Gli sfollati

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Studi Cassinati, anno 2010, n. 3
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di Vincenzo Squillacioti


Un accendino: un documento di tecnica, di amicizia, di storia. L’ho conservato tra le cose care cinquant’anni fa, alla morte di mio fratello, al quale l’aveva regalato, alcuni anni prima, nel 1945, il suo coetaneo ed amico Antonio Saragosa, sfollato da Cassino e mandato con la famiglia lontano dal fronte, a Badolato. Un ricordo d’infanzia, questo giovine ventenne sbattuto a Badolato dalla terrificante realtà della guerra; un amico che ho cercato di rintracciare negli anni Sessanta, telefonando al Sindaco della sua città per avere notizie: era emigrato in Canada, senza che al Municipio ci fosse il suo nuovo indirizzo. Poi, non l’oblio, ma l’esigenza vitale di passare ad altro, di archiviare spezzoni di vita per dedicarsi al presente, al continuo presente.
In questi ultimi mesi, con la più spregevole e la più spudorata delle guerre, morte di innocenti, di donne, di bambini, di neonati, e terrore sull’intero pianeta. E ancora sfollati, a decine e a centinaia di migliaia. Chi non muore scappa. Poiché scappando, possibilmente prima che arrivi la furia devastatrice, d’iniziativa o per superiore disposizione, si puó sperare di salvare la vita. Un forte, se pur poco gioioso stimolo, il termine sfollati per riportare alla luce un aspetto della seconda guerra mondiale. Un aspetto non tra i più cruenti, ma certamente non tra i meno importanti del devastante scenario delle guerre.
Badolato è stata interessata a tale problema in un primo momento con una sorta di sfollamento interno. I meno giovani ricordano ancora – e come si potrebbe dimenticare!? – che siamo stati tutti sfollati. Invitati anche dagli Angloamericani (ancora loro!), che anche allora hanno lanciato dal cielo milioni di volantini, propaganda di guerra, nel 1943 siamo finiti nelle numerose case di campagna del territorio comunale, dal Fondaco a Doga, per essere lontani dal paese e dalla ferrovia. Nicola Caporale, nostro poeta e romanziere, ha trattato l’argomento nel suo libro “In margine all’ondata”, di cui abbiamo scritto altre volte. I Badolatesi, però, tornavano quasi giornalmente a casa, per assicurarsi che non era stata visitata dai ladri, o per prelevare cibarie e biancheria. In un secondo momento, Badolato, come centinaia di altri del Sud, e più tardi anche del Nord, ha dato ospitalità ad alcune centinaia di sfollati, oggi detti più spesso profughi, che scappavano dal fronte.
I primi a dover abbandonare le loro case sono stati i Siciliani, alla fine dell’estate del 1943, allo sbarco degli Alleati, e quindi all’atto della costituzione di un fronte antitedesco. Fronte che si è spostato velocemente verso Nord, a mano a mano che i Tedeschi, traditi, si affettavano a risalire la penisola. Sino a Cassino, dove il genio umano, non solo è riuscito a distruggere l’Abbazia dei Benedettini, uno dei più importanti e più belli monumenti dell’umanità, ma ce l’ha messa tutta, riuscendoci egregiamente, a riprodurre l’inferno. Con gli Alleati sbarcati ad Anzio ed a Nettuno a fine gennaio 1944, il fronte di guerra in quella parte del Lazio divenne uno dei più disgraziati angoli della vecchia decrepita Europa.
Non è facile appurare quante centinaia di migliaia di persone hanno dovuto lasciare la casa, gli averi, il lavoro, per cercare rifugio nelle regioni meridionali d’Italia. Abbiamo cercato notizie un po’ ovunque, là dove, in ogni caso, a noi è dato di arrivare, ma non si trova niente, o quasi. Dappertutto lo stesso desolante quadro: archivi inesistenti, perché bruciati o portati nelle discariche; ricerche impossibili, quindi, per mancanza di documentazione. Ciò nonostante siamo in grado di scrivere che nel novembre del 1944 la Commissione Alleata per i Sinistrati di Guerra s’interessava a 300.000 persone residenti nelle province di Littoria, Frosinone, Aquila, Chieti, Pescara, Napoli e Campobasso.
