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Studi Cassinati, anno 2009, n. 1
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di Fernando Riccardi
Il 2 ottobre del 1861 l’intendente di Gaeta, dalla sua residenza di Mola, inviava al governatore della provincia di Terra di Lavoro, in Caserta, un rapporto inquietante.
“Signor Governatore è del tempo che li individui armati, i quali furon gli uccisori di Naselli a Roccaguglielma scorrazzano quel tenimento toccando questi pure di Mola e Traetto. Da miei precedenti rapporti potrà rilevare quali perlustrazioni si son dalla truppa Guardia Nazionale colà fatte, ma inutilmente poiché le località son vaste e boscose; intanto tengono perplessi quelli che son obbligati attraversare quei monti per loro bisogni commerciali, e giorni indietro catturaron i bauli dell’appaltatore della neve che dovettero sborsare 20 piastre per riaverli. Da tutti viene riconosciuta la impossibilità della cattura di questi assassini. Quindi mi son rivolto a poche Guardie Nazionali di Spigno che hanno promesso pedinarli per averli vivi o morti mercé lo sborso di 50 ducati che in parte saranno pagati da particolari oblatori per non aggravare l’erario”1. I briganti imperversavano nel comprensorio aurunco determinando una situazione di anarchia e disordine. Gi scarsi contingenti di truppa piemontese e i reparti di guardie nazionali (i corpi civici che in ogni comune, dopo l’unità d’Italia, avevano sostituito le guardie urbane), non riuscivano ad assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico. Il fenomeno era così virulento da provocare l’interruzione dei rapporti commerciali e degli scambi economici tra i paesi dell’interno e le località costiere. L’intendente, non a caso, faceva riferimento al sequestro dei “bauli dell’appaltatore della neve” che i briganti avevano restituito solo dopo l’esborso di 20 piastre. Una curiosa circostanza che porta alla ribalta un’antica usanza della quale oggi si è persa ogni traccia. Un tempo la neve era indispensabile per refrigerare e conservare taluni alimenti. E così ci si recava in montagna, si prendevano i pezzi di ghiaccio, si riponevano nelle ceste e si recapitavano a chi ne faceva richiesta. Il che faceva prosperare un commercio assai remunerativo.
Ma torniamo a quel rapporto.
L’intendente, senza nascondersi dietro un dito, riconosceva che i briganti, stazionando incontrastati sulle montagne, rendevano molto difficoltoso il flusso di uomini e di merci verso il mare. L’attività di repressione, pur esperita con vigore, non aveva dato i frutti sperati specie perché le località “vaste e boscose” consentivano agli stessi di farla franca.
Per questo motivo si era pensato di chiedere aiuto alle guardie nazionali di Spigno promettendo una lauta ricompensa (50 ducati) nel caso riuscissero a catturare, vivi o morti, quei briganti.
Il premio era stato messo a disposizione da alcuni privati cittadini per non gravare troppo sul già esangue erario pubblico.
Insomma si era posta sul capo dei briganti una taglia, proprio come si faceva nel vecchio West. E la cosa non deve affatto meravigliare: nel corso del decennio post-unitario il sistema delle taglie fu impiegato in larga scala e produsse risultati non disprezzabili.
Tre giorni dopo, il 5 ottobre, il governatore di Caserta rispondeva all’intendente, approvando in toto la sua iniziativa e promettendo “ai militi che ne hanno ottenuto l’incarico oltre del premio convenuto altra considerazione del Governo”2.
Ma chi erano quei briganti che spadroneggiavano inafferrabili? A quale banda appartenevano?
Difficile dirlo anche perché nel carteggio mancano riferimenti precisi.
In quel periodo, comunque, Roccaguglielma, l’odierna Esperia, era un borgo assai turbolento che non aveva accettato di buon grado il passaggio repentino dai Borbone ai Piemontesi. Si era trasformato, pertanto, in un riottoso covo di briganti con le forze dell’ordine che faticavano terribilmente a tenere sotto controllo la situazione.
