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Argomenti forti e ancora scomodi per molti, quelli trattati dal nostro Socio Fernando Riccardi, del Direttivo CDSC, nel suo ultimo libro; ma del resto gli stessi argomenti, con gli stessi appassionati toni, sono già in buona parte presenti sulle pagine di Studi Cassinati. Non racconta “storie” il nostro Riccardi: cerca documenti, scava negli archivi, scopre e rivela: di tal genere di ricerche ha fatto ormai lo scopo della sua vita. Anzi, possiamo dire che ha ingaggiato una vera e propria battaglia contro la storiografia ampiamente ed ufficialmente consolidata sulle origini della nostra unificazione nazionale. Molti storici di oggi, anche accademici, hanno iniziato a sconfessare quella che va sotto il nome di “vulgata”, ma lo fanno con una certa circospezione, forse nel timore di scostarsi troppo da quella storiografia per le scomode conseguenze che possono derivarne nel confronto di chi è ancora ossequioso all’epopea savoiarda dell’unità d’Italia.
Ma già nei primi anni Trenta dello scorso secolo Antonio Gramsci scriveva a proposito dello sfruttamento del Sud da parte del Nord: “La miseria del Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud, che il suo incremento economico industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale” (Lettere dal carcere). E, sempre Gramsci, nelle sue note su “Il Risorgimento” dai “Quaderni del carcere”, afferma ”Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto ‘disciplinato’ con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini, misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli ‘intellettuali’o ‘pagliette’, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni”.
E oggi il giornalista e storico Giordano Bruno Guerri, alle osservazioni di Gramsci, aggiunge: “Anche Francesco Saverio Nitti, politico meridionale, riteneva che “l’unificazione del mercato nazionale ha spezzato la schiena al Mezzogiorno” e sottolineava che il trasferimento al Nord dei beni espropriati alla Chiesa e all’ex Regno borbonico sembrò un vero e proprio “sacco”: le terre vendute dal demanio al Sud venivano comprate da “nordisti” e quasi sempre riacquistate dai contadini o dai possidenti meridionali che vi abitavano vicino; in questo modo il capitale scompariva dal Meridione senza alcuna resa in suo favore; lo Stato infatti investiva i proventi delle vendite nelle regioni dove maggiori erano le spese, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria. Per non dire che l’industria settentrionale ebbe buon gioco a vendere al Sud, senza concorrenza, prodotti che avrebbe venduto con maggiore difficoltà all’estero. Il divario Nord-Sud fu portato all’estremo dall’unità. Quelli che non volevano darsi alla malavita erede del brigantaggio e non avevano altre speranze furono spesso costretti a emigrare, spinti dalla crisi economica degli anni Ottanta, dalla stretta governativa degli anni Novanta, dalla crisi di inizio secolo, e attratti dalla grande richiesta dell’industria americana, dai territori spopolati del Sudamerica, dall’ignoto universo dell’Australia.” (Antistoria degli italiani, Mondadori, 2009).
Infine, di questi giorni, un giornalista, politicamente schierato ma non incline a mistificazioni storiche, Paolo Granzotto, ad un lettore de “Il Giornale”, che faceva raffronti tra la crisi economica odierna e quella postunitaria e che chiedeva: “…i Savoia il loro deficit lo crearono perché avevano un ideale: unire la Nazione. Che ideale avevano invece i Borbone nel lasciare enormi somme di danaro nelle banche, mentre il loro popolo soffriva? Meglio i Savoia, non crede?” (Pietro Pisu da Cagliari), risponde: “Per il debito pubblico, caro Pisu, vale il detto “l’appetito vien mangiando”. Un appetito che si manifesta dopo aver servito non dico il primo piatto, ma gli stuzzichini dell’aperitivo. E quegli stuzzichini datano 1876.
Per quanto riguarda le casse, il pubblico danaro del Regno delle Due Sicilie incamerato dai piemontesi mezz’ora dopo Teano, non pensi ch’io abbia da obiettare. Nella Storia come nella vita la regola è sempre quella: chi vince si prende tutto il piatto. Se poi si trova anche l’occasione di affermare che lo si è portato a casa, il piatto, per un ideale, tanto di guadagnato. Pecunia non olet, d’accordo: ma dargli una spruzzata di Chanel idealistico non guasta.
Bello però sarebbe stato se almeno una parte di quel grisbì fosse poi tornato, sotto forma di investimenti e di politica sociale, nel Meridione. E invece, non una lira. Ciò che ha determinato quella che chiamiamo questione meridionale e che ancor oggi abbiamo sul groppone.
