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La travagliata storia del brigantaggio post-unitario non è fatta soltanto di accadimenti epici, di palpiti e di pulsioni ideologiche. Non fu sempre la lotta strenua e senza speranza del contadino meridionale che voleva un pezzo di terra tutto suo da lavorare. Quella terra che Garibaldi aveva promesso ai ceti più poveri e che invece finì nelle grinfie della vorace classe borghese. A volte, infatti, ci furono episodi e vicende molto meno eroici ai quali non puó certo darsi una connotazione politica.
In quel travagliato e lungo decennio ci fu anche chi, profittando della situazione, si lasciò prendere la mano dagli istinti più brutali, andando ad infoltire la già cospicua schiera dei delinquenti comuni. Quelli che sono sempre esistiti in qualsiasi epoca e che sempre esisteranno ad ogni latitudine.
I piemontesi, ad onor del vero, fecero di tutta l’erba un fascio e colpirono con la stessa implacabile durezza sia questi ultimi che gli altri, quelli che lottavano veramente per un ideale e che furono la gran parte, almeno nella fase iniziale della rivolta. Quando si trattò di sparare e di ammazzare i soldati sabaudi non si fermarono di certo a riflettere né a disquisire sulla vera natura del meridionale che si trovavano di fronte. D’altro canto essi erano scesi dal nord per portare civiltà e benessere in quella terra “d’Affrica” e quei rozzi “affricani”, quei luridi “caffoni”, che facevano? Si erano messi di traverso e cercavano di impedire con tutti i mezzi l’avanzata del progresso. Cose da pazzi … Ma, d’altro canto, di più non ci si poteva aspettare da incivili aborigeni che, secondo l’esimio prof. Lombroso, erano delinquenti nati, geneticamente tarati come si direbbe oggi. A ben vedere fu proprio questa incapacità di discernimento, fortemente voluta per altro, unitamente alla volontà di considerare la parte meridionale della Penisola una terra di conquista da bonificare e un osso da spolpare a tutti i costi, a far sì che la guerra civile nel sud d’Italia si mantenesse in vita per dieci lunghi anni ed anche di più. E che non si trattasse solamente di una questione di ordine pubblico fu evidente anche ai componenti del neo governo unitario che, a più riprese, invocarono commissioni d’inchiesta e radicali mutamenti di rotta.
Il solco, però, era stato tracciato e niente poteva arrestare la spietata opera di normalizzazione. Un’opera che comportò costi elevatissimi e che, soprattutto, lasciò insoluto il problema. Se ancora oggi si parla di una “questione meridionale” ben lungi dall’essere risolta, ebbene i germi di tale clamoroso ritardo vanno ricercati proprio in quel difficile decennio che seguì l’unità d’Italia quando, invece di indagare sulla vera natura della rivolta contadina che infiammava le lande del sud, si preferì armare eserciti e varare leggi, spesso inique e inadeguate. E così la protesta fu debellata, sia pure in un mare di sangue, ma i problemi restarono tutti lì, tragicamente irrisolti. Adesso, però, mettendo da parte le analisi, è giunto il momento di venire ai fatti.
È mia intenzione tratteggiare, infatti, le “gesta” di un personaggio che “brigante”, inteso ovviamente nell’accezione più negativa del termine, lo è stato per davvero. Stiamo parlando di Francesco Piazza, detto “Cuccitto” (o Cucitto), originario di Mola, l’odierna città di Formia.
Nato in un’umile famiglia dove a stento si riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena, ben presto era entrato a servizio della facoltosa famiglia Spina. Qui ebbe la fortuna di sbarcare decentemente il lunario senza soffrire, come tanti altri, i morsi della fame. Dopo il 1860, con lo sfaldamento del regno borbonico e i progressi della ricca classe borghese, le cose per la famiglia formiana, come per tutti i “galatuomini” del meridione che erano stati abili e pronti a cambiare versante schierandosi decisamente dalla parte dei piemontesi, iniziarono a girare per il verso giusto tanto che uno dei suoi rampolli più in vista, Francesco, venne nominato sindaco di Mola. Nel frattempo, però, l’altro Francesco, ossia Cuccitto, aveva già preso il volo. Radunata una piccola masnada, quasi tutti legati da vincoli di parentela (“una famiglia di belve che aveva spaventato per la sua immoderata sete di sangue, orribile crudeltà, mostruosa libidine e cupidità di pecunia tutto il paese che lambe la frontiera”1) si era posto a capo di essa ed aveva iniziato a rubare e a taglieggiare. “Datosi alla montagna formò una banda di venticinque individui ed operando nella zona da Traetto a Pontecorvo e da Itri al Garigliano, consumò assassinii, violenze e furti”2.