Nella città di Catanzaro e nella provincia, dal primo marzo del 1944 sono arrivati quasi 7.000 sfollati: da Cassino, Anzio, Nettuno. Ma desolazione e sfollamento non hanno risparmiato Velletri, Valmontone, Lanuvio, Genzano, Tivoli, Ausonia, S. Giorgio, Itri, Pignataro, Piedimonte, Cisterna, Aprilia, Terracina, Fondi, Terni, Elena, Pontinia, Castelforte, Ceprano, Minturno. Leggiamo in un giornale dell’epoca che un treno, composto di carri per bestiame con dentro 600 profughi, il 29 febbraio 1944 è transitato dalla stazione ferroviaria di Catanzaro Sala in direzione Reggio Calabria. E non è stato l’unico ad attraversare la Calabria: sappiamo, difatti, che tutt’e tre (oggi cinque) le nostre province hanno ospitato gente che scappava dalla guerra.
Quanti ne sono arrivati a Badolato? E nei paesi vicini? In mancanza di documenti d’archivio abbiamo lavorato viaggiando e telefonando, ascoltando alcuni anziani che conservano ancora impressi nella memoria e nomi, e volti, e condizioni, e particolari circostanze. Abbiamo così appurato che a Guardavalle ce n’erano non meno di cinquanta, sistemati in case piuttosto comode nella zona Palma: Tra loro il distinto ragioniere Dario, al quale fu regalato un cappotto che sarebbe dovuto servire, una volta disfatto, per confezionarne uno più piccolo per la decenne figlia del donante. Dal quale ebbe pure, in prestito, una bicicletta, che vendette alla chetichella per pagarsi il viaggio di ritorno a casa quando venne il momento.
Due famiglie almeno, provenienti da Cassino, sono state avviate a S. Caterina, e hanno dimorato nei pressi del Municipio. Più numerosi quelli che hanno trovato sistemazione a Sant’Andrea: erano circa settanta, alloggiati in un confortevole edificio costruito all’inizio degli anni Trenta per gli alluvionati, ma mai utilizzato a tale scopo. Uno di loro – ci viene raccontato – è tornato dopo alcuni anni per rivedere il luogo dell’accoglienza e della sofferenza; luogo che oggi è compreso nell’area della Villa della Fraternità. Anche Satriano, stando a quanto mi si dice, ha avuto i suoi sfollati.
Tanti ne ha avuti Isca. Venivano da Nettuno, ed abitavano in via Campanella. Uno di loro, il Signor Tamburrini, si è innamorato di una bruna Iscana, con la quale ha convolato a nozze nella locale chiesa dell’Annunziata. La Signora Caterina Nisticò, oggi vedova Tamburrini, da noi rintracciata per telefono a Nettuno, con voce calda per il ricordo e la commozione ci ha raccontato del suo matrimonio, celebrato il 14 luglio del 1944, con la partecipazione di tutti gli sfollati residenti a Isca e a Badolato, amici e compagni di sventura di suo marito. Con un non so che d’intento coinvolgente mi ha pure detto la Signora Caterina che la promessa di matrimonio ha avuto luogo nel Santuario della Madonna della Sanità di Badolato. Matrimoni anche a San Sostene, tra due giovani di Nettuno e due ragazze del luogo.