Pochi mesi prima, nel settembre del 1860, una violenta insurrezione aveva sconvolto il paese e molti ci avevano rimesso le penne. L’odio si era rivolto soprattutto contro alcuni ricchi possidenti, i Roselli, i Fantacone, i Trombetta, gli Alberj, i De Santis, i quali avevano sposato, più per convenienza che per convinzione ideologica, la causa unitaria. I loro palazzi vennero incendiati e depredati dalla plebe inviperita che colse al volo l’occasione per vendicarsi dei torti e dei soprusi patiti dalla classe borghese. I bracciali, non a caso, tumultuavano al grido di “hanno a sparire le scarpe”, ossia dovevano essere ammazzati tutti i galantuomini, i signori, coloro che calzavano le scarpe, a differenza dei contadini che portavano le cioce.
Giacinto Roselli aveva cercato di salvarsi rifugiandosi sul tetto di una casa.
“Raggiunto da una fucilata – scrive Alfonso Parisse -, fu trascinato giù e decapitato. La testa, con una pipa in bocca, fu esposta in piazza Guglielmo su una delle due colonnine che ora sono all’ingresso del paese”3.
Dopo un anno da quei disordini la situazione non era granché cambiata. I briganti la facevano ancora da padrone e da parte del nuovo governo non si riusciva ad intervenire con efficacia e prontezza. Ecco perché si pensò di fare ricorso a misure più incisive.
Illuminanti a tal riguardo alcuni documenti di archivio.
Il primo, datato 11 giugno 1862, è una comunicazione che il sottoprefetto del circondario di Gaeta inoltra al prefetto di Terra di Lavoro.
“Signor Prefetto, i consigli comunali di Roccaguglielma e S. Pietro in Curolis, nel fine di distruggere quattordici briganti che infestano quelle contrade, rendendosi colpevoli di ogni specie di rapine, omicidi e ricatti ed altro, hanno deliberato di doversi ritenere fuori legge ed hanno assegnato dei premi ossia taglione, a favore di quelli che li prenderanno vivi o morti. Io mi affretto inviarle i corrispondenti atti pregandola delle sollecite di lei provvidenze”4.
Si parla ancora una volta dei premi, anzi delle “taglie”. Sistema che il prefetto approvava incondizionatamente anche perché gli altri tentativi non avevano prodotto gli effetti sperati.
Nel fitto carteggio tra la sottoprefettura di Gaeta e la prefettura di Caserta compare anche un verbale del consiglio comunale di S. Pietro in Curolis, borgo che a quel tempo era ancora separato dal punto di vista amministrativo da Roccaguglielma.5.
Quella assise, presieduta dal sindaco Ottavio Fantacone, deliberava l’istituzione delle “taglie” sul capo di quei 14 briganti di cui sopra.
Questa la parte saliente del verbale:
“Il Consiglio considerato che la vita e le sostanze dei cittadini sono in continuo pericolo per opera di parecchi briganti di questo e del Comune di Roccaguglielma, i quali infestando le vicine montagne, sonosi resi colpevoli di ogni specie di rapina, omicidi, ricatti ed altre scelleratezze. Che la tranquillità pubblica cotanto indispensabile in un civile reggimento, e massime di questi tempi, è turbata, e sarà sempre, per opera dei suddetti, i quali divisi a piccioli drappelli, ed uniti a briganti forestieri, da essi stessi attirati in questi luoghi, sfuggono alla pubblica forza che è sfinita di fatiche senza poterli mai cogliere. Il che proviene altresì dalla lunga serie di adepti che hanno qui, in Monticelli ed in Roccaguglielma, dalle difficili località, dal soccorso e ricovero che si offre loro dai cattivi contadini, e dai prossimi stati del Papa, divenuti covo e ricettacolo del brigantaggio cosmopolita. Considerato che i briganti in parola sonosi resi contumaci a qualunque invito di presentarsi, a qualunque promessa d’impunità, fatte nei primi tempi del loro brigantaggio, a condizione che rientrassero nel civile consorzio, donde la pervicacia nel disfare, e la necessità di considerarli fuori legge. Che è debito della rappresentanza comunale garantire l’ordine, la vita e la proprietà, il che solo potrà raggiungersi dove si abbia la distruzione di quegli esseri malvagi, da assicurare in qualunque modo riuscir possa efficace, e segnatamente con mezzi che scuotano gli altri tristi ed infondano energia nella pubblica forza. Considerando che in tempi eccezionali come i presenti, la salute pubblica è legge suprema per la Nazione e pel Governo a unanimità di voti delibera che qualunque persona, appartengano o no alla pubblica forza, la quale prenderà vivo o morti i seguenti individui, s’avrà il premio contrassegnato per ciascun di essi”6.
