Gli sfollati di Trocchio

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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di Anna Maria Arciero


La collina di monte Trocchio, in comune di Cervaro, per la sua posizione strategica, tra Montecassino e Montelungo, aveva rappresentato fin dall’8 settembre del ’43, per i tedeschi, il baluardo da difendere e, per gli alleati, il traguardo da raggiungere. Per ambedue le forze ne era basilare il possesso. E per tale possesso le due forze nemiche si combatterono aspramente la notte del 15 gennaio 1943.
Dal mattino seguente il crinale del monte fece da spartiacque non solo ai soldati – gli alleati impegnati a sminarne il versante orientale e i tedeschi a tenerne sotto mira, da Montecassino, la parte occidentale – ma anche al destino degli sfollati: quelli di S. Lucia mandati in Calabria, quelli di Foresta in “Altitalia”.
A S. Lucia, la contrada distesa sulla parte a oriente di Trocchio, la gente, ormai in mano ai “salvatori”, si sentì sollevata, quasi rinata dopo il tremendo martellamento della notte del 15.

Monte Trocchio visto da una postazione tedesca.
Monte Trocchio visto da una postazione tedesca.

Si cominciarono a vedere i soldati alleati che offrivano sigarette, cioccolate, biscotti e scatolette di carne e il

sorriso tornò sul volto di tutti. Ormai il pericolo era scampato. Ma mio nonno, Pietro Arciero, che era stato in America e, come calcava lui, “conosceva gli americani”, ed aveva combattuto in trincea nella prima guerra mondiale, e quindi “conosceva anche i tedeschi”, sentenziò – e la frase è rimasta famosa, quasi un aneddoto nella contrada –: “Finora ci sono stati i tedeschi e le nostre figlie sono state rispettate … ma i tedeschi sono freddi! Adesso sono arrivati gli americani … ma gli americani sono caldi! E se alle nostre figlie non portano rispetto? Le ragazze è meglio che se ne vadano a Campozillone, verso Mignano. Lì la guerra è passata e mia sorella le ospiterà”.
Nel giro di ventiquattr’ore fu organizzata la partenza, solo delle mamme con “le figlie femmine” e i bambini, però, ché i padri rimasero a guardia della casa. Si avviarono a piedi, e molte a piedi scalzi, – le scarpe erano rimaste sotto le macerie –, verso Mignano, ognuna con la sua “mappatella” di generi di prima necessità, avvolte alla meglio in scialli e coperte e qualche soldo cucito in petto per le evenienze. Questi i nomi:
– Giuseppella Arciero con le figlie Maria, Leondina (vivente) e Angelina;
– Antonia Arciero con le figlie Angelina (vivente) e Rosina;
– Peppinella Arciero con le figlie Amelia, Maria, Lucia (vivente) e i figli Umberto e Guido;
– Fortunata Arciero con le figlie Maria e Giulia (vivente);
– Rosa Arciero con i bambini Ines ed Eugenio;
– Fortunato Arciero con le figlie Filomena e Lisa e il di lei marito Alberto Minchella;
– Pasquale Valente, Pallino per gli amici, fidanzato di una delle ragazze;
– Aldoro, Antonio, Angelantonio e Elia Sidonio, nipoti di Giuseppella e giovanottoni disposti a portare i bagagli. Angelantonio era sfuggito da circa un mese, con una fuga rocambolesca, ai lavori forzati dei tedeschi, su per Montecassino a scaricare casematte, e al ritorno nella sua contrada, Foresta, non aveva trovato più la sua famiglia: moglie, due figlioletti e gli anziani genitori, già sfollati, insieme a tutti gli abitanti, verso il Nord Italia. Così Angelantonio ebbe la famiglia dicotomizzata dallo sfollamento, giacché lui si trovò al Sud e i suoi cari, di cui non sapeva nulla, al Nord. I suoi familiari, quindi, rientrano nella storia degli sfollati di Foresta.
