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Studi Cassinati, anno 2010, n. 1
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di Costantino Jadecola
È il 3 luglio del 1835 quando don Pasquale Cavacece, un grosso proprietario terriero di Piedimonte San Germano, rivolge domanda (in bollo, da grana 6) all’intendente della provincia di Terra di Lavoro per ottenere l’autorizzazione a riattivare un mulino già appartenuto all’ex Duca di Sora1. Ubicato sulla “Montagna di Cayro in tenimento del Comune di Colle San Magno” esso era “animato dalle acque che sorgono in un fondo di Don Luigi Giovinazzi, le quali intersecando una strada pubblica, si gettano in un fondo di Angelo Paolozzi, ove trovasi il fabbricato per uso di detto Molino”. Riattivando “tale macchina”, fa notare Cavacece, si “porterebbe sommo vantaggio ai Comuni di Colle e Terelle non che agli abitanti di quelle contrade, essendo ora i medesimi obbligati di andare a macinare nella distanza di più miglia”.
Nonostante l’apparente bontà del fine dell’iniziativa proposta da Cavacece, il sindaco di Colle San Magno, don Vincenzo Cenci, lascia intendere, però, di essere di diverso avviso in quanto, a suo dire, le acque in questione “servir debbono per uso pubblico”. “Solo un pretesto”, ribatte Cavacece. E aggiunge che il sindaco agirebbe non “pel bene pubblico ma per fini privati”. D’altro canto lui “vorrebbe far uso delle acque in parola senza punto deviarle dall’attuale corso (…) ed affinché la strada, sulla quale passano le acque rimaner possa libera al passaggio, si obbliga”, addirittura, “di farvi un ponte a proprie spese”.
In prosieguo, però, Cavacece deve vedersela più che con quello di Colle San Magno con il comune di Palazzolo (poi Castrocielo) che su quelle acque che lui intende utilizzare accamperebbe addirittura dei diritti. Tant’è che il sotto intendente di Sora, informando del problema l’intendente della provincia di Terra di Lavoro (25 luglio 1835), ritiene che “converrebbe aver presenti i titoli di acquisto di coloro che comprarono tali beni dall’ex Stato di Sora per conoscere se mai quel locale una volta ad uso di molino fosse stato incardinato ad uno dei fondi con vicini oppure, perché invenduto, dal Comune si fosse reclamato”.
Naturalmente Colle San Magno non sta a guardare. Infatti, il suo decurionato, il 3 settembre, dopo aver discusso sul tema afferma che sul proprio territorio comunale “niuno de’ limitrofi Comuni vi vanta de’ diritti (…) poiché l’intiero nostro Tenimento ogni diritto possessoriale fu venduto ed assegnato al nostro Comune dall’Ill.ma Sig.ra Marchesa di Pescara nell’anno millecinquecentoquarantotto” sulla base di un “titolo autentico ancora conservato fra i nostri documenti e con cui spesso ci opponiamo alla ingordigia degl’agenti de’ Comuni limitrofi. I monti adunque, le acque fluenti, ed ogni edificio antico esistente nel nostro tenimento appartengono tutti al nostro Comune, come comprovasi dal titolo autentico, dell’epoca menzionata, cioè dall’istrumento di vendita e cessione della lodata Sig.ra Marchesa.”
Non la pensano così a Palazzolo dove il decurionato, sindaco a quel tempo è Luigi Marragony, il 20 settembre, a proposito del mulino che Cavacece intende riattivare, ribadisce che esso si trova sì “in tenimento di Colle San Magno” ma “in un fondo in cui vanta diritto questo Comune”, cioè Palazzolo. Del resto, si afferma, le acque che si vorrebbero utilizzare sono le stesse che, “per mezzo di un acquedotto in fabbrica di antichissima data, alimentano l’unica fontana che somministra le acque a questa popolazione, essendo in luogo assai prossimo all’abitato”, trovandosi, infatti, quella fontana, detta Pisciarello, nella zona di villa Euchelia, esattamente dove termina la strada che costeggia il Monacato e, un tempo, aveva inizio il tratturo che saliva alla Forma di Cairo. Ma, aggiunge il sindaco Marragony, “se per poco si volesse secondare le mire di esso Cavacece, questi naturali sarebbero costretti a servirsi di acque rifiutate da un mulino, e perciò corrotte, e nocive alla pubblica salute, cosa strana a solo voler pensare ed ammettere, che perciò da ora si protesta di adire la giustizia penale per qualunque piccola novità che l’aspirante abusivamente potesse commettere su detto acquedotto, in pregiudizio di questi naturali”.