Si passa, quindi, ad elencare, con tanto di nome, cognome e “taglione” corrispondente, i briganti il cui numero va ben oltre quei 14 dei quali si diceva.
“Tommaso Di Dea, Roccaguglielma, ducati 50; Clino Di Meola, Roccaguglielma, ducati 50; Pasquale Terilli, detto ‘Chiattillo’, Roccaguglielma, ducati 40; Giovanfelice Perrotta, Roccaguglielma, ducati 40; Carlo e Francesco Bevilacqua, Roccaguglielma, ducati 50 per ciascuno; Saverio Bevilacqua, Roccaguglielma, ducati 30; Giuseppe Villani, giudeo, Roccaguglielma, ducati 50; Raffaele Villani, idem come sopra, ducati 40; Salvatore di Crocco, ‘fochista’, Roccagugliema, ducati 50; Antonio Bevilacqua, Roccaguglielma, ducati 50; Giuseppe De Angelis di S. Pietro in Curolis, ducati 50; Giovanni e Mattia Di Arezza di Monticelli, ducati 40 per ciascuno; Antonio e Vincenzo Villani, Roccaguglielma, ducati 20 per ciascuno; Pasquale Sabatino, Roccaguglielma, ducati 10; Giuseppe Paliotta, Roccaguglielma, ducati 10; Clino Bevilacqua, Roccaguglielma, ducati 10; Giovannantonio Di Russo, S. Pietro, ducati 10; Gennaro Baris Cafiero, S. Pietro, ducati 15; Benedetto Palazzo fu Matteo, S. Pietro in Curolis, ducati 15; Pasquale e Arcangelo Fresilli, S. Pietro in Curolis, ducati 10 per ciascuno; Palmodoro D’Epiro, S. Pietro in Curolis, ducati 10; Francesco Palazzo, S. Pietro in Curolis, ducati 10”7.
Le taglie dovevano essere pagate per metà dal comune di San Pietro in Curolis e per l’altra metà dalla municipalità di Roccaguglielma. Non avendo però in cassa le risorse necessarie le amministrazioni chiesero e ottennero la facoltà di contrarre debiti.
Proprio come nei polverosi centri del selvaggio West la circolare venne affissa in maniera ben visibile “in tutti i comuni del circondario”.
Portò a qualcosa il sistema delle taglie?
Qualche risultato positivo, indubbiamente, fu conseguito.
Non si può, però, non considerare quanto lacunosa e frammentaria sia stata la risposta delle autorità piemontesi di fronte al dilagare del brigantaggio post-unitario. Così inadeguata da far ricorso, in grande stile, al sistema delle taglie.
Tutto ciò, comunque, servì soltanto a turare le falle.
I briganti, incuranti delle taglie e delle normative sempre più rigorose (una per tutte le famigerata “legge Pica”), continuavano a scorazzare imprendibili nelle campagne del Lazio meridionale.
Né si limitavano a rubare, saccheggiare o sequestrare.
A volte occupavano interi paesi e lì restavano fino a quando la reazione governativa non si dispiegava in grande stile.
