Parlar bene dei briganti offende il sentimento nazionale?

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Studi Cassinati, anno 2009, n. 4
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Lettere al Direttore: Riceviamo da Fernando Riccardi da Roccasecca

Tra brigantaggio postunitario e revisionismo storico

Roccasecca, 2 novembre 2009

Caro Direttore,
lo scorso 17 ottobre, a Mignano Montelungo, l’associazione culturale “Oikia” ha organizzato un convegno avente ad oggetto il brigantaggio post-unitario nell’alta di Terra di Lavoro. Una manifestazione davvero ben riuscita che ha richiamato una grande affluenza di pubblico a dimostrazione che la materia è di quelle che, quanto meno, stimolano la curiosità.
Le relazioni mi sono parse assai interessanti, in particolar modo quella dell’amico Maurizio Zambardi che ha tratteggiato mirabilmente la figura, per alcuni versi enigmatica, del brigante Domenico Fuoco. Niente da dire, infine, sulla coreografica partecipazione dei figuranti dell’associazione “Antica Terra di Frontiera” e sulla presenza del musicista Benedetto Vecchio, leader degli Mbl, che ha deliziato la platea con i suoi brani struggenti. Al termine dei lavori avrei voluto intervenire. Poi, però ho preferito soprassedere. Ho pensato, pertanto, di affidare a te, e a “Studi Cassinati”, le mie riflessioni. In questi convegni (e posso assicurare che ne frequento moltissimi su e giù per lo Stivale) i relatori o, almeno, una gran parte di essi, sono sempre assaliti da un timore lacerante: quello di compiere quasi un delitto di lesa maestà giungendo a mettere in discussione l’unità d’Italia. E allora ci si arrabatta, ci si arravoglia, ci si attorciglia, ci si barcamena. Insomma si dice e non si dice. Così facendo, però, non si aiuta il pubblico, nel quale gli addetti ai lavori non abbondano di certo, a capire cosa è effettivamente accaduto in quel travagliato periodo.
La stessa cosa è accaduta anche a Mignano dove la pur ottima relatrice, la prof.ssa Cortellessa, pur lasciando intuire dalla sua esposizione alcuni chiari concetti, si è ben guardata dal prendere una posizione inequivocabile. A mio avviso, specialmente in certe occasioni, si ha il dovere di essere espliciti. E se si è convinti che quella piemontese nel meridione d’Italia fu un’occupazione “manu militari”, bisogna dirlo, senza remora alcuna. Così come non si deve avere il timore di rendere noto che i “fratelli” piemontesi chiamavano i meridionali, e quindi anche noi regnicoli dell’alta Terra di Lavoro, “affricani” e “caffoni”, rigorosamente con due effe. Né di nascondere il vero significato della parola “druda” che gli invasori venuti dal nord affibbiavano alle nostre donne che avevano avuto il torto di seguire i loro uomini sulla via della montagna, a volte solo per fame o per disperazione.
Sì, è vero, qualche parolina in proposito è stata detta ma il tutto è rimasto velato, quasi nascosto o, per lo meno, non esplicitato con la dovuta forza e convinzione. Sempre nel timore che parlare troppo bene dei briganti oppure dare una giustificazione alle loro imprese (a volte anche truculente e sanguinarie) possa offendere il sentimento nazionale e il percorso, lungo, tortuoso e controverso che condusse nella seconda metà dell’800, all’unificazione della Penisola. Nessuno vuole tornare indietro, a quando l’Italia era un coacervo indistinto di stati e di staterelli. Nessuno ha troppa nostalgia per un passato che, proprio in quanto tale, non potrà più tornare né tanto meno vagheggia anacronistiche restaurazioni.