Due anni dopo la questione è ancora aperta. Anche se, secondo Cavacece, a Palazzolo non dovrebbero preoccuparsi più di tanto perché le acque non subirebbero alterazione alcuna. Anzi, “La loro fontana resterà perenne nello stato attuale, e le acque che bevono, che ora son lorde e corrotte pel traffico degli uomini e degli animali per l’uso di lavare ed abbeverare si renderanno pulite colla costruzione di detto mulino”.
Ad interessarsene è ora il consiglio d’intendenza della provincia di Terra di lavoro al quale Cavacece ribadisce più dettagliatamente le proprie ragioni che si basano soprattutto sul fatto che egli non intende costruire un nuovo mulino bensì “va ad animare uno antico dell’ex Duca di Sora e ciò si dimostra da una Botte di Fabbrica circoscritta da grosse mura, la quale serviva per raccogliere le acque della sorgente denominata Forma per mezzo di un acquedotto, che si scarica nella suddetta. Quindi non una novità ma un esercizio di antichi diritti che per mezzo de’ passaggi da padrone a padrone dal citato ex Duca di Sora si sono trasmessi ai fratelli signori Angelo e Pietro Paolozzi i quali a me hanno pienamente ceduti, come risulta da istrumento da noi stipulato nel dì ventuno aprile milleottocentotrentadue, registrato in San Germano il ventotto detto al progressivo 998”.
Ma Cavacece fa anche notare che un “tal molino, che si desidera immensamente da tutti gli abitanti sparsi sul monte Cayro e dei Comuni di Terelle e Colle apporta un comodo significante col risparmio dei mezzi di trasporto, essendo presentemente obbligati quelli di Terelle dirigersi in San Germano per una strada malagevole di circa sette miglia e gli altri di Colle, e del monte Cayro presentemente si servono di quello di Roccasecca per la distanza di circa quattro miglia parimenti incomoda”. L’antico mulino era animato, come “si osserva con chiarezza”, scrive Cavacece, “dalla sorgente di acqua denominata la Forma che il Comune di Palazzolo non ha mai posseduto, né presentemente possiede, che abusivamente hanno presa dalla suddetta antica botte avendone formato il canale su di un muro di essa”. Ciò nonostante, lui però s’impegna a consentire l’uso delle acque al comune di Palazzolo “senza alterare la perennità, né la purezza, volendo con delle opere di arte raccogliere tutte le acque che si disperdono ed animare la sua macchina lasciando libero il corso di quella quantità di acque che al presente si raccoglie dal comune di Palazzolo per assicurare la pubblica fonte”; così come “gli usi, che hanno gli abitanti di quei d’intorni di abbeverare e di lavare nelle acque della Forma, precisamente nel sito ove esiste una Torretta di fabbrica, saranno rispettati; anzi migliorati colla riattazione di esso Molino con delle opere da servire in pari tempo a migliorare l’acquedotto, che mena l’acqua alla botte”.
Insomma non è proprio il caso di allarmarsi più di tanto. Per cui, conclude Cavacece, la posizione assunta dal comune di Palazzolo per essersi opposto alla riattivazione del mulino altro non ha fatto che procurare danni “non solo in pregiudizio del pubblico bene ma benanche dei miei interessi pei quali mi è dovuta la corrispondente indennizzazione di tutte le spese sofferte nel ripulire la botte ripiena di pietre e terra ed altro per l’impedimento ricevuto”.