– Mariuccia Minchella e la figlia Antonietta, madre e sorella di due ragazzi, Carmine e Domenico, che avevano trovato la morte il giorno prima , incappando in una mina sul monte finalmente libero dai tedeschi.
Era talmente straziante il pianto della povera mamma che i nostri sfollati non ebbero il coraggio di lamentarsi o piangere per la sorte che li costringeva a quella specie di esilio. Per strada si accodò anche un gruppetto di uomini, convinti che forse quella era la migliore soluzione, “tanto si trattava di una settimana!”. Erano Angelo Lanni, Antonio Di Ponio, Orazio Di Ponio.
Furono raggiunti ben presto da un camion americano che li caricò, oltrepassò Campozillone incurante delle grida “Ferma, ferma, siamo arrivati!” e li fece scendere a Mignano, dove ancora funzionava un cannone così potente che le tegole del capannone, dove furono fatti sostare per qualche ora, tremavano ad ogni colpo sparato verso Cassino. Poi di nuovo sul camion fino ad Aversa, finalmente un pasto caldo nelle gavette, e di nuovo sul camion fino a Napoli.
Qui dovettero scendere, uno alla volta, per essere “pompati per lo spidocchiamento”, nelle maniche, sul collo e dentro i pantaloni. “C’era da ridere – ricorda Angelina Arciero – ma fu una cosa santa”.
Dopo una notte trascorsa ammassati in uno stanzone, furono fatti salire su un treno per scendere alla stazione di Lagonegro, in Calabria. Il freddo e la neve facevano battere i denti e subito furono ospitati in una scuola, dove trascorsero la notte sulla paglia, ma almeno al riparo dalle intemperie. Al mattino nuovo trasferimento col camion. Stavolta la sistemazione era la definitiva: Latronico. C’erano, a circa tre chilometri dal paese, in località Bagni, delle abitazioni che venivano fittate dai bagnanti estivi, che le frequentavano essendo sede di terme sulfuree; e furono destinate a gruppi familiari. Angelina ricorda, con riconoscenza verso l’amministrazione comunale preposta, che sua sorella Rosina era febbricitante e allora, con la mamma Antonia, furono ospitate prima in un albergo e successivamente presso un’abitazione di persone gentili e generose. Anche Lucia ricorda la famiglia che ospitò il suo gruppo familiare: la signora Pirroncelli e sua figlia Irma, che vantavano antenati anche nobili ed erano nobili di animo pur se non più benestanti.
Cominciò per tutti i gruppi, che ricevevano dieci lire al giorno per il sostentamento, la difficile lotta per organizzarsi: mangiare e scaldarsi erano i bisogni più impellenti. Molti non disdegnarono di uscire a elemosinare, altri di uscire nottetempo a rubare qualche cavolo cappuccio sepolto dalla neve nelle campagne o a divellere qualche palo nelle vigne …; ma si dettero anche da fare: gli uomini lavorando come taglialegna o zappatori, le donne impastando il pane.
In cambio ricevevano viveri e indumenti ed era vera e propria manna. Elia sfruttò la sua voce possente – aveva il soprannome di Lupone perché da sopra Monte Trocchio ululava talmente forte che lo sentivano nelle valli dintorno – e prese l’abitudine di andare a cantare presso le abitazioni canzoni e stornelli.