Qui si vuole soltanto ricostruire il reale andamento degli eventi sui quali una storiografia troppo partigiana per tanto tempo ha suonato imperiosa la grancassa. E allora, magari, si comprenderà finalmente che quello di Teano (o, meglio, di Taverna Catena di Vairano) tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia, non fu un incontro alla “Via col vento”, con tanto di baci e abbracci affettuosi, ma un vero e proprio scontro titanico tra due persone che si detestavano e quasi si odiavano. E forse si riuscirà anche a capire quali furono le motivazioni, quelle vere, che indussero i briganti ad abbandonare il loro misero focolare e a muovere guerra ai piemontesi, una guerra sporca, già persa in partenza, una “guerra cafona” (questa volta con una effe sola) come ha scritto Salvatore Scarpino in un suo bel libro che si legge tutto d’un fiato. Se però si continuerà a mascherare le cose, a prendere rigorosamente le distanze, a rimanere timorosi e pencolanti tra storia reale e storia artefatta, quell’operazione verità che da più parti si auspica, finanche nei fin troppo ingessati ambienti accademici, sarà rimandata fatalmente a data da destinarsi.
Nel frattempo i nostri figli continueranno a credere alla favola che un migliaio di avventurieri, capeggiati da un curioso generale di rosso vestito, riuscì nella mirabolante impresa di conquistare un regno e di sconfiggere un esercito vero ed agguerrito come quello di sua maestà borbonica. Nello scorso mese di settembre sono stato invitato a tenere una relazione sulle brigantesse del decennio post-unitario in quel di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, nei pressi di Melfi. Giunto sul posto ho notato sul portale di ingresso del palazzo dove si svolgeva la manifestazione una imponente gigantografia di una figura femminile: era Michelina De Cesare. Stavo per entrare nella sala quando un gruppetto di persone si è avvicinato per congratularsi con me. Eppure non avevo ancora profferito verbo. Ma essi prontamente mi spiegarono che per loro Michelina era una vera icona, incarnava la figura di una fulgida eroina che non si era piegata alla forza dei soprusi e delle armi. “Beato lei – mi disse un anziano signore vestito distintamente – che proviene da quella terra che ha partorito cotanta donna”. Lì per lì rimasi basito e non riuscii a dire altro se non ringraziare confusamente.
Solo in un secondo tempo riuscii a mettere a fuoco il tutto. Era però troppo tardi per replicare. Mi ero ripromesso di incontrare quel signore a fine convegno per conoscere più a fondo i motivi di quella profonda devozione per una donna vissuta tanti anni fa, per una brigantessa che i piemontesi (e non solo essi) consideravano una “lurida cagna”. Però non è stato possibile.
Venendo all’appuntamento di Mignano, paese natale di Michelina De Cesare, mi è tornato in mente quell’episodio. Lo avrei voluto raccontare alla platea lì convenuta specie quando il sindaco ha dato lettura di una mail proveniente dalla Calabria che proponeva al consiglio comunale di intitolare una strada alla brigantessa. Poi, però, ho desistito e non soltanto per l’ora tarda. E quando il primo cittadino, raggiante in volto, si è molto rallegrato di non avere avuto briganti tra i suoi antenati, ho capito di aver preso la decisione giusta.