Nel mese di novembre 1837, il decurionato di Palazzolo si riunisce per ben tre volte nello spazio di una settimana per via del fatto che l’ingegnere “di acque e strade” della provincia, Salvatore Bellino, è stato incaricato dall’intendente di compiere un sopralluogo alle sorgenti della Forma.
A Palazzolo, però, non condividono l’iniziativa tanto che il decurionato, si legge nel verbale del 15 novembre, “per niun conto intende divenire a ricognizione del sito su dette sorgive giacché è convinto che tutto ciò che pretende esso Cavacece sia sempre pregiudizievole alli diritti che questo Comune vanta su dette acque [le] quali sono le uniche, ed antichissime, che alimentano questa popolazione”, rammentando che per “qualunque piccola novità, ed attentato, ch’esso Cavacece si permettesse di fare sopra dette acque, o acquedotti”, non si esiterebbe un solo istante adire le vie legali. Nella successiva riunione del 16, il decurionato si dice invece propenso ad un sopralluogo con l’intervento, però, delle parti, “onde possano farsi i seguenti rilievi: 1) che l’acquedotto che parte dalla nostra Fontana detta Pisciarello sia di antica data, e nell’intero corso di circa due miglia fino alla sorgiva detta la Forma, tutto coverto, e chiuso, costruito espressamente per alimentare l’anzidetta Fontana; 2) che nel locale detto la Forma, l’enunciato acquedotto si divide in due rami per allacciare, e riunire le acque, che ivi si disperdevano; qual fondo non si appartiene ad esso Cavacece ma bensì ad altri particolari dal che si rileva essere state dette acque di ambedue i condotti serventi al solo uso di alimentare detta Fontana, e non altrimenti”. E, oltre questi due rilievi specifici, quant’altri ne dovessero emergere nel corso del sopralluogo.
Ma nella terza riunione, quella del 21 novembre, il decurionato cambia ancora una volta parere e delibera stavolta che, trattandosi di cosa estremamente seria, al sopralluogo intervenga “l’intero Corpo Municipale affinché ciascuno possa fare quelle osservazioni che crede necessarie”. Ed oltre ai due rilievi evidenziati nella precedente delibera, nella nuova, oltre a ribadire l’antichissimo possesso delle acque ed il ricorso alla giustizia penale anche per la benché minima variazione, si precisa “che in quel locale vi esiste una piccola pianura, e sopra di essa una collina, al di sotto della quale vi sono costruite varie grotte (opera questa fatta artificialmente dai nostri maggiori da tempo immemorabile) ed in queste vi si osserva l’uscita di molti meati i quali raccolgono le acque che scaturiscono al di sotto di quell’intero locale detto la Forma le quali vengono riunite per mezzo di due meati e questi riunisconsi in uno che è appunto quello che conduce le acque all’unica Fontana di questo Comune denominata Pisciarello”.
La relazione dell’ing. Bellino sull’esito del sopralluogo, cui è allegata una interessante “pianta geometrica” dallo stesso “all’oggetto levata”, è del 24 aprile 1838. In essa, tra l’altro, si legge che il mulino che Cavacece intende riattivare era già “in azione” anticamente: ciò viene “assicurato, in presenza degli interessati, da diversi naturali di Colle S. Magno e di Palazzuolo, per avervi essi osservate, per lo addietro, le pietre molari ivi depositate”. Ciò, peraltro, è anche confermato dalla presenza della “botte di fabbrica” che “a quest’uso fu costruita rilevandosi ciò dalla sua forma e dal foro di esito sottocorrente rivestito di pietre calcari lavorate ed aste di ferro situate in senso verticale fra esse. Questa botte è tutta situata nel fondo dei signori Paolozzi di Colle, ed attualmente in potere di Don Pasquale Cavacece …”. Quanto al comune di Palazzolo, “al presente”, riferisce Bellino, esso “trovasi in possesso di una porzione delle acque di dette sorgenti, mercé di un canale, anche coverto, innestato opportunamente in quello che un tempo dirigeva le acque nella botte, e progredendo sottocorrente sulla cresta delle sue mura si dirige fin fuori l’abitato, dove anima il pubblico fonte denominato Pisciarello. Siffatto canale trovasi guasto in diversi siti dal detto innesto all’incontro del fonte, per lo che le acque si disperdono lungo il suo cammino, e poche ne giungono agli usi di quegli abitanti.
