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Studi Cassinati, anno 2010, n. 4
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di Pierino Miele
Leggendo l’articolo sull’ultimo numero di Studi Cassinatio (n. 3 luglio – settembre 2010) che parlava dei nostri concittadini sfollati verso il sud, ho avvertito un tuffo al cuore e spiego perché. La parola “diaspora” mi ha ricordato una conversazione con il mai troppo compianto avv. Guido Varlese nel descrivere le traversie, l’abbandono della Città da parte di Cassinati dell’epoca, la sofferenza e la dispersione in varie parti d’Italia per sfuggire al dopo 8 settembre del 1943 e alle vicende belliche premonitrici del 15 febbraio e 15 marzo del 1944.
Ebbene l’avvocato Varlese mi raccontava che i Cassinati avevano subito una vera e propria “diaspora” simile a quella subita dal popolo ebreo. Tanti ebbero la fortuna e la forza di ritornare, molti rimasero nei luoghi di sfollamento, forse consapevoli che non avrebbero trovato più la loro Cassino, rasa al suolo dal bombardamento del 15 marzo 1944: con la distruzione della Città hanno anche cancellato le loro radici.
Senza dubbio, sarebbe interessante conoscere bene quel flusso di andata e ritorno, ma soprattutto quello di solo andata, perché un primo censimento di coloro che ritornarono, approssimativamente è stato portato a conoscenza; l’incognita rimane per quelli che non fecero più ritorno a Cassino e che, quindi, si stabilirono definitivamente altrove. Il pessimismo dell’eventuale mancata ricostruzione viaggiava a mille nelle loro menti.
In questo contesto vorrei inserire quanto tramandatomi da miei familiari a ricordo dello “sfollamento” da Cassino, zia Maria e zio Peppino: rispettivamente sorella e fratello di mio padre, ultimi testimoni viventi di quel dramma vissuto dai nostri concittadini dell’epoca. Si doveva prendere il necessario, lasciare e nascondere cose utili per il ritorno, sempre che i tedeschi non se ne fossero accorti. Per quanto riguarda i miei, i tedeschi requisirono tutti i capi di bestiame nelle stalle (erano numerosi e ben nutriti, secondo il ricordo di mia zia Maria: era un investimento consigliato a mio nonno da parte di qualche “Solone”, in quanto la lira non avrebbe avuto da lì a poco tempo alcun valore e allora era meglio investire in capi di bestiame i risparmi di una vita di lavoro – non si capisce perché non fu consigliato l’acquisto di terreni; mistero!!), damigiane di vino e olio con la prerogativa che mio nonno doveva assaggiarli prima della consegna (avevano il timore che potesse essere avvelenato): fatta detta operazione, nel mese di novembre 1943 caricarono tutti i componenti della famiglia su camion e via per la Casilina nord. La mia famiglia paterna d’origine – di tipo patriarcale – era composta dai miei nonni Pietro Miele e Angela Savelli più figli e figlie, generi e nuore e nipoti vari: complessivamente circa 15 persone. Dopo un viaggio della durata di una giornata furono “scaricati” alla stazione ferroviaria di Ferentino e da lì, su carri ferroviari adibiti al trasporto merci e bestiame, dopo un viaggio di circa 20 giorni e in compagnia anche e soprattutto di “ospiti indesiderati” (data la scarsezza di igiene, i famigerati “pidocchi” infestarono le teste e i corpi di quasi tutti i miei familiari) arrivarono alla stazione di Padova, da dove furono trasferiti con camion presso il