Proprio come accadde a Coreno Ausonio il 15 agosto del 1863.
Anche di questo evento l’Archivio di Stato di Caserta conserva un interessante faldone. Ecco, in rapida sintesi, come viene descritto l’accadimento: “Nel 15 agosto 1863 invadevano il comune di Coreno Ausonio con la banda comandata dal detto Guerra, abbattevano le porte delle case, depredavano ai signori De Siena (Gaetano, Tommaso, Luigi, nda) ducati 1997,75 in contanti, ducati 81,70 in oggetti preziosi, ducati 492,48 in biancheria, abiti ed altro. Al Sig. Ruggiero (Benigno, nda) degli oggetti del complessivo valore in ducati 13,21 ed al Sig. Cristino (Vincenzo, nda) ducati 328 in contanti ed altri oggetti del valore di ducati 56,10 portando seco loro il danaro e gli oggetti preziosi, ed il resto guastando e gittando per le finestre, reato prevenuto dagli articoli 596, 597, 598, 610 e 670 del Codice Penale”8.
Il 16 agosto il sotto prefetto Perini inviava un telegramma al ministro degli Interni a Torino e al prefetto di Terra di Lavoro a Caserta.
“Ieri ore 14.00 italiane Coreno Ausonio invaso e saccheggiato da un’orda di sessanta briganti proveniente dal Pontificio e colà ritornata. Date disposizioni per scoprire e punire complici”9.
Il giorno seguente il sotto prefetto comunicava al prefetto di Caserta che la sua pressante richiesta di ottenere rinforzi di truppa da utilizzare contro i briganti era stata respinta dalle autorità militari.
Una grossa banda di briganti, quindi, era entrata indisturbata in Coreno Ausonio a Ferragosto e aveva saccheggiato, distrutto e rubato.
Poi, con serafica calma, era rientrata nello Stato Pontificio.
Il canovaccio, insomma, era sempre lo stesso: i briganti si materializzavano all’improvviso, mettevano a segno le loro azioni fulminee e, quindi, tornavano a rifugiarsi in territorio papalino, lasciando i trafelati inseguitori, che dovevano arrestarsi nei pressi della linea di confine, con un palmo di naso.
E l’andazzo andò avanti per parecchio tempo.
Almeno fino a quando l’editto Pericoli (7 dicembre 1865) e la Convenzione di Cassino (24 febbraio 1867), sancendo la collaborazione nell’attività di repressione tra lo stato italiano e le autorità pontificie, misero dei punti fermi nella lotta al brigantaggio.
Ma andiamo a vedere più da vicino l’invasione di Coreno.
I responsabili della clamorosa azione non erano pallidi comprimari ma appartenevano al “gotha” del movimento.
Il più famoso era Francesco Guerra, ex sergente del disciolto esercito napoletano che aveva partecipato alla battaglia del Volturno contro i garibaldini. Tornato nella natia Mignano, ai primi del 1861 venne tratto in arresto per le sue simpatie borboniche. Rimesso in libertà si diede alla macchia sulle montagne tra Mignano, Roccamonfina e Galluccio radunando una masnada di una trentina di persone. Rimasto sempre all’ombra della grande banda di Domenico Fuoco, il tagliapietre di San Pietro Infine, nelle cui fila, spesso e volentieri, confluiva con i suoi uomini, la sua “carriera” si chiuse la notte del 30 agosto del 1868. Sorpreso da un drappello di guardie nazionali di Mignano e da reparti del 27° fanteria sui monti sovrastanti il paese nei pressi di una masseria abbandonata, restò ucciso nel corso di un violento conflitto a fuoco assieme ad altri 3 briganti. Venne catturata, in quello stesso contesto, la sua compagna Michelina De Cesare che morì poco dopo in seguito alle torture alle quali fu sottoposta. I corpi dei quattro briganti furono trasportati a Mignano e rimasero esposti nella pubblica piazza per più giorni.