Molti cordiali saluti

Fernando Riccardi

Caro Riccardi, quello che da tempo vai facendo con le tue ricerche, i tuoi articoli, le tue conferenze, si è soliti bollare come “revisionismo storico”. Ora è su questo concetto che vorrei soffermarmi.
Il termine revisionismo ha in sé il suffisso “ismo”, che, come tutti gli “-ismi”, in campo medico prima, e in quello sociologico dopo, ha assunto una valenza negativa, il più delle volte in maniera fondata. Lo stesso accade nel campo della storiografia: vedi i vari fascismo, stalinismo, colonialismo, proibizionismo, ecc.
Tuttavia non è sempre così, anzi, nel caso nostro, direi che non è più così.
Fino ad ora nel settore accademico della storiografia si è tacciato di revisionismo chiunque volesse rimettere in discussione verità storiche sedimentate, apoditticamente accettate e non più sottoponibili a critica scientifica, considerando ogni tentativo di revisione illegittima manipolazione della storia.
Tale atteggiamento riguarda per lo più quegli storici che appartengono ad un establishment di circoli storiografici che ha conferito loro autorevolezza, e che per questo spesso non hanno interesse ad ipotesi revisioniste.
Ma se c’è un campo, nella ricerca scientifica, nel quale nulla puó essere considerato acquisizione definitiva, quello è proprio il campo della storiografia. Non sto qui ad elencare l’infinità di casi di rettifiche, talvolta addirittura rovesciamenti, delle conoscenze storiche in seguito a nuove scoperte, a nuovi documenti, alla rimozione di false testimonianze, allo studio basato su diverse prospettive.
Puó altresì accadere che il consenso consolidato e i vecchi paradigmi, non siano più sufficienti a spiegare la ragione di certi eventi del passato, di qui la necessità di una revisione libera da teoremi precostituiti. Se così non fosse staremmo ancora all’idea di un Nerone pazzoide ed incendiario e alla concezione del medioevo come periodo buio della storia. Ben venga, in tal senso, il “revisionismo”.
Allora rivisitare il periodo del cosiddetto “brigantaggio postunitario” per conoscerlo meglio non è un ghiribizzo di storici dilettanti e nostalgici o, come si usa dire, di filoborbonici, ma è un sacrosanto diritto di ricercatori meridionali ad analizzare quel periodo spogliandolo della retorica della storiografia sabauda – che poi è diventata storiografia scolastica – e, in ultima analisi, a cercare di riscrivere la propria storia, che fino ad ora è stata scritta da altri, che, spesso, avevano ben altri interessi che la verità storica. Che c’è di male a sospettare che non fossero poi tutti malavitosi e briganti quelle migliaia di uomini che, spesso con le loro donne, abbandonarono la tranquillità del focolare domestico per darsi alla macchia e morire combattendo contro uomini che parlavano una lingua diversa dalla loro, rinunciando molte volte a darsi alla fuga? Quando si leggono documenti e testimonianze che dimostrano il contrario di quanto scritto dalla storiografia di maniera, e volutamente ignorati, si avrà pure il diritto di esercitare quel revisionismo di cui parlavo più su.
Non sto qui a dire cosa io pensi del fenomeno del brigantaggio perché certamente non interessa a nessuno, anche se più di uno riterrà, a questo punto, di sapere come la pensi. Tuttavia ritengo pericoloso lasciarsi prendere dalla foga della ricerca di una verità nuova, dalla voglia di riscrivere da capo la storia di quel periodo, perché il rischio è quello di cadere nella deriva filoborbonica, che non porta da nessuna parte.
Non credo, inoltre, che persone come il nostro Riccardi abbiano il desiderio di riportare l’Italia ai tempi antecedenti all’unificazione o, addirittura, restituire ai Borbone il trono di Napoli; né credo che vogliano santificare i briganti postunitari definendoli tutti martiri. Sarebbe come adottare quegli stessi canoni storiografici ai quali si vogliono opporre: o tutti briganti o tutti patrioti!
Ricordiamoci, infine, che da ogni parte della nostra Penisola (ma anche in altri paesi) c’è la tendenza a salvaguardare i dialetti locali, a riportare in auge le antiche tradizioni; ma perché? Per non perdere la propria identità sociale e culturale, si dice. Ebbene, che cosa più della storia locale è la somma delle conoscenze di tradizioni, lingua, abitudini alimentari, religiose, civili di un popolo?
Ben vengano, dunque, queste ricerche e, se approdano ad esiti diversi da quelli canonici, mostrano tutto il loro diritto di esserci e di farsi conoscere. Chi invece mostra di non aver coraggio sufficiente, come tu dici, ad esprimersi con la chiarezza dovuta circa le questioni dell’unificazione nazionale per timore di giudizi non lusinghieri verso la propria persona, farebbe bene a tacere e a non esporsi.

e. p.

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