IN PRIMA LINEA FRA LE ANSE DELLE GIUNTURE Ricordi di guerra di un tredicenne: Arnaldo De Angelis

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Studi Cassinati, anno 2009, n. 3
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di Costantino Jadecola

In origine il suo nome era Giuntura, “in loco juntura”, come scrive Ottavio Fraya-Francipane, archivista dell’abbazia di Montecassino, nei cui possedimenti ricadeva. Si trattava, in sostanza, del luogo dove “l’acqua del fiume Rapido, o sia Peccia”1 si univa con quella del Garigliano. Un errore di vecchia data. Infatti, sono le acque del Gari quelle che confluiscono nel Liri e, insieme, formano il Garigliano, come il fiume si chiama nei restanti chilometri che lo separano dal Tirreno.
Col tempo il luogo, da Giuntura divenne Giunture ad indicare, appunto, tutta la zona compresa tra le molte anse dei due fiumi. Ed è proprio qui, alle Giunture, ovvero nella parte più bassa del territorio del comune di Sant’Apollinare e nelle zone immediatamente circostanti, che sono ambientati i ricordi di guerra di Arnaldo De Angelis che all’epoca del secondo conflitto mondiale aveva circa tredici anni.
A quel tempo egli viveva solo con la madre, Maria Giuseppa Costantini, 48 anni, nella stessa casa dove abita oggi, ovviamente in via Giunture, nel luogo indicato sulle mappe catastali come Case De Angelis. Il papà Raffaele, invece, era negli Stati Uniti così come il fratello Luigi, tutti e due emigrati.
I ricordi di Arnaldo – si tratta non sempre di testimonianze dirette ma anche di “sentito dire”, tiene a precisare – iniziano dall’estate del 1943 quando, dice, “la situazione era piuttosto tranquilla perché
i tedeschi erano ancora alleati dell’Italia”. Già allora erano presenti a Sant’Apollinare: “erano accampati a Pantanelle-San Marco, a nord del paese verso San Giorgio e spesso il giorno, quasi sempre di pomeriggio, tutti inquadrati andavano al fiume a fare il baguo”.
Poi, però, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre la situazione di punto in bianco muta. “E una mattina”, racconta Arnaldo, “ci vedemmo presentare un maresciallo, otto/dieci soldati tedeschi ed alcuni civili con picco e pala: dovevano costruire ricoveri, trincee e camminamenti. Ma cosa fecero l’ho visto dopo, perché allora dovemmo andar via”.
Lui e sua madre, infatti, sono obbligati ad abbandonare casa. “Di conseguenza fummo costretti a spostarci di circa un chilometro verso contrada Costantini e, successivamente, ad Antridonati. Per affrontare quest’ultimo spostamento dovemmo attraversare il fiume Gari, cosa che fu possibile grazie ad un passaggio involontariamente creato dagli stessi tedeschi che, servendosi anche di manodopera civile, avevano abbattuti tutti i salici presenti sulle due sponde del fiume per avere una migliore visibilità nel caso in cui ci fosse stato un attacco alleato. Poiché molte delle piante abbattute erano finite nel fiume, ‘intruppandosi’ tra loro avevano creato una sorta di passerella che noi utilizzammo quella notte per passare sull’altra sponda”.
Tempo dopo i tedeschi iniziano a costruire una linea difensiva che Arnaldo chiama “delle Giunture”: “si trattava di una fascia minata che dal fiume Gari, località Imbuto Campa, si estendeva fino al fiume Liri, zona Pizzone. In questa fascia, larga un centinaio di metri e distante dalle abitazioni più prossime circa un chilometro, erano stati dislocati vari tipi di mine; in prossimità delle abitazioni invece, erano state realizzati un paio di reticolati rinforzati da 5 o 6 postazioni di mitraglia”. E proprio dirimpetto alla casa di Arnaldo, “presso la masseria Danese, dentro un magazzino, piazzarono un cannone orientato verso Mignano la cui operatività era consentita attraverso due aperture di circa un metro di circonferenza praticate in altrettante mura. A completare l’opera, la sera, ad una certa ora arrivava un carro armato, dalla gente ribattezzato “la katiuscia”, che emetteva alcuni suoni ad ognuno dei quali corrispondevano sei colpi sparati in direzione di Mignano. Conclusa la missione, il carro tornava da dove era venuto, cioè dalle parti di Pignataro”.