comune di Loreggia, a circa 26 Km di distanza. Qui furono alloggiati in depositi comunali e presso la parrocchia, naturalmente dopo l’operazione umiliante della disinfestazione generale per liberarsi dagli “attila-invasori”. Furono rifocillati e ospitati presso varie famiglie di agricoltori del luogo e si fecero voler bene integrandosi e aiutando nei lavori dei campi a loro già congeniali. Le famiglie che li ospitarono ebbero un comportamento comprensivo e molto umano. Zia Maria ricorda di essere stata a servizio presso un’importante famiglia di un ammiraglio che abitava in una bella villa chiamata “Wollemborg”. Certamente l’essere stati utili e l’attività di lavoro ha scandito le loro giornate, quasi annebbiando la sofferenza dello “sfollamento”. Intanto gli eventi si susseguivano: vennero a conoscenza, via radio, della totale distruzione di Montecassino e a seguire di Cassino e posso solo immaginare il turbinio di preoccupazione, di tristezza e pensieri nella mente dei miei nonni e degli zii al calar della notte intorno ad un focolare di fortuna. I giorni lontani da Cassino trascorrevano lentamente e solo qualche ingenua distrazione (del tipo andare in bicicletta) alleviava l’ancora giovane età di alcuni componenti della famiglia. Non solo, un’altra mia zia, Caterina, che purtroppo non c’è più (era la memoria storica di tutti gli avvenimenti durante lo sfollamento), fu testimone di un rastrellamento da parte dei tedeschi: assistette, senza essere vista, alla fucilazione del parroco del luogo e di alcuni civili, colpevoli di aver nascosto uomini della Resistenza. Arriviamo, quindi, al 13 giugno 1945 giorno dedicato a Sant’Antonio, patrono di Padova, ma venerato anche a Cassino come tutti i fedeli sanno. Questo episodio, a distanza di tanti anni, mi è stato raccontato da mia zia Lucia (ora nella “gloria del Paradiso” come suol dirsi) nel 1976. Era venuta a trovare mio padre Antonio che non stava bene, trovandosi infermo a letto e, anche per far distrarre papà dalla malattia seria di cui era sofferente, mia zia cominciò a raccontare di cosa avvenne in quella data, ricorrenza di Sant’Antonio da Padova.
A questo punto è necessario fare un salto indietro nella memoria in modo da legare il racconto. Mio padre il 20 luglio del 1938 si arruolò volontario nella Regia Marina, venne imbarcato sulla R.N. Miraglia dal 27 febbraio 1939 al 18 agosto 1939 partecipando alla campagna d’Albania e successivamente, a partire dal 20 agosto 1939, venne dislocato quale “segnalatore” presso quell’avamposto o “portaerei” del Mediterraneo di mussoliniana memoria che rispondeva al nome di isola di Pantelleria. Qui conobbe mia madre con cui si sposò il 12 giugno 1942. Fecero un viaggio di nozze rocambolesco tra il mediterraneo e la terra ferma imbarcati su una nave che per ben due volte fu sfiorata dai siluri di sommergibili anglo-americani. La destinazione era Cassino: mia madre doveva essere presentata alla famiglia d’origine di mio padre. Dopo i convenevoli e i festeggiamenti di rito, mio nonno li accompagnò in visita a Montecassino (era un privilegiato, era “di casa”: infatti, giovanetto, stava per prendere “i voti”, senonché, per la morte prematura del padre, dovette rinunciarvi in quanto, essendo primo figlio, aveva il dovere di fare da capo- famiglia). Fu così che mia madre potette vedere l’Abbazia ancora “in vita”, nel suo antico splendore.
