruttori.
1 I primi biografi di Domenico furono il monaco Giovanni, suo fedele accompagnatore in tutti i viaggi e Alberico di Montecassino. Per i testi si consultino: S. Dominici Sorani Abbatis Vita et Miracula a Coaevis Conscripta, in Analecta Bollandiana I, 1882; A. Lentini, La ”Vita S. Dominici” di Alberico Cassinese, in Benedectina 5, 1951. Si veda inoltre: L. Jacobilli, Vita di S. Domenico da Foligno, Abbate dell’Ordine di S. Benedetto, Foligno 1645.
2 Il documento di donazione è riportato da C. Baronio in Annales Ecclesiastici, Anversa 1608, Tomo XI, p. 102
3 D. Antonelli, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella Diocesi di Sora nel Medioevo (Secc. VIII-XV), Sora 1986, p. 210; A. Talenti, La Certosa di Trisulti, Casamari 2002, pp. 15 sgg.
4 J. Howe, Riforma della Chiesa e trasformazioni sociali nell’Italia dell’XI secolo. Domenico di Sora e i suoi patroni, Sora 2007, pp. 93-97.
5 D. Antonelli, Abbazie, prepositure …, p. 212.
6 D. Antonelli, Abbazie, prepositure …, p. 210; Mauro Cassoni, Sguardo storico sull’abbazia di S. Domenico di Sora, Sora 1910, pp. 10-13.
7 La chiesa di S. Elia è citata tra i beni riconfermati al monastero in una Privilegio di Innocenzo III riportato da D. Antonelli in Abbazie, prepositure …, p. 383.
8 F.Farina, B. Fornari, Storia e documenti dell’Abbazia di Casamari: 1036-1152, Casamari 1983, p. XV.
9 F. Tuzi, Memorie istoriche massimamente sacre della città di Sora, Roma 1727, p. 45.
10 J. Howe, Riforma della chiesa …p. 181.
11 M. Cassoni, Sguardo storico …, p. 15.
12 C. Baronio, Annales …, Tomo XI, pp. 104-105; F. Farina, B. Fornari, Storia e documenti …, pp. 84 sgg.
13 C. Baronio, Annales …, p. 103.
14 M. Cassoni, Sguardo storico …, p. 27.
15 È opinione comune che il monastero di S. Silvestro a Sora sia stato fondato da Domenico (Cfr. Gaetano Squilla, La chiesa di S. Silvestro in Sora, 1981; Filippo della S. Famiglia, Presenza e testimonianza degli Ordini e Congregazioni religiose a Sora, Casamari 1974). La convinzione, a mio avviso, si basa sull’errata interpretazione di una notizia data da Cesare Baronio negli Annales Ecclesiastici: Lo storico, dopo aver riportato la donazione di Pietro di Rainerio e Doda scrive ”Porro idem vir pietate insignis anno superiori aliud erexerat monasterium ad maiorem civium commoditatem civitati proximum, sub titulo S. Silvestri ad radicem montis, cui ipsa adiacet civitatis […]. Insuper sunt in eodem codice venerandae antiquitatis et aliae plures donationes eiusdem Petri aliis factae monasteriis …” (Cfr. C. Baronio, Annales …, Tomo XI, p. 103.) Gaetano Squilla riferì vir pietate insignis a Domenico, ma in realtà il soggetto del discorso è ancora Pietro di Rainerio, a cui infatti si allude dopo poche righe (eiusdem Petri, dello stesso Pietro). Anche il desiderio di dare ai cittadini un cenobio vicino al centro abitato sembra essere più pertinente al gastaldo che non ad un benedettino dedito alla meditazione e alla costruzione di romitori. In ogni caso nessuna delle fonti sinora disponibili documenta che Domenico abbia eretto altri luoghi di culto nel territorio di Sora, nè vi si fa cenno nelle ”Vite” del Santo.
16 M. Cassoni, Sguardo storico …, pp. 29 sgg.; F. Farina, F. Calò, San Domenico e la sua abbazia, Casamari 2005, pp. 20 sgg.
17 Archivio Storico Diocesano di Sora-Aquino-Pontecorvo (=A.S.D.S), Fondo Diocesi Sora-Aquino-Pontecorvo, L, 124.4.
18 A.S.D.S, Fondo Diocesi Sora-Aquino-Pontecorvo, D, I, 18.
19 F. Farina, F. Calò, San Domenico …, pp. 41-42.
20 Notizie sulla villa natale di Cicerone si trovano in M. Cassoni, La villa natale di Cicerone e i vari possessori della medesima: breve studio storico-critico, Sora 1911; F. D’Ovidio, Di dov’era l’Arpinate? in ”Per Cesare Baronio: scritti vari nel terzo centenario della sua morte ”, Roma 1911; L. Loffredo, S. Domenico di Sora e i luoghi natali di Cicerone. Visite nel circondario, Frosinone 1981; A. Tanzilli, Antica topografia di Sora e del suo territorio, Isola del Liri 1982.
21 F. Rondinini, Monasterii sanctae Mariae et sanctorum Johannis et Pauli de Casaemario, Roma 1707, pp. 53-55.
22 Per notizie dettagliate sui restauri dell’abbazia si consultino: M. Giorgetti, Nuovi contributi per lo studio dei restauri nell’abbazia di S Domenico presso Sora, in ”Rivista Cistercense”, n. 3, 1992; R. Marta, E. M. Beranger, L’abbazia di S. Domenico in Sora, in ”Lunario Romani 1988”.
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