Numerosi gli sfollati a Gagliato, provenienti da Cassino, la più martoriata città del fronte di guerra in Italia all’inizio del 1944. Non sarebbe inutile, forse, portare al cimitero polacco di Montecassino certi guerrafondai nostrani, e stranieri! Noi vi siamo stati, ma non stiamo qui a raccontare ciò che si prova dinanzi a quello sterminato campo di croci! Per raccogliere notizie sui profughi ospitati a Gagliato abbiamo più volte disturbato per telefono il professore Antonio Nardone, oggi preside in pensione. Ci ha raccontato, il nostro paziente interlocutore, che il primo raduno per scappare è avvenuto in un’ala del manicomio di Aversa. Poi, a fine febbraio 1944, la partenza su carri merci, con soste infinite su binari morti. Circa centocinquanta famiglie dirette a Sud, nelle tre province calabresi; una settimana di sosta in una sala cinematografica di Catanzaro, e poi, a metà marzo, di nuovo in partenza, su camion, per raggiungere le varie destinazioni. La vita degli sfollati a Gagliato, come altrove, è facile immaginarla. Di fatto si soffriva la fame, giacché, nonostante l’“ordine superiore”, non sempre le autorità municipali provvedevano – così si legge in un articolo di giornale del 12 aprile 1944 – a distribuire le previste 100 lire pro-capite. Ma gli sfollati spesso ricevevano dagli indigeni ogni tipo di aiuto, sia pur modesto, nella misura in cui la comunità ospitante ne aveva la disponibilità. A Gagliato – ci racconta ancora il preside Nardone – ci aiutavano un po’ tutti, specialmente con frutti, di cui c’era qualche abbondanza. Un signore del luogo – ci viene riferito da altra fonte – oltre ad offrire, ogni tanto, olio, fagioli e altro, ha messo a disposizione quattro vacche: ogni mattina gli amici di Cassino si presentavano con la bottiglia al posto convenuto e prelevavano ciascuno un po’ di latte, sino ad esaurimento.
Dobbiamo qui scrivere che la nostra gente faceva a gara per rendere la vita meno amara a chi aveva perduto tutto, sotto le bombe del fuoco amico e nemico. Scorrendo le pagine di un’intera annata di un quotidiano, che si stampava all’epoca a Catanzaro, abbiamo trovato traccia di 27 sottoscrizioni, in cui sono riportati i nomi di oltre 500 sottoscrittori: vi compaiono Reparti militari, Ospedali, la Prefettura, la Previdenza Sociale, il Ministero della guerra, il Banco di Napoli, alcune Scuole elementari, il Galluppi, il Magistrale, la Scuola Agraria, e parecchie centinaia di singoli cittadini, medici, ufficiali, ingegneri, gente della strada. Compare spesso, negli elenchi, l’importo di £ 5 (circa 600 lire di oggi), accanto alle numerose 50 e 100, sino alle 1.000 e alle 5.000. Vogliamo qui citare, per dare un altro esempio della generosità dei Calabresi, il caso della ditta Tommaso Durante, di Albi, che ha offerto 20 quintali di legna. E per nessuno era quello il tempo delle vacche grasse. In Catanzaro si disputavano, relativamente spesso, partite di calcio, specie tra squadre militari, e si devolveva l’incasso alla Croce Rossa per assistenza ai profughi. E non erano rari gli spettacoli teatrali e i concerti musicali il cui incasso, detratte le spese, veniva destinato ai profughi.
In un trafiletto apparso il 16 aprile 1944, insieme con l’avviso che potevano fare ritorno a casa gli sfollati della Sicilia, si avvisano “Ditte, Enti e privati che vogliono dare lavoro…” di rivolgersi al Ministero dell’Interno – Ufficio Assistenza Profughi di Guerra – Salerno, oppure al Comitato Provinciale della C.R.I. di Bari. Qualcuno, difatti, ma solo qualcuno, trovò da fare qualcosa, per ridurre in qualche modo la precarietà della situazione. È il caso, ad esempio, di Vincenzo Nardone, che per un po’ di tempo fece il frantoiano a Gagliato; o di certo Marcobelli, falegname, che frequentava a Badolato la bottega dei Verdiglione, dove costruiva qualche cerchio di carro agricolo; o, ancora, di Antonio Saragosa, accolto fraternamente dal coetaneo ed amico Andrea Squillacioti, nella bottega del quale faceva qualche lavoretto da stagnino.