La prima azione eclatante si ebbe il 25 agosto del 1861 quando la banda di Cuccitto sequestrò don Giuseppe Fortunato, comandante della Guardia Nazionale di Campodimele mentre rientrava in paese dopo essere stato a rapporto dal giudice mandamentale di Fondi. Sequestro che poi si risolse nel migliore dei modi con il rilascio del prigioniero. Da allora ci fu un susseguirsi pressoché ininterrotto di “imprese” che ben presto resero Francesco Piazza il brigante più temuto del comprensorio. I suoi vecchi benefattori si adoperarono molto per farlo tornare sulla strada della legalità.
Molto si dette da fare, in particolar modo, il sindaco Francesco “onde indurlo a presentarsi alla giustizia unitamente ai suoi compagni. E ad ottenere un tal scopo ebbe anche dei segreti colloqui nella propria casa col detto Cuccitto a cui promise di ottenere l’impunità dei commessi reati. Ma questi finse di acconsentire per trarre così nella sua casa lo sciagurato sindaco e sfogare contro di lui la sua brutalità. Per la qual cosa gli disse che egli sarebbe ritornato presso i suoi passi e quando il tutto sarebbe fissato per la loro presentazione gliel’avrebbe fatto sapere. In tale circostanza molte persone fermate ed affezionate al sindaco lo pregavano a non volersi affidare con tanta facilità a quel ribaldo, anzi Raffaele Scaringi li avvisò da parte del malfattore Bernardo Conte che non si fidasse del Cuccitto perché questi aveva deciso di ucciderlo”3.
L’ingenuo sindaco, però, non tenne conto dei consigli e degli avvertimenti e volle andare avanti per la sua strada, convinto di poter risolvere in maniera definitiva, e soprattutto incruenta, la vicenda. E invece, purtroppo per lui, si sbagliava di grosso. “Nel mattino del 4 dicembre 1861 un vecchio sconosciuto gli recò una lettera con la quale il Cuccitto lo premurava di condursi nella contrada Piroli poiché voleva presentarsi. Appena ricevuto un tal foglio il sindaco si condusse dalle autorità e si fece rilasciare un passacondotto pel malfattore Cuccitto e poscia senza por tempo in mezzo si recò col suo legno nel luogo del convegno. Ivi giunto si mise ad attendere quel ribaldo ed, inoltratosi verso la montagna di S. Angelo, venne sequestrato dal Cuccitto e suoi compagni, i quali stavano colà appiattati, attendendolo da più tempo. Catturato che l’ebbero, si avviarono verso la selva di Fondi, ove giunsero al far della sera”4.
Era, come abbiamo visto, il 4 dicembre del 1861. Per circa un mese del sindaco di Mola non si ebbero più notizie malgrado le incessanti perlustrazioni dei soldati piemontesi, delle guardie nazionali e delle iniziative della famiglia che premeva per ottenere la restituzione del congiunto. “Per la qualcosa, volendone i parenti procurare il riscatto per via di denaro, incaricarono Andrea Conte ed Antonio Nunziante di recarsi in unione della moglie di esso Cuccitto a pregare costui di rimettere in libertà il sindaco, pagando qualunque somma. Gli incaricati si condussero presso quel perfido, ma lo supplicarono invano, perché lo stesso disse ‘no non vene più a Mola’ e nel proferire queste parole mostrò loro la barba bianca del disgraziato sindaco e poscia impose agli stessi di subito ritornare in patria e recare tale nuova”5.
Si attivò anche un fratello del sequestrato, don Pietro Spina, superiore di un ordine monastico, che interessò della questione il vescovo di Frosinone il quale, a sua volta, fece contattare il celebre brigante sorano Luigi Alonzi, alias Chiavone. Quest’ultimo inviò un suo uomo di fiducia ad incontrare Cuccitto per ottenere il rilascio del sequestrato. Anche tale mossa, però, non sortì gli effetti sperati anche perché, ormai, era troppo tardi. Lo stesso Chiavone, che aveva ricevuto da un brigante della banda Cuccitto, tale Giuseppe Gallozzi, una lettera dal contenuto inequivocabile6 al riguardo, suo malgrado fu costretto a riferire al prelato di non poter essere di aiuto in quanto al povero sindaco di Mola era già stata “spiccata la testa dal busto”.
