Il 16 febbraio 1946 comparve nella prima pagina de IL POLITECNICO un articolo, per noi oggi molto interessante, Salvare i bimbi di Cassino, i quali si ammalavano di malaria e soffrivano per le conseguenze degli sfollamenti durati nove mesi, dal primo bombardamento aereo del 10 settembre 1943 al giugno del 1944. Per noi sopravvissuti, vedere il cielo sereno, non sentire più gli scoppi era un sogno. Ma restava la fame, una fame durata mesi, persistente e un manifesto desiderio di mangiare: lo ricordo bene e lo comprendo con tanta evidenza da certe fotografie dei miei del dopoguerra: un quadretto significativo ce lo fa Lucio Gabriele (vd.qui a pag. 60).
Mrs. Bourke White non lo credeva possibile, e chiese al mondo che cosa pensasse di fare. Non le rispose nessuno. Ora sono passati due anni, e le condizioni di vita nella zona di Cassino non sono migliorate, sono anzi peggiorate, sono diventate le condizioni di un’agonia. Chi passi di sera da quelle parti, vede ovunque fuochi sui pendii delle valli. Puó pensare che sia una festa; si avvicina, e ad ogni fuoco trova gruppi di uomini che abitano all’aperto (perché le caverne non bastano) e col fuoco si riparano dal rigore delle stagioni o della notte, ma non dalle zanzare e dalla malaria. Essi non hanno più risorse; non si sa di che si nutrono; sono vestiti di stracci o ignudi; e non hanno più nemmeno la forza di aiutarsi l’un l’altro come le vittime del nazismo nei campi di concentramento tedeschi. Per le vittime dei “Lager” si puó precisare di chi sia la colpa. Per costoro la colpa è invece di tutto il mondo: di chi non rispose niente già due anni or sono a Mrs. Bourke White e di ognuno che tutte le sere puó sedersi, lieto, al suo desco pur sapendo che un padre non ha più la forza a Cassino, di prendersi il proprio figlio sul collo e portarlo in salvo.
Sono circa ventimila bambini da salvare nella zona di Cassino. Tutti i bambini inferiori ai quattro anni sono già morti. I contadini dell’Emilia hanno ora offerto di accoglierli nelle loro case. Ma bisogna vestirli, prestar le prime cure, pagare il biglietto, fare per essi quello che i padri farebbero ancora se ne avessero ancora le forze”
Gabriele Lucio, Via Angelo Santilli, Roccasecca 2008, manoscritto, pp. 27, 28
“[…] Alla luce di una candela si giocavano lunghe partite a briscola, a volte alternate ai cosiddetti «pranzetti», una sorta di merenda preparata con qualsiasi cosa di commestibile si era riusciti a portar via furtivamente da casa o con frutta di stagione rimediata attraverso raid serali nelle vicine campagne. In rare occasioni, in assenza dei genitori, veniva organizzata a casa di qualcuno «la spaghettata», piatto unico ma con quantità tali da sfamare un esercito. A partire dal giorno successivo, dell’avvenimento venivano messi al corrente quanti non avevano avuto la fortuna di far parte della schiera dei commensali, con dettagli anche i più insignificanti, necessari per allungare il racconto, diversamente troppo succinto per la monotonia del menù: i sotterfugi per reperire gli ingredienti, le modalità di cottura, le quantità consumate da ciascuno con forchettate sproporzionate rispetto alla ricettività della bocca, commenti sui sapori e qualche correttivo da adottare in altra circostanza. Parlarne per un lungo periodo, sicuramente fino alla ipotetica prossima occasione, consentiva di coltivare il ricordo dell’evento e di fugare il dubbio che non si fosse trattato solo di un sogno.
Tali atteggiamenti, impensabili oggi e perfino poco credibili, erano ovviamente da attribuire alla guerra che, oltre alle macerie, ai bossoli, alle spolette, aveva portato soprattutto la fame […].”
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