Dal 18 maggio 1943 all’11 giugno 1943, le forze alleate anglo-americane cominciarono a fare le prove per risalire l’Italia e con un bombardamento aero-navale misero a ferro e fuoco l’isola di Pantelleria distruggendone totalmente il centro abitato principale; si salvarono in parte le contrade e l’interno dell’isola stessa. I militari italiani che presidiavano l’isola vennero fatti prigionieri dagli anglo- americani che in un primo momento li volevano deportare nei campi di concentramento del Nord Africa. Il pericolo fu scongiurato per ben tre volte: vuoi per il cattivo tempo che, quasi sempre, imperversa in quella zona del Mediterraneo e soprattutto per intercessione del plenipotenziario dell’isola dell’epoca Dr. Bernardo Nagar (papà dell’ex primario di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale Civile di Cassino, prof. Benito) che, data la dislocazione, convinse lo Stato Maggiore anglo-americano a far sì che i prigionieri italiani potessero rimanere tali anche nell’isola: non c’era alcuna possibilità di fuga avendo una distesa d’acqua davanti a loro che si perdeva a vista d’occhio. Papà rimase prigioniero degli anglo-americani dal 12 giugno 1943 al 14 maggio 1945. Subito dopo volendo rendersi conto di quanto era successo a Cassino e ai suoi familiari, affrontò un viaggio avventuroso per raggiungere la sua città e i suoi cari . Dopo 3 giorni e aver percorso più di mille km tra mare e terra arrivò a Cassino e naturalmente non trovò i suoi. Chiese in giro dove potessero essere stati trasportati e ne venne a conoscenza. Intanto si era reso conto che si cominciavano a bonificare i terreni da mine e bombe aeree varie inesplose durante il conflitto che portò alla distruzione di Cassino e zone limitrofe. Motivo per cui, dopo un primo breve periodo di perlustrazione della zona da dove erano stati sradicati i suoi, affrontò un altro viaggio per raggiungerli e convincerli a ritornare in quanto non c’era più pericolo. Detto per inciso la famiglia patriarcale di mio nonno aveva in fitto una grande “masseria” denominata “Acqua Fredda” sulla via Appia Nuova, che costeggiava sia detta strada, sia il fiume Rapido fino alla congiunzione con il fiume Gari. Detta “masseria” era di proprietà dell’avv. Emilio Di Giovanni (nonno dell’avv. Massimo e del dr. Emilio Giangrande, eredi e proprietari attuali). Dopo un viaggio di oltre 700 km in treno e con mezzi di fortuna e a conoscenza della sola località dove potessero esser di stanza i suoi, da Padova si mise in cammino a piedi seguendo una folla di persone lungo la strada che si collegava con il Comune di Loreggia. Perché questa folla di persone si accalcava lungo l’itinerario, è presto detto: era il 13 giugno del 1945, tornavano dal santuario dopo avere assistito alla celebrazione della messa in suo onore. Guarda caso era anche l’onomastico di mio padre che, appunto, si chiamava Antonio. Ebbene, ritornando al racconto di mia zia Lucia, nel percorso di ritorno a mo’ di pellegrinaggio confidava alla madre, cioè a mia nonna Angela, di avvertire delle strane voci e strane sensazioni emotive. Sentiva una voce familiare che la chiamava in lontananza. Effettivamente, in mezzo a tanta folla, mio padre era riuscito e riconoscere la sorella Lucia e la chiamava. Mia nonna continuava a dissuaderla asserendo che non poteva essere vero e le diceva: “Hai presente dove sta facendo il militare tuo fratello?!”. E mia zia ribatteva: “Neh! ma’, a me m’ par’ proprie la voce r‘ Ntonio”. E nel mentre finiva di dire queste parole, mio padre riuscì a raggiungerle e ad abbracciarle e … lascio immaginare la scena. In precedenza, nel 1944 nel comune di Loreggia sono nati due miei cugini: uno, Antonio Miele (purtroppo morto prematuramente alcuni anni fa) figlio di Agostino e di Palma Minchella; l’altra, Capasso Barbato Michelina, tutt’ora vivente, figlia di Giuseppe e Carmela Miele. Il ritorno a Cassino di tutta la mia famiglia d’origine va sicuramente inserita subito dopo il 13 giugno 1945.
Dopo la gioia del ritorno a casa (è un eufemismo, perché i miei dovettero adattarsi in “pagliari” come si usava all’epoca per il ricovero provvisorio degli animali) c’è purtroppo il dramma familiare per la perdita di mio zio Agostino, primo fratello di mio padre, dovuta alla malaria perniciosa. Lasciava la moglie e tre figli in tenera età. Nella pianura di Cassino, dopo la forza belluina della guerra, era stata la malaria a falcidiare tante famiglie.
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