“I dodici mesi”, tipico canto della terra natìa, era il suo pezzo forte. Era così gradito che poi lo invitavano a pranzo e così lui rimediava un pasto caldo e decente, una ospitalità cordiale e … anche l’ammirazione delle ragazze.
Adunando legna nei boschi, nottetempo, tutti i nostri sfollati trovarono cordiale amicizia presso la casa di Vincenzo e Vincenza Marzano, che abitavano in contrada Iannazzo. Vincenza, madre di cinque figli, quando faceva il pane, offriva pizza al forno ardente a tutti e ripeteva a tutti: “Da quando faccio beneficenza a voi, la roba mi ricresce!”. Aveva una figlia, Manuela, una brunetta gentile e carina, che fece innamorare Lupone, tanto che questi nel 1946 tornerà a sposarla. Manuela, oggi ottantatreenne, ricorda che la madre piuttosto toglieva ai loro figli, ma non dimenticava mai di fare offerte agli sfollati. E le nostre quattro superstiti, Lucia, Angelina, Giulia e Leondina, ancora la ricordano!
In paese una sola persona possedeva la radio e Antonio Di Ponio si recava presso la sua abitazione per avere notizie del fronte, poi tornava a portarle a tutti: “Hanno bombardato Montecassino … hanno distrutto Cassino … il fronte è fermo a Cassino … stanno ancora da noi …!”.
Il cuore si stringeva a tali notizie, tra dispiacere, ricordi, nostalgie … e non sapevano che quelli che non avevano sfollato ed erano rimasti a S. Lucia stavano bene, aiutati in tutti i sensi dagli alleati: viveri, assistenza medica, vestiario.
Ci fu anche la disgrazia di Pallino, il quale, avviatosi già sofferente e malato di tubercolosi, a Latronico si aggravò e dovette ricoverarsi in sanatorio a Salerno, dove morì qualche mese dopo.
La fidanzata, Maria, ereditò i suoi stivali e li usò per andare in giro a chiedere l’elemosina. Ricorda Leondina, una delle sfollate ancora viventi, che i calabresi furono sempre generosi, cordiali e caritatevoli con loro: pane, formaggio, salsicce, fagioli e vestiario erano i generi che i nostri “pezzenti” riportavano a casa.
Finalmente, un giorno di maggio, Antonio Di Ponio, il messaggero, portò la notizia che gli alleati avevano respinto i tedeschi da Montecassino. Fu una gioia immensa per “gli sfollati di Cassino” – così erano chiamati –, condivisa dagli abitanti di Latronico, che avevano preso a cuore il destino dei nostri. Si pensò subito alla partenza ma, prudentemente, si decise di aspettare notizie di via libera sicura, per poi mandare in avanscoperta un gruppetto di impavidi: Angelantonio, perché ferroviere e quindi esperto per il viaggio, Umberto, perché fresco diplomato e quindi più abile a districarsi con la lingua, Amelia, mia futura mamma e sorella di Umberto, ragazza energica che poteva badare maternamente agli uomini. Nel frattempo che si organizzava la partenza, il 13 giugno arrivò a riprendersi la famiglia il marito di Fortunata, il quale, siccome era ferroviere in servizio a Cassino, aveva trovato il modo di organizzare il viaggio. Partirono il 21 giugno, ma viaggiando soffrirono il freddo, perché dovettero adattarsi su uno di quei treni merci con i convogli scoperti dotati di garitta per il frenatore, però questo operatore non c’era; i nostri ardimentosi, sparsi a gruppetti per ogni vagone, si improvvisarono frenatori, per cui il treno ora arrancava, ora correva fulmineo. Ma, come Dio volle, riuscirono ad arrivare alla stazione di Cassino e di qui a S. Lucia di Trocchio. Lo spettacolo intorno era deprimente. Solo la gioia di ritrovarsi con i capifamiglia sani e salvi poté bilanciare la tristezza dello sfacelo circostante. E, nonostante lo sfacelo, trovarono i granai abbastanza pieni, ché il grano seminato nel novembre passato, impavidamente, sotto il pericolo delle cannonate alleate, era maturato incurante degli eventi bellici ed era stato appena mietuto dagli intraprendenti padri.
Ben presto tornarono tutti gli altri … e la vita ricominciò a S. Lucia.
Vediamo ora cosa era successo a Foresta, sull’altro versante di Trocchio, quello verso Cassino. Qui, in previsione della battaglia che sarebbe sicuramente avvenuta, – i soldati martellavano i civili con “Qui tutti kaputt!” – molte famiglie furono sfollate dai tedeschi, che una sera di dicembre irruppero nel casolare sperduto tra le querce e dettero gli ordini: gli uomini forti, tra cui Angelantonio, da un lato, perché destinati a lavorare come manodopera per loro; donne, vecchi e bambini da un altro lato, da mettere in salvo verso Roma – e questo fa onore a quei soldati, ché in altri luoghi e in altri contesti i civili furono uccisi –.per essere poi smistati, veri e propri pacchi postali, verso il Nord.
Mentre il gruppo degli uomini fu scortato e trasportato fino a Cassino, per la stradina di Trocchio si avviò la triste processione degli sfollati. Questi i nomi che sono riuscita ad avere:
– Alberina Tortolano, moglie di Angelantonio Sidonio, con i figli Silvio e Adalgisa, i genitori Giuseppe Tortolano e Filomena Soave, le sorelle Margherita e Marietta; questo gruppo familiare si fermò a Roma perché Giuseppe vi lavorava come ferroviere;
– Benedetto Sidonio, con la moglie Angela e le figlie Eugenia, Genoveffa e Chiarina, che furono portati a Romanengo, provincia di Cremona;
– Vincenzo Sidonio, con la moglie Maria Giuseppa Arciero e i figli Pierino, Angelo, Attilio e Francesca; anche loro smistati a Romanengo, solo Francesca si trasferì poi a Dongo, sul lago di Como, presso un congiunto che lì faceva il carabiniere;
