La casta degli storici che non insegna nulla

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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di Marcello Veneziani


Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tenta- re un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di ri- mettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro sussiego da baroni uni- versitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericola- ti, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbia- mo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e docu- mentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E in- vece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di va- glia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle «dicerie» che ora sbri- gate con sufficienza.

Ho letto e ascoltato con quanto fastidio – e cito gli esempi migliori – Giuseppe Ga- lasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente pubblicistica sul brigan- taggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei Savoia. Ne parlano con sufficien- za e scherno, quasi fossero accessi di follia o di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e di- sprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle clas- sifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri della patria. […]

Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi siete mai cimen- tati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in discussione quel che ave- te acquisito e sostenuto una volta per sempre? Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e il vostro sale. Il risultato è che per molta gente que- sti temi sono scoperte inedite.

Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivo- luzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri co- me quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto il coraggio di riapri- re le pagine sanguinose della guerra partigiana, il triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di sche- letri negli armadi?

Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così con- tribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucche- voli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è as- sente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate con il vostro ma- nierismo e le vostre omissioni?

Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’I- talia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che mol- ti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne se- guirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e dell’emigra- zione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini come poi agli sbar- chi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignito- sa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro gran- de contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla ma- gistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare. Non possia- mo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo.

Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di colo- ro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da costruire un’Italia condivisa e non da di- videre un’Italia già costruita.

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