Quanti i profughi a Badolato? Da dove arrivavano? Queste le prime domande quando abbiamo iniziato a interessarci dell’argomento. Allo scopo ci siamo recati, come spesso, al Municipio di Badolato, per cercare documenti: come spesso, niente! Abbiamo quindi fatto come quasi sempre: abbiamo ascoltato la gente, i testimoni, i protagonisti.
Provenienti da Cassino e da Nettuno, e qualcuno, pare, anche da Anzio, sono arrivati a Badolato tra la fine di febbraio e la prima quindicina di marzo del 1944. Non abbiamo uno straccio di documento che ci dica quanti erano in tutto. Sappiamo, in ogni caso, che una famiglia abitava in Vico San Domenico. Che altre due famiglie abitavano nei pressi di Piazza San Nicola. Altri erano ospitati a Villa Giuseppe, allora signorile residenza di campagna della famiglia Menniti, oggi attrezzato agriturismo “Zangarsa”. Il gruppo più numeroso, proveniente da Nettuno, alloggiava a Mingiano, nel baraccone in legno del barone Paparo, costruito per le esigenze del terremoto del 1905 e appartenuto, sino al 1923, alla famiglia dei baroni Scoppa. C’erano i Bacialemani, Cibati, Marcobelli, Nocca, tutti di Nettuno, e i Saragosa, di Cassino. Ci racconta Piero Nocca, che abbiamo rintracciato per telefono, che sono arrivati a Mingiano dopo un viaggio avventuroso fatto in parte anche per mare. Il fratello maggiore, Orlando, già quindicenne, si fa trasportare anche lui dal ricordo quando lo rintracciamo nella sua vetreria. E ci racconta della sua caduta dal mandorlo, e della conseguente frattura della gamba, dell’ingessatura ad opera di un “bravo medico” del paese, e quindi della guarigione. Parla di Cenzo, che vedevano spesso da quelle parti, e di un pastore che aveva le pecore nei pressi. Si sofferma poi a parlare a lungo di una contadina che aveva un pezzo di terra lì vicino, e che dava loro del pane, dei legumi, dell’olio… “Si chiamava Vittorianna. Quando poi è nata mia sorella, a Nettuno, i miei genitori, in onore di quella donna, le hanno messo il nome Vittorianna”. Non è stato difficile per noi scoprire chi era la donna benefattrice: era Vittoria Parretta, moglie ad Andrea Frascà, detto Tarantìnu, morta nel 1949 all’età di soli 51 anni. Una donna che abbiamo conosciuto e che anche a noi dava la sensazione di essere una contadina sana e buona, una donna esemplare.
Sono numerose, in verità, le testimonianze dei legami socio-affettivi tra la nostra gente e gli sfollati. Cosimo Piroso, ad esempio, trovandosi nel 1963 a Latina per lavoro, sentì il bisogno di arrivare a Nettuno per abbracciare Giuseppe Nocca e la sua famiglia, che nel frattempo, come dicevamo, si era arricchita con l’arrivo di Vittorianna. Ci viene raccontato della Signora Saragosa, Teresa, la madre del giovane Antonio con il quale abbiamo iniziato il racconto di questo capitolo di storia, che, nonostante le difficoltà economiche, portò in dono alla piccola Vittoria un paio di orecchini con le perle nere, in occasione della morte dell’ancora giovane padre alla fine di giugno del 1944.