– Mario Gaglione, ragazzino di otto anni, che si ritrovò, separato dalla famiglia, in Veneto, dove fu amato, cresciuto e accudito da una famiglia;
– Mafalda Sidonio;
– Elena Gaglione ;
– Concetta Valente, prossima a partorire (cosa che avvenne nella sosta a Ferentino) con i figli: Antonietta, Anna, Emilio Sacco e, appunto da Ferentino, Guerino, nome molto usato per i nati in tempo di guerra, che sostituiva l’ormai inflazionato e detestato Benito;
– Carlo Girardi con la moglie Palma Valente e le figlie Maria, Linda e Antonietta;
– Rosina Porsilli, coi figli Antonio, Carmelina e Alberto, che furono fatti scendere a Padova, dove una famiglia di fornai si prese talmente cura di loro che quasi adottò il piccolo Alberto, facendolo studiare fino ai diciotto anni.
Anche a Pastenelle, sulla Casilina ancor più pericolosa, perché strada statale di transito incessante, quelli che non erano riusciti a nascondersi sui monti furono sfollati dai tedeschi verso Padova. Ecco alcuni nomi che già stanno cadendo nell’oblìo:
– Benedetto Di Ponio con la sorella Annunziata e la mamma Lucrezia Angelosanto;
– Valente … e la moglie Giovanna Canale e famiglia.
Caricati su di un treno, ai primi di dicembre, ebbero come destinazione Padova. La sede era tanto più lontana quanto prima avveniva lo sfollamento. Infatti i tedeschi si preoccupavano di liberare il campo di battaglia in tempo per le operazioni belliche che prevedevano sarebbero avvenute.
Alla fine di dicembre poi, furono caricate in fretta e furia alcune famiglie numerose con tante figlie:
– Vincenzo Gargano con la moglie Palma Marrocco, i figli Nicola e Antonio e le figlie Mariella, Rosa, Caterina e Pasqualina;
– Domencantonio Fargnoli con la moglie Annunziata Rosciardi, il figlio Valenti e le figlie Linda, Vincenza e Adelina.
Quest’ultimo gruppo familiare era venuto dalla contrada Porchio a stabilirsi presso i parenti Gargano, sperando nella salvezza. Ma il destino aveva riservato per loro un’atroce sorpresa.
Gli ultimi sfollati di Pastenelle furono portati “in salvo” a Palestrina, in un casolare di campagna affollatissimo, tanto che dovettero sistemarsi in una specie di mansarda sopra un pollaio, sulla paglia, come bestie. Una notte furono allertati da strani rumori, come di faine entrate nel pollaio ad aggredire le galline. Ma non erano innocui animali predatori quelli che salirono di lì a poco la scala a pioli: erano marocchini, i famelici goumiers che avevano ricevuto dal generale Juin – come si è sempr detto – il diritto di stupro e violenza, come premio al valore bellico. I padri invitarono le figlie a scappare, buttandosi da un finestrella, allo sbaraglio. Per fortuna sotto c’era un mucchio di canestri e le ragazze si salvarono nella caduta e poi, via!, a correre a perdifiato per nascondersi tra il grano ancora verde ma già abbastanza alto da nascondere le prede. Mariella Gargano, da poco scomparsa, mi raccontò una volta che lei sentiva il suo cuore battere così forte da temere che i marocchini lo sentissero. Avvertiva il loro ansimare animalesco nella notte, agghiacciava nel sentire le grida e i lamenti delle “prede stanate” … Quando il pericolo passò – probabilmente erano scadute le quarantott’ore di premio – si contarono due vittime nella famiglia dei parenti di Mariella.
Triste epilogo della salvezza da sfollati.
Chi non era stato sfollato dai tedeschi fu sfollato dagli americani, ché anch’essi volevano campo libero per le loro operazioni. Così al Sud finirono:
– Antonietta Coppola e famiglia, numerosa a tal punto che fu dislocata parte a Gioia Tauro e parte a Rosarno;
– Orazio Canale con i figli Carmine, Vincenzo, Clara e Pasqua, “smistati” a S. Croce Caterini, in Sicilia.
Ancora sfollati dai tedeschi, alla fine di novembre del ’43 e quindi, si potrebbe dire, in tutta calma, furono alcune famiglie di contrada Macerine, sempre nel Comune di Cervaro, nella pianura tra monte Trocchio e monte Porchio. Qui era situato un cannone tedesco che sparava verso Monte Lungo. Uno degli sfollati, Erasmo Roscilli, allora bambino, ricorda che i soldati lo avevano in simpatia e lo invitarono a sparare il primo colpo verso gli alleati, facendogli tirare una cordicella. Per fare campo libero, le famiglie:
– Francesco Roscilli, con la moglie Felicia Cistrone e i figli Stefano, Giovanni ed Erasmo;
– Luigi Roscilli, con la moglie Concetta Risi e i figli Raffaela, Benedetto, Esterina, Maria e Anna;
– Pietro Lanni e la moglie Benedetta Angelosanto; furono caricate su un treno e scaricati in provincia di Mantova, a Pegognaga. Trovarono accoglienza presso masserie in campagna, dove seppero farsi apprezzare come bovari gli uomini e come contadine le donne. Ma tornarono a casa solo nel luglio del’45, quando gli sfollati del Sud erano arrivati già da un anno.
Interrogando i superstiti di questa “triste avventura” che fu lo sfollamento, ho potuto constatare che la memoria di essi si sta perdendo. Bene ha fatto Studi Cassinati a sollecitarne un elenco. Anche gli sfollati sono vittime di guerra, hanno sofferto pene indicibili . E ognuno di loro avrebbe una storia da raccontare, storia di gente umile sì, ma pur sempre storia, che fa riflettere i fortunati che la guerra non l’hanno vissuta.

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