Il 21 gennaio del 1862, nei pressi di Fondi, nel luogo detto “Macchia degli Itrani”, un tale Vincenzo Conte fece la macabra scoperta. “… in un luogo remoto e diruto… fu rinvenuto un cadavere, già fatto quasi scheletro, colla testa mozza. Il tronco aveva una spalla rotta, e immense lividure ed escoriazioni manifestavano che quel corpo umano era stato orribilmente battuto e lacero prima di essere spento. Il cranio mancava di tutti i denti, che erano stati strappati a forza, mancava pure del labbro superiore e di tutta la parte bassa e pelosa del mento. I medici che fecero l’esame di quello scheletro, dalla statura e da altri segni constatarono quell’informe cadavere essere il corpo del Sindaco di Mola. In ultimo si è saputo che il labbro superiore coi baffi, il mento col pizzo si conservavano dal custode principale dell’ospedale di Terracina, e da esso si mostrano ancor oggidì ai proseliti del brigantaggio con barbara compiacenza. Trofeo infame di più infame vendetta, ordinata dal comitato sanfedista, consumata da un mostro7”. Così Alessandro Bianco di Saint Jorioz descrive il ritrovamento del corpo del sindaco di Mola. Dell’orrendo delitto venne subito accusato Cuccitto che pure, per tanti anni, era stato accolto benevolmente in casa Spina. Secondo il conte torinese l’omicidio venne ordinato dalla centrale legittimista di Roma che volle vendicarsi di una famiglia da sempre liberale e, perciò, avversa ai Borbone. “Egli assassinò vilmente il suo benefattore; tolse alla sua vittima il mento colla barbozza grigia e la portò a Roma per attestare ai reazionari il compiuto assassinio, e per più giorni portò seco quest’orribile avanzo ed a molti il mostrò in Roma, come i selvaggi dell’Africa attestano le loro vittorie e i loro trionfi col numero delle capigliature che hanno scalpellate8”.
Nelle parole del Saint Jorioz, ritorna ancora una volta, come è facile constatare, il riferimento ai “selvaggi dell’Africa”, questa volta con una effe sola. Il mandante, almeno secondo il Saint Jorioz, sarebbe stata la centrale legittimista capitolina che brigava per riportare sul trono di Napoli Francesco II di Borbone attraverso la rivolta popolare o brigantesca che dir si voglia. Ipotesi poco probabile, anche perché è difficile individuare gli effettivi vantaggi che i cospiratori borbonici avrebbero potuto procurare alla causa con un così efferato delitto.
Molto più aderente alla realtà pensare che Cuccitto covasse nei confronti del sindaco Spina un forte rancore, magari maturato negli anni passati, e che lo abbia assassinato tentando poi di ammantare il tutto di una veste politica sperando così di ottenere in cambio una lauta ricompensa dai legittimisti romani. Sta di fatto che, compiuta cotanta impresa, Cuccitto, assieme alla sua banda, tornò a rifugiarsi tra le aspre montagne di Roccaguglielma (l’odierna Esperia), “una quantità di terreno scosceso, montuoso, ed in massima parte aspro e difficilissimo all’accesso per le macchie, i folti boschi e gli enormi ammassi di roccie che ingombrano quei monti, che da Itri vanno a Garigliano, e da Traetto a Pontecorvo”9. Da qui faceva partire le sue incursioni in direzione del litorale tirrenico e verso l’interno. Il gioco, però, non poteva durare a lungo anche perché i piemontesi erano fermamente intenzionati a neutralizzare il brigante.
E così un bel giorno Cuccitto, assieme alla moglie e ad alcuni compagni, fu sorpreso da un distaccamento di soldati francesi nei dintorni di Terracina. Dopo un violento conflitto a fuoco i briganti furono catturati e condotti a Roma. “Il bravo capitano Hoffner del 7° di linea francese lo attaccò nelle vicinanze di Terracina, uccise parecchi dei suoi e lo condusse prigione ove di poi ci fu consegnato. Fu incredibile l’allegrezza dei Terracinesi e di molti di quei paesi della frontiera nel sapere finalmente arrestato e reso impotente quel mostro di crudeltà e perfidia”10. Erano passati soltanto pochi mesi da quell’orribile delitto.
In seguito i prigionieri vennero consegnati al governo piemontese e richiusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quale fu la fine di Cuccitto? A tal riguardo le fonti non sono troppo precise. Nell’aprile del 1863 il tribunale Militare di Guerra di Gaeta istruì un processo contro 36 briganti che avevano operato nel territorio degli Ausoni tra i quali compariva anche Francesco Piazza.
