1949: “I corridori ridestano i fantasmi della vecchia Cassino”

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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di Dino Buzzati


Riproponiamo una bella pagina di Dino Buzzati (1906-1972) che con rara maestria riesce a far sapere a tutto il mondo dello sport del 1949 ciò che era stato di Cassino nella seconda guerra mondiale. A quel tempo Buzzati era inviato del Corriere della Sera al Giro d’Italia. La sesta tappa Roma-Napoli, con passaggio per Cassino, fu vinta da Mario Ricci; Giordano Cottur conservò la Maglia rosa. Quel Giro fu vinto da Fausto Coppi, Gino Bartali fu secondo a 23’ 47’‘, Giordano Cottur terzo a 38’27’‘.
Corriere della Sera, Roma, 27 maggio notte 1949.


Perché l’antica e nobile Cassino non era oggi ad aspettare i corridori del Giro d’Italia in viaggio da Napoli a Roma? Sarebbe stato così gentile. Invece non c’erano le belle ragazze alle finestre, mancavano anche le finestre, mancavano i muri in cui le finestre si aprissero, non c’erano festoni di carta velina, policroma tesi tra le vecchie piccole case colorate in rosa, mancavano perfino le case, le strade, niente c’era tranne dei sassi informi cotti dal sole e dal colore biancastro e polvere, ed erbacce, sterpi, anche qualche alberello a significare che ormai là comandava la natura ovverosia la pioggia, il vento, il sole, le lucertole, gli organismi del mondo vegetale e animale ma non più l’uomo, paziente creatura che per molti secoli aveva là vissuto, lavorato, amato, procreato nell’intimità delle sue apposite abitazioni da lui costruite pietra su pietra e adesso invece niente, niente più esisteva.
Ma non c’era proprio nessuno più in quella gigantesca cicatrice bianca che risplendeva selvaggiamente al sole sul fianco della valle? Sì, c’era, ridotto in irriconoscibili frammenti, schegge d’ossa, o polvere, oppure ancora intero ma sepolto sotto i sassi informi. Un vecchio, forse, o una donna, o un giovane che non aveva voluto assolutamente muoversi di là quando le grosse artiglierie d’ultimo modello intrapresero la più pedantesca e totale demolizione che si sia mai vista al mondo, così che non restasse più neanche un moncone di muro alto due metri, neanche un minimo riparo dietro cui un soldato di bassa statura si potesse defilare, tutto spianato come alle origini del mondo: meglio anzi, perché alle origini vi si stendeva probabilmente una vegetazione d’alberi e cespugli.
“Il Giro?” rispondeva costui “ma noi qui di Cassino vecchia non siamo pronti e ci manca tutto per accogliere decentemente i corridori. Abbiate pazienza, non abbiamo più strade per farli passare, né occhi per vederli, né voci per gridare evviva e neppure mani per gli applausi”.
“Su, sorgete. Un momento solo. C’è Bartali, c’è Coppi. Non avete voglia di vederli, se non altro per curiosità? Basta mezzo minuto, su, un piccolo sforzo e poi tornerete al vostro sonno. Corrono forte i giganti della strada, si fa appena in tempo a guardarli e sono già passati,” (ma questa è una bugia perché oggi i giganti della strada, i divoratori di chilometri, le locomotive umane assomigliano piuttosto a neghittosi lumaconi).
“No, no, lasciateci dormire” rispondeva la voce “rivolgetevi agli altri, a quelli che son rimasti e un po’ discosto, vedete? dove la valle si allarga, stanno ricostruendo. Cassino nuova intendo. È già in piedi. Ci hanno dato dentro a lavorare, no?”
“Vediamo, sì, ma è un’altra cosa. Commovente, bellissima testimonianza della tenacia umana. Però queste nuove orrende architetture carcerarie non hanno niente a che vedere con la città di prima. Non sono neanche razionali perché in case così brutte la vita sarà sempre incomoda e triste. Non è Cassino, questa. È una creatura strana e diversa che fa risaltare ancora più crudelmente la cicatrice sul fianco della valle”.
“Capisco” diceva la voce “ma è troppo tardi. Se risorgessimo, anche per un minuto, la gente viva si spaventerebbe. Si ricorda di noi e ci vuol bene, purchè ce ne stiamo silenziosi e quieti sotto la terra. Troppo tempo è passato. Gli anni cancellano. Qui dove era la mia camera, il letto, l’immagine del santo, la pannocchia appesa al muro, lo schioppo, due o tre libri, il trespolo con la catinella, adesso c’è una pianta di nocciolo e i pettirossi saltellano sui rami. Meglio così, forse. E rinunciare al Giro”.
“The Giro? What’s that?” domandava allora, risvegliato dal clangore dei clacson e dallo strepito delle biciclette, Martin J. Collins, già soldato addetto al rifornimento munizioni ed ora per lui fantasma esangue qui stabilitosi per sempre (ci fu una bianca vampata, un polverone, uno schianto fortissimi e del bellissimo giovane non si trovò più nulla, neppure l’elmo, polvere insomma, anche lui ricordo astratto). E con fatica, dalla sua rustica tomba fatta di sassi e vento e sole, solleva la testa sonnolento.
“Was ist los?” domanda allora, a un metro da lui, il già feldwebel Friedrich Gestern, pur lui trasformato in pura rimembranza da un colpo magistrale. Dormiva, si è svegliato al fracasso delle macchine, si strofina, per vedere meglio, gli occhi stanchi. E anche altri si svegliano, invisibili a noi, lungo le prode ridiventate verdi, nelle vallette che oggi al sole di maggio posson sembrare altrettanti paradisi e cinque anni fa brulicavano di morti. Quanti sono! Un esercito di innumerevoli uniformi e razze commiste, uomini che si scannarono a vicenda ed ora vivono uno accanto all’altro in serenità, pacificati dal supremo armistizio.
“Nessun allarme” diciamo “è il Giro, brava gente, che non fa male a nessuno. Pedalano, faticano, cercano di correre (tranne oggi) più svelto che possono. E perché? Per niente. Per il gusto di arrivare primi, per la soddisfazione di quelli che stanno a vedere, perché l’uomo se in qualche modo non combatte diventa infelice. Ma forse, scusateci, non è cosa per voi. È vita, questa, nella sua forma più ingenua, clamorosa e per voi un po’ irritante, temo. Scusateci”.
“Si passava di qui. Se vi abbiamo svegliato, ci dispiace. Noi si voleva soltanto dare un saluto alla vecchia Cassino che non esiste più. E voi qualcosa ne sapete. Non abbiate paura, ce ne andiamo subito, poi non ci vedrete più per un anno almeno. Buon sonno ragazzi”.
E la carovana dei campioni (oggi non tali) sfilò con le sue voci profane ai piedi dell’orrenda cicatrice, scomparve nel verde paesaggio, ben presto non se ne udì neppure l’eco. Là, a Cassino, ripresero a martellare i muratori in fondo alla valle, riprese il tempo a passare sui rotti sassi delle macerie biancheggianti lungo il fianco del monte.
Le scarne larve si ridistesero, appoggiarono le guance alla pietosa terra, ripresero a dormire. E noi guardammo lo sciame dei corridori, così allegro con tutti quei colori di maglie e le biciclette scintillanti, guardammo la gente che palpitava d’ansia, gli agenti della polizia stradale che si affannavano a regolare la marcia del seguito, tutto quel piccolo mondo galoppava pazzescamente su per l’Italia. Il sole risplendeva, c’era caldo. Chiederanno “sempre tutti in gruppo?”.

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