Anche questo “soggiorno” non dura più di tanto. Fatti sloggiare dai tedeschi, Arnaldo e sua madre si spostano “non più di cinquecento metri, in una stalla di contadini da dove”, dice Arnaldo, “la notte successiva, vedemmo saltare in aria tutte le case di Antridonati. Non dimentico le fiamme altissime: quindici, forse venti, metri”.
Per i due ci sono poi altri spostamenti ancora: a Colle Romano, presso Sant’Angelo in Theodice, e da Colle Romano ai Ricci, sempre presso Antridonati.
“Un giorno arrivò una squadra, o forse un plotone dì soldati tedeschi, che sostò tra i ruderi di alcune delle case di località Ricci che ancora offrivano una qualche protezione. Tale presenza, però, non dovette sfuggire ad una cicogna americana che quel giorno volteggiava in cielo se la notte successiva un cannoncino posizionato dalle parti di Mignano cominciò a bersagliare ininterrottamente proprio la zona dove i tedeschi si erano riparati. I soldati cercarono di evitare o limitare i danni ma per muoversi dovettero attendere che si facesse giorno. Si venne poi a sapere”, continua Arnaldo, “che erano diretti a monte Porchio dove, essendo la posizione che avrebbero dovuto occupare già stata conquistata dagli inglesi, sarebbero stati da questi tutti uccisi”.
Una mattina Arnaldo incontra un uomo di una certa età accompagnato dal proprio figlio, che poteva essere suo coetaneo. Incuriosito dal fatto che l’uomo portava con sé un boccione di vino bianco e mezza pagnotta di pane, Arnaldo gli chiede dove mai andasse. E l’uomo rispose: “Vado dagli americani”. “Perché, dove stanno gli Americani?”, chiede Arnaldo. “Alla massaria”(cioè agli Antrodonati), dice l’uomo. Arnaldo non ci pensa due volte e si unisce ai due. “Quando giungemmo dove stavano gli americani questi dormivano ancora. Era, difatti, ancora molto presto. Poiché il mio compagno era stato in America, e dunque conosceva l’inglese, quando fu possibile cominciò a scambiare qualche parola con alcuni soldati, gli stessi che a me” ricorda Arnaldo, “diedero caramelle e cioccolata e chiesero se sapevo dove poter trovare dell’acqua. Risposi affermativamente e per quattro cinque giorni andai a riempire loro le borracce. Poi, evidentemente, i tedeschi scoprirono questa presenza di americani e riversarono contro di essi un fuoco micidiale. E io, ‘acquattato’ insieme a loro, agli americani, cioè, dentro una trincea passai davvero un brutto quarto d’ora”.
Ai Ricci, al di qua del Gari, racconta Arnaldo, “c’era una pattuglia americana formata da diciassette uomini, sedici soldati e un sergente maggiore, che di notte usciva in perlustrazione. Una notte scopre una decina di soldati tedeschi intenti a piazzare delle mine per far saltare l’abitazione della famiglia Coppola posta su un’altura prossima al fiume e li prende prigionieri. Gli americani però ignorano che un’altra decina di tedeschi sono impegnati in una operazione dello stesso genere presso il mulino, sempre di proprietà dei Coppola, un centinaio di metri più giù, quasi sulla sponda del fiume. Che, terminata la loro opera, non vedendo tornare i camerati che dovevano minare casa Coppola, dopo che era passato un ragionevole lasso di tempo, si mossero per vedere che fine avessero fatto i compagni. A rendersi conto di ciò che era accaduto non ci misero più di tanto. Così come a capovolgere la situazione: insomma, grazie anche alla loro superiorità numerica, i tedeschi fecero prigionieri gli americani. Verso l’una o le due di notte, in un buio pesto, uno dei prigionieri americani, mentre con i suoi compagni catturati venivano scortati verso la ‘base’ tedesca, riuscì a nascondersi dietro una siepe, salvandosi: i suoi commilitoni, infatti, sarebbero stati tutti impiccati ad una pianta di quercia e poi gettati in un pozzo, come si sarebbe saputo dopo”.