Nel febbraio del 1864 la Corte di Appello di Napoli, dopo aver pronunziato il suo atto di accusa (dell’omicidio del sindaco di Mola Francesco Spina venivano ritenuti responsabili, accanto a Francesco Piazza, anche Pasquale Stravato, Angelantonio Stamegna, Luigi Mancini, Michele Mancini, Giuseppe Figliozzi e Francesco Soscia, tutti briganti appartenenti alla banda Cuccitto), trasferiva il procedimento alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, competente per territorio. L’atto finale spettò alla Corte di Assise di Cassino che per i suoi tanti misfatti probabilmente gli inflisse una condanna durissima, quasi sicuramente il carcere a vita. E così si concluse la carriera “brigantesca” di Francesco Piazza. Del quale il Saint Jorioz traccia il seguente profilo: “… è un uomo rozzo e brutto, grande e macilente, con barba ispida e capelli disordinati ed irti, il suo aspetto è truculento e ributtante, una vera figura da capestro… Fu un assassino nella più bassa espressione della parola, non un capobanda, nemmeno un brigante comune, fu una tigre11”. Persino il notabile torinese è costretto ad ammettere che Cuccitto non fu un “brigante comune”. E su ciò possiamo tranquillamente concordare. Anzi, per quel che mi riguarda, vado ancora oltre: fu uno spietato, crudele e feroce assassino. E su questo non ci piove. Il fatto è, però, che i Piemontesi, dopo il 1860, trattarono i briganti meridionali, anche quelli veri e che furono tantissimi, quelli che si battevano strenuamente per la dignità del sud, tutti allo stesso modo. Senza distinzione alcuna. Spietati colpirono scientemente nel mucchio e così, assieme ai pochi malfattori, annientarono la parte sana e vitale di una terra che appena qualche anno dopo venne completamente svuotata dall’emigrazione. Fu un errore di calcolo gravissimo, uno sbaglio marchiano del quale ancora oggi si avvertono nitide, ahimè, le conseguenze.
1 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, G. Daelli e C. Editori, Milano 1864, ristampa anastatica a cura di Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 2010, p. 178.
2 Enrico Lisetti – Giuseppe Rispoli, Briganti sugli Ausoni. Storia, leggi e processi nell’Ottocento, Caramanica Editore, Marina di Minturno 1994, p. 43.
3 Enrico Lisetti – Giuseppe Rispoli, op. cit., p. 179. In questo caso gli autori riportano fedelmente il verbale stilato dal cancelliere della Corte di Appello di Napoli che nel febbraio del 1864 aveva istruito il processo nei confronti di Francesco Piazza, alias Cuccitto, e di altri 35 briganti.
4 Enrico Lisetti – Giuseppe Rispoli, op. cit., p. 179
5 Enrico Lisetti – Giuseppe Rispoli, op. cit., pp. 179/180
6 Questo il testo della lettera inviata dal Gallozzi a Luigi Alonzi, alias Chiavone: “Stimatissimo D. Luigi, Francesco Spina sindaco e commissario di guerra nel comune di Mola gli è stata recisa la testa. La moschetta (la barba del mento, nda) del defonto è stata dal Cucitto portata a Roma, o Piazza alias Cucitto, al mio sentimento bene che il suddetto ha reso un servizio. Il defonto sindaco chiamò il Cucitto, egli voleva obligare di fargli formare una mossa, promettendogli una gran somma di dennaro che nella detta mossa doveva andare contri di noi pe distruggerci, e poi doveva obligare che doveva ammazzare anche voi; ma il Cucitto invece di farci il tradimento, gli ha ucciso; per cui credo bene che ha adempito al sacro dovere di ciò che ha praticato. Il fornitore diete il pane, per quel giorno che fu il combattimento ascende a scudi 11 e baj. 40. La persona che diete i fucili domanda il dennaro, non altro, con profondo rispetto mi segno per la vita D.mo Obl.mo Servitor vero Giuseppe Gallozzi”. Emidio Cardinali, I Briganti e la Corte Pontificia, Editori L. Davitti e C., Livorno 1862, ristampa a cura di Arturo Berisio Editore, Napoli 1971, volume secondo, p. 324. Al di là del periodare incerto e poco rispettoso della grammatica, è facile constatare come nella missiva si tratti della tragica vicenda del sindaco Spina e, soprattutto, si confermi l’avvenuta uccisione dal parte di Cuccitto.
7 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, op. cit., pp. 303-304
8 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, op. cit., p.177
9 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, op. cit., p. 304
10 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, op. cit., pp. 177-178
11 Alessandro Bianco di Saint Jorioz, op. cit., p. 177
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