“Un tale abusivo possesso, abbenché sia di antica data, non interrotto da veruna opposizione per parte del legittimo padrone succeduto all’ex Duca di Sora, non puó distruggere il dominio vantato dal signor Cavacece attuale possessore del fondo di liberamente far uso delle sorgenti denominate la Forma, a condizione però di non poter né togliere al Comune di Palazzuolo la perennità né la dovuta nettezza delle cennate acque potabili per doppio aspetto: 1) perché il privato deve cedere all’utile pubblico; 2) per aver il Comune, con delle opere d’arte, raccolta una quantità di acqua nella parte sopra corrente dello innesto per aumentare il volume, come rilevasi dallo esito nel verbale di seduta Decurionale de’ 21 novembre 1827, riconosciuto anche da me sul luogo. [La] quale operazione parimenti non fu controvertita (contestata, n.d.a.) dal legittimo Padrone durante la sua palese esecuzione ed in conseguenza ne venne accordata una tacita adesione. Siffatto procedere però non puó al certo, in ricompensa, meritare una privazione totale degli antichi diritti vantati”.
D’accordo, dice, insomma, l’ing. Bellino: Palazzolo ha fatto ciò che ha fatto ma non per questo è venuto del tutto a cessare “il dominio vantato dal signor Cavacece”. Dal che ne consegue, dicono a Palazzolo, che il consiglio d’intendenza si veda autorizzato a mettere “a disposizione del Cavacece la proprietà dei Palazzelesi”. Ciò, ovviamente, scatena le ire di quest’ultimi i quali, attraverso sottoscrizioni popolari, anche se di fatto limitate ai maggiorenti del paese, reclama i suoi diritti presso l’intendente di Terra di Lavoro, presso “il Segretario di Stato, Ministro degli affari Interni” e, addirittura, presso “Sua Sacra Real Maestà” che al tempo è Ferdinando II di Borbone.
Nei contenuti di questi reclami non manca qualche passaggio anche molto “piccante”: ad esempio, dell’ing. Bellino si dice che egli “crede che l’oro di Cavacece faccia zittire le Leggi”, con ciò facendo supporre che possa essere stato beneficiario di una “bustarella” da parte di Cavacece.
Analogo concetto, anche se in termini meno “brutali”, viene riproposto nel reclamo al re dove, tra l’altro, si legge: “Le leggi veglianti proteggenti non solo il sacro diritto delle Popolazioni sulle proprie acque, e che obbligano pur anche i particolari a cederle, mediante compenso, ove il bisogno lo richiegga sonosi violate. A sostenere però una lite non vale il Comune privo di rendite, i cittadini schiacciati da’ pesi Comunali, essendo l’avversario facoltoso. Avvedutamente si è sottratta la decisione della contestazione dal potere Giudiziario affinché riesca più facile coi maneggi ingannare il potere Amministrativo facendo riferire a piacere dai Subalterni, come si sta operando”.
Una curiosità, infine: nel reclamo al re, quello che è stato sempre nominato Pisciarello, diviene, forse per una sorta di pudicizia, “fonte S. Angelo”. Almeno così ritenevo finché da altre carte della stessa epoca non ho appreso che a Palazzolo esisteva anche una fontana di questo nome, nome che evidentemente derivava da quello di una cappella intitolata a Sant’Angelo, cui era prossima; la stessa che, secondo lo storico Pasquale Cayro2, si trovava “sotto lo scoglio della montagna, quando si cala da Castro Cielo” ed era stata donata a Montecassino dal giudice Grimoaldo di Aquino sul finire del primo millennio.