Non mancarono neanche a Badolato le note color rosa. Di una famiglia che abitava a Mingiano facevano parte due sorelle, due belle ragazze che attiravano l’attenzione di non pochi giovani badolatesi. E due nostri baldanzosi artigiani se ne innamorarono, ben corrisposti. E furono per mesi fidanzati, pubblicamente, anche se per motivi vari non poterono coronare con il matrimonio il loro sogno d’amore. Una delle due, però, andò via da Badolato portandosi in grembo il frutto di tale amore, giovanile e certamente sofferto. Nota rosa anche nella chiesa di San Nicola, dove il parroco del tempo, professore don Francesco caporale, fu ministro alle nozze di due giovani sfollati. Speravamo di trovare il relativo documento, che avremmo qui pubblicato, ma nulla: al Municipio non c’è traccia; il registro dei matrimoni della parrocchia è proprio scomparso!
A quasi sessant’anni di distanza c’è ancora chi pone l’accento sulla fede religiosa che animava questi nostri ospiti nelle loro manifestazioni. E noi siamo lieti di poter qui pubblicare, quasi reliquie, alcuni versi che la gente d’Anzio, di Cassino e di Nettuno cantava spesso per le vie di Badolato:
Madonna di San Rocco / proteggi noi sfollati / che fummo perseguitati / dalle bombe del terror.
E ancora:
Addio, Madonna, / noi siamo in partenza: / la Vostra presenza / dobbiamo lasciar.
Evviva la Madre, / prodigio d’Amore; / evviva il Signore / che a noi la donò.
Cantavano spesso questi nostri sfollati, nonostante la precarietà e la sofferenza. Chi scrive ha ancora nelle orecchie un motivetto che sentiva spesso canticchiare e fischiettare per le strade:
Ci rivedremo a maggio / con tanto rose / con tante rose/…..
In luglio il fronte di guerra si era già spostato a distanza di sicurezza per le zone di cui a questo scritto (Roma era stata liberata il 4 giugno). Si cominciò pertanto a parlare di rientro dei profughi. Uno di loro, certo Umberto Cocco, il 3 agosto 1944 fece pubblicare su un quotidiano di Catanzaro un commovente “Saluto alla terra di Calabria”:
“Il sospirato giorno in cui noi profughi di guerra, pellegrini del dolore e della sventura, potremo far ritorno nelle nostre terre e nelle nostre case, è vicino. Esse sono, forse, sconvolte, sono forse distrutte, perché dove passa la guerra, là passa la rovina, là passa la morte degli uomini e delle cose, ma noi vi ritroveremo sempre qualche cosa di sacro e di caro … prima di lasciare questa terra ospitale e generosa di Calabria … noi sentiamo imperioso il dovere di salutare e ringraziare, con la voce del cuore, la brava e buona gente calabrese …”. Le truppe alleate erano alle porte di Firenze.
I nostri, da Badolato, da Isca e dai paesi vicini, sono partiti tra la fine di agosto e i primi giorni del mese di settembre.
Abbiamo chiesto al preside Nardone come ha trovato Cassino al rientro. Ci ha risposto che le macerie più alte erano quelle del campanile della chiesa, non più di 6/7 metri. Gli abbiamo pure chiesto, sia pure con riluttanza per doverosa pudicizia, per quale motivo non è stata scritta da alcuno la storia dello sfollamento e degli sfollati, pur essendosi consumati fiumi d’inchiostro scrivendo della guerra. Mi ha risposto, con velata mestizia palpabile anche per telefono: “per oltre quindici anni abbiamo dovuto pensare a ricostruirci un tetto, una casa, lo spazio per vivere. Poi … è probabilmente subentrata una sorta di rimozione, perché la vita potesse continuare”.
Piero Nocca in una delle nostre telefonate ci ha invitati a Cassino, altrimenti … verrà lui qui da noi. Aveva dieci anni quando viveva a Mingiano, nel baraccone ormai scomparso da almeno venti. I ricordi quel segmento d’infanzia non lo hanno abbandonato mai. Ed è un bene avere tanti e forti ricordi. Non siamo certi di poter asserire, però, che sia un bene anche quando si tratta di tristi ricordi d’infanzia, di sofferenza, di dolore.

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