L’incontro con Arnaldo De Angelis consente anche di focalizzare meglio uno degli eventi più drammatici della battaglia di Cassino. Quello, a seguito del quale, tra il 20 e il 22 gennaio 1944, e comunque in poco meno di 48 ore, la 36ª divisione americana Texas venne letteralmente decimata dai tedeschi: perse, infatti, ben 1681 uomini, 875 dei quali dispersi o prigionieri e tutti gli altri morti. Buona parte di questi uomini appartenevano al 143° reggimento fanteria incaricato di superare il Gari a sud dell’abitato di Sant’Angelo in Theodice (a nord operava il 141°), cioè proprio in zona Giunture e, più precisamente, in località Agnone. Arnaldo dice: “Ricordo di quando ottocento soldati americani hanno fatto l’avanzata e superato il fiume, si sono appostati sulla sponda opposta dove i tedeschi, che avevano seguito tutta l’azione predisponendo l’occorrente per bloccarli, hanno aperto il fuoco. Fu una carneficina. Che io sappia, se ne sarebbero salvati solo tre che, malconci, passarono dalle parti dove noi eravamo sfollati a alla ricerca della Croce Rossa”.
Arnaldo e sua madre dai Ricci si spostano ancora a Fontana Rosa “dove, tra i soldati americani, ce n’erano un paio di origine italiana, tutti e due impegnati nell’artiglieria americana, i quali, spesso, la sera venivano da noi: uno si chiamava Giuseppe, Peppino, ed era figlio di napoletani; l’altro, Domenico, era figlio di genitori di origine siciliana”.
In località Cacenti, vicino gli Angelosanto, Arnaldo ha poi l’opportunità di frequentare soldati neozelandesi “anche ai quali andavo a riempire le borracce di acqua; in cambio mi consentivano di utilizzare uno dei binocoli in dotazione grazie ai quali ho avuto l’opportunità di seguire il bombardamento di Montecassino: vidi squadriglie di bombardieri americani che passavano per San Vittore e Cervaro, sganciavano le bombe su Montecassino e poi tornavano indietro per Pignataro e Sant’Apollinare. Ma quella che mi è rimasta più impressa è stata la terza ondata: tutte bombe incendiarie. ‘S’appiccette’ tutta la montagna di Montecassino”.
Tra gli altri ricordi di Arnaldo “il ponte sul fiume Gari” e “quella strada larga dodici metri che da Casamarina attraverso Giunture arrivava fino a San Giorgio ed era percorsa da continue colonne di carri armati”, opere entrambe realizzate dai canadesi, come pure, del resto, “la condotta con tubi di ferro che da Casamarina portava la benzina fino al deposito costruito al centro delle Giunture: quando a fine guerra i tubi furono tolti uscì tanta benzina da riempire tutti i fossi di scolo”. E racconta poi di quel lavatoio dalle parti di Collenuovo presso il quale “operavano” soldati tedeschi vestiti da donna “per attirare l’attenzione degli alleati che naturalmente abboccavano, venendo di conseguenza catturati dalle finte lavandaie”.
In previsione della grande offensiva di maggio, “gli americani”, ricorda Arnaldo, “ci dissero che era giunto il momento in cui dovevamo andar via. Così ci misero sopra i camion e ci portarono dapprima a Pietra Vairano, dove la notte dormimmo sotto le tende, e poi ad Aversa, dove restammo tre giorni. Quindi da Aversa, ma stavolta in treno, fummo trasferiti in Calabria, a Cosenza, da dove venimmo successivamente smistati in vari comuni. Noi fummo destinati a San Marco Argentano, vicino Castrovillari, ed alloggiati in vecchie caserme. Eravamo parecchi: c’erano di Sant’Andrea, di Sant’Elia, ecc. Siamo rimasti fino al 20 di giugno. Poi di nostra iniziativa siamo tornati a casa.
“Intanto, nel mentre persisteva il fronte, alle Giunture non c’era più nessuno, Erano tutti sfollati. Molti passavano i1 fronte attraverso un ruscello denominato Selvalunga e lungo circa 3 chilometri, che dalle Giunture arrivava al Garigliano nei pressi del ponte di San Ambrogio: traversato il fiume a nuoto, si saliva la collina di Casamarina dove si trovavano gli alleati inglesi e francesi. In una di queste traversate, il nostro parroco, don Giuseppe Messore, rischiò di affogare se non fosse intervenuto a soccorrerlo Antonio Maratta”.
Ma quando siete tornati alle Giunture, com’era la vita? “La vita, dopo, è stata una vita da disperati: si sopravviveva raccogliendo il ferro vecchio”.
Alla fine una domanda s’impone: ma mamma Maria Giuseppa come sopportava la ‘vivacità’ di suo figlio? E Arnaldo ammette: “Talvolta era davvero imbestialita. Come quella volta che, dopo tre, quattro giorni di assenza da ‘casa’, venne a ricercarmi tra le trincee americane”.

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