In realtà cappella e fontana – la cappella è stata rasa al suolo tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del secolo appena passato – erano sulla strada che sale alla parte alta dell’attuale abitato di Castrocielo e dunque anche a villa Euchelia, e si trovavano, esattamente, sul ciglio della strada antistante l’inizio della scalinata che consente di abbreviare l’accesso alla citata villa e, dunque, a non molta distanza dal Pisciarello – forse un paio di centinaia di metri – facendo così supporre che fontana Sant’Angelo era evidentemente alimentata da un prolungamento della stessa condotta che animava il Pisciarello.
Dalle nuove carte, che datano novembre 1835 e gennaio 1836, emerge, però, che in questo caso le acque provenivano da un pozzo esistente in “contrada via di Vona”, in tenimento di Colle San Magno, a sua volta animato “dalle acque di alcune picciole fontane che hanno la di loro origine nella parte meridionale della montagna di Cairo e che sono circa quarant’anni (quindi dal 1796, n.d.a.) che vennero riunite e incanalate in una forma coperta dai naturali di Colle San Magno e di Palazzolo” fino al pozzo realizzato, appunto, in contrada via di Vona.
Accade che, non si sa se “coll’aratro, o per dispetto” il “meato” venga rotto cosicché dall’utilizzo, a monte, delle acque, anche per lavarvi i panni o farvi “altre cose immonde”, ne consegue che esse giungano a Palazzolo non proprio pulite e dunque in pregiudizio di chi avrebbe dovuto “usarle per i bisogni della vita”. Ragion per cui alcuni incaricati del comune di Palazzolo provvedono ad eliminare i lavatoi nati “spontaneamente” alla Forma ed a ricoprire “la bocca del pozzo con una grossa tegola di pietra”.
È proprio questa intromissione di quelli di Palazzolo in territorio del comune di Colle San Magno – si parla, infatti, “di alcuni abusi di potere affacciati dal Sindaco di Palazzolo” – ad aprire un contenzioso che, però, sembra chiudersi nel volgere di breve tempo con l’intesa che ove una cosa del genere fosse tornata a ripetersi non avrebbe dovuto esserci intromissione in territorio altrui; semmai, un ricorso alle autorità superiori.
Una storia, dunque, quasi analoga e, comunque, parallela a quella alimentata dalle pretese di don Pasquale Cavacece di voler riattivare l’ex mulino ducale.
Come questa vada a finire, purtroppo lo si ignora dal momento che eventuali “carte” relative al prosieguo della vicenda non sono state reperite. Ma da un’indagine compiuta sul territorio a proposito della presenza di un mulino alla Forma di Cairo si è avuto, da parte dei più anziani, un ricordo molto, molto sbiadito di una tale presenza: d’altro canto, semmai esso fosse stato riattivato da Cavacece sarebbe passato molto più di un secolo e mezzo; in caso contrario, oltre due secoli addirittura fissando al primo settembre 1796 la fine del suo possesso da parte del duca di Sora.
Comunque, considerando il potere che Castrocielo aveva nell’Ottocento nel territorio c’è da supporre che don Pasquale Cavavece non sia riuscito nel suo intento di riattivarlo. Ma è solo una ipotesi. La speranza è, invece, quella di potersi imbattere in ulteriori carte dalle quali poter sapere circa la conclusione della vicenda.
1 Archivio di Stato di Caserta, Intendenza borbonica – Affari comunali, Colle San Magno. Busta 2521.
2 Pasquale CAYRO, Storia sacra e profana di Aquino e sua diocesi. Presso Vincenzo Orsino. Napoli, 1808 (I vol.); 1811(II vol.). Ristampa: Storia civile e religiosa della diocesi di Aquino a cura dell’Associazione Archeologica – Museo Civico di Pontecorvo. 1981. II, pag. 61.
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