Come vede, caro Pisu, a parte qualche dettaglio, sul grosso della questione siamo d’accordo. O quasi. Non mi va giù quel “mentre il loro popolo soffriva”. Chi glie lo ha detto? Non le sembra che a Italia fatta e strafatta sia ora di mettere in archivio la vulgata che chiama redenzione (o se preferisce “intervento umanitario”, che oggi va di moda) quella che è stata una annessione? Napoli, caro Pisu, era una capitale “europea”, splendida, ricca di teatri, di magnifici edifici, di salotti letterari e cenacoli intellettuali, di ospedali funzionanti e di biblioteche, con una università che il mondo invidiava. Fiorivano nel Regno industrie meccaniche e tessili, opifici, manifatture.
E crede lei che il contadino di Cuneo stesse meglio, avesse un tenore di vita superiore a quello del contadino di Afragola? Che il badilante piemontese potesse contare sulla mutua, il contratto di lavoro, le ferie pagate, l’assistenza sanitaria, la rappresentanza sindacale, privilegi negati dal Re Bomba al badilante campano o calabrese? Crede lei che la giustizia sabauda fosse più “giusta” o clemente o equanime della giustizia borbonica? Che sotto le Alpi ci fosse meno analfabetismo che sotto il Vesuvio? Si prenda il piacere di informarsi, caro Pisu: di saggi sulla realtà del Meridione preunitario ne troverà in libreria quanti ne vuole. E vedrà che lettura interessante” (“Il Giornale”, 14 agosto 2011).
Queste citazioni hanno solo lo scopo di mostrare come ci si approccia con animo diverso, rispetto alla storiografia “ufficiale”, alle questioni sollevate dall’annessione delle terre del centro e del sud al resto d’Italia.
La nostra non è una scelta di campo, che scientificamente qui non avrebbe senso. Però non sta a noi ripetere le ragioni di quella storia che si va criticando e che è su tutti i testi scolastici, è nelle trasmissioni radio-televisive, è nella retorica delle celebrazioni ufficiali di quest’anno. Se le andassimo a riprendere non diremmo nulla di nuovo, dunque il nostro compito di ricerca e di dibattito risulterebbe del tutto inutile. Tuttavia possiamo dare tutto lo spazio necessario su queste pagine a chiunque volesse addurre argomenti di segno contrario, nello spirito di dibattito costruttivo.
Ma leggiamo come si riassume il testo Fernando Riccardi nella bandella di copertina del suo libro.
Fernando Riccardi:
“Brigantaggio postunitario. Una storia tutta da scrivere”
L’irruzione manu militari di Garibaldi prima e dei Piemontesi dopo nel Regno delle Due Sicilie determinò uno sconvolgimento epocale che ben presto deflagrò in tutta la sua virulenza.
Per dieci lunghi anni, dal 1860 al 1870, ed anche oltre come attestano recenti studi, nel meridione d’Italia bruciò inarrestabile il fuoco della rivolta contro lo straniero invasore sceso dal nord a “civilizzare” quella landa inospitale popolata da sudici “affricani”, vittime inconsapevoli di un regime perverso, retrogrado ed autoritario.
Da un lato, dunque, i soldati del re sabaudo che uccidevano, bruciavano e stupravano in nome della libertà e della fratellanza, dall’altra i briganti che cercavano disperatamente di difendere la loro dignità di meridionali dalle grinfie di un branco famelico e feroce di lupi. Ne venne fuori una lotta aspra, senza quartiere, terribile, con il sangue che colò a fiotti sull’uno e sull’altro fronte.
Una vera e propria carneficina che fece inorridire l’intero continente europeo che pure rimase immobile a guardare e gli stessi nuovi governanti “unitari” i quali, a più riprese, denunciarono in Parlamento orrori, massacri e bestialità inaudite. Eppure, per tantissimo tempo, di tutto ciò non si è parlato, al di là di qualche fugace ed anche improprio accenno.
Sulla atroce guerra civile che insanguinò il meridione d’Italia calò fitto ed impenetrabile il velo dell’oblio. Fino a quando qualcuno iniziò a scavare negli archivi, a tirar fuori documenti, a leggere carte ingiallite e consunte ma dal contenuto inequivocabile, almeno quelle che erano sopravvissute al “naufragio”. E allora la verità è cominciata a venire a galla. E nessuno ha più potuto nascondere i fatti.
Questo libro, frutto di lunghe e approfondite ricerche negli archivi dell’Italia meridionale, vuole ricostruire la vera storia del brigantaggio postunitario, “una storia ancora tutta da scrivere”. Attraverso alcuni flash, rapidi ma incisivi, viene messo a nudo in tutti i suoi variegati aspetti un fenomeno controverso ma drammaticamente reale che troppi, ancora oggi, osservano con la lente del pregiudizio.
Un fenomeno che “fa parte a pieno titolo della nostra storia e gli uomini che per esso morirono e soffrirono concorsero pur essi in qualche modo a determinare le ulteriori vicende del nostro paese”.
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