Anche Alessandro Pace, un contadino nativo di Caspoli, frazione di Mignano, prese parte all’invasione di Coreno. All’arrivo dei piemontesi nel sud Italia aveva preso la via della montagna e formato una sua banda. Il campo di azione era più o meno quello del compaesano Guerra: anzi molto spesso le due bande si univano e concertavano operazioni comuni. Pace fu catturato, sembra per il tradimento della sua compagna Giocondina Marino, il 27 agosto del 1869 in una grotta nei pressi di Morcone, nel beneventano.
Resta da parlare, infine, di Francesco Tommasino (o Tommasini), un altro dei protagonisti del blitz di Coreno. Nativo di Tuoro di Sessa Aurunca, dopo il 1860 organizzò una banda molto attiva nel sessano e zone limitrofe. Le azioni di questi briganti, molti dei quali uniti da legami di parentela, fecero soffrire molto le autorità piemontesi. Sul capo di Tommasino venne posta l’iperbolica “taglia” di 1.000 ducati che andavano a sommarsi agli altri 500 assegnati dalla Commissione Provinciale del Molise. La qualcosa avrebbe dovuto sguinzagliare il famelico branco dei “bounty-killer”, ammaliati da cotanto gruzzolo. E invece nessuno, considerata la crudeltà del brigante, pensò bene di calarsi nell’impresa. Fino a quando non si trovò la persona giusta. Si trattava di un certo Francesco Lepore, da Sipicciano, nel viterbese, soprannominato “Francescone” che scontava nel carcere di Mignano una lunga pena per gravi reati. D’accordo con il delegato di pubblica sicurezza di quel comune fu fatto evadere dalla prigione. Gli fu fornito anche dell’oppio in polvere da mettere nel cibo o nel vino che Tommasino era solito bere. Il momento favorevole si presentò il primo agosto del 1864. E così, mentre dormiva stordito dalla droga, Francescone poté portare a termine la sua missione uccidendo il brigante con due colpi fatti partire dal suo stesso fucile. Il Petteruti così descrive l’epilogo della vicenda: “Mentre il suo cadavere, disteso su di una scala, veniva trasportato verso Piazza San Domenico per essere esposto alla pubblica indignazione ed a pubblico esempio, ad un tratto, o per ripidezza della strada o a causa di un sobbalzo, un braccio si scostò dal corpo esanime cadendo penzoloni sulla scala. Immediatamente si levò la voce che Tommasino ‘si era mosso’ e ne derivò un fuggi fuggi generale per il timore che il brigante fosse resuscitato”10. Il piano, dunque, era andato a buon fine. Il sicario poté intascare la cospicua taglia ma non riuscì a godersi a lungo il prezzo del tradimento. Caduto in miseria fu trovato ucciso con il corpo che recava evidenti segni di atroci sevizie. Il suo assassino non fu mai identificato. In molti, però, pensarono ad una vendetta orchestrata da un componente della banda Tommasino.
L’assalto di Coreno11, come gran parte delle imprese dei briganti, finì per restare impunito a dimostrazione di quanto poco efficace fosse l’attività di repressione.
Né con il passare del tempo le cose migliorarono.
Come attesta un altro documento di archivio datato 16 novembre 1866. Si tratta di una serie di proposte miranti alla repressione del brigantaggio che Luigi Ricci, assessore anziano del comune di Roccaguglielma, inviò al prefetto della provincia di Caserta.
“Per reprimere il Brigantaggio, esistente in questo tenimento, i quali trovano ricovero nel tenimento Romano, perché convicino, stimo cosa opportuna, se la S. V. lo accoglie, formarsi nella montagna di… di questo tenimento e un altro nelle montagne di Campodimele, ivi stabilirsi la compagnia di Bersaglieri ad essi aggregarvi due o tre plotoni onesti da scegliersi dalla autorità oneste ed attaccate al Regime attuale, passare a questi la diaria giornaliera. Costoro interneranno le compagnie in tutti i posti delle montagne, gireranno in ogni giorno le montagne verso il confine vestiti da pastori e daranno relazione ogni giorno di tutto ciò che loro potessero scoprire. Le compagnie sudette faranno continuate perlustrazioni e li agguati nei soliti siti del loro passaggio intendendosela tra di loro. Questo scopo crederei che sia il più opportuno per allontanarli”12. L’assessore Ricci proponeva di far pattugliare le montagne da plotoni di bersaglieri travestiti da pastori, allo scopo di far naufragare i propositi delittuosi dei briganti.
Il 26 novembre il reggente della prefettura di Caserta scriveva al sotto prefetto di Formia pregandolo di ringraziare l’assessore Ricci e di “vedere di trarre profitto dalla sua buona volontà”13.
Venne disposto poi il pattugliamento dei bersaglieri-pastori sulle montagne di Roccaguglielma e Campodimele?
Probabilmente no, anche perché gli effettivi di truppa non erano così tanti.
E questo fu un altro motivo che concorse a mantenere in piedi, più vigoroso che mai, il brigantaggio.
Solo intorno al 1870, anche nell’alta Terra di Lavoro, il fenomeno venne definitivamente debellato e i briganti furono messi in condizione di non nuocere.
Anche perché, avendo esaurito la sua decennale parabola, stava ormai morendo di morte naturale.
1 Archivio di Stato di Caserta (ASC), Intendenza – Polizia, affari diversi, busta n. 389/6 “Rapporto dell’Intendente di Gaeta sul brigantaggio che infesta le località di Roccaguglielma, Mola, Traetto e Spigno scoraggiando i traffici commerciali” (anno 1861).
2 ASC, Intendenza – Polizia, affari diversi, busta n. 389/6.
3 Alfonso Parisse: Memorie di un vecchio castello, Tipografia di Casamari 1961, p. 193.
4 ASC, Prefettura – Polizia, affari diversi, I inventario, busta n. 451/17 “Delibere dei consigli comunali di Roccaguglielma e San Pietro in Curulis contro il brigantaggio che infesta quelle contrade” (1862).
5 In ossequio al regio decreto n. 4057 del 14/11/1867 Roccaguglielma, Monticelli di Roccaguglielma e San Pietro in Curolis assunsero la denominazione di Esperia fondendosi in un unico comune (Aldo Di Biasio: Terra di Lavoro olim Campania felix, in Istituzioni e Territorio. La nascita della provincia di Terra di Lavoro a cura del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e dell’Archivio di Stato di Caserta, Quaderni di studi Storici e Archivistici n. 2, Napoli 1996, tavola VII, p. 117).
6 ASC, Prefettura – Polizia, affari diversi, I inventario, busta n. 451/17.
7 Ibid.
8 ASC, Corte di Assise Santa Maria Capua Vetere, buste n. 67/68, fasc. 455/467.
9 ASC, Prefettura-Gabinetto, ordine pubblico, busta n. 249, fasc. 2546.
10 Beniamino Petteruti: Brigantaggio e briganti nel sessano 1860-1870, Sessa Aurunca 1986, p. 30.
11 Il documento di archivio riporta i nomi dei briganti che parteciparono all’invasione ferragostana di Coreno Ausonio. Accanto ai già citati Francesco Guerra, Alessandro Pace e Francesco Tommasini, troviamo Antonio Conca detto “Bellezza”, contadino, Antonio Zenga, detto “Sciammerica”, contadino di Caspoli, Angelo Cerulli contadino di Mignano, Angelantonio De Cristofaro di Caspoli, Antonio Passaretti di Tuoro di Sessa, Antonio Saltarelli di Castelforte, Carlo Giuliano di Campagnola, Carmine Saravo di Nola, Carmine Verdone di Caspoli, Domenico De Cesare, contadino di Caspoli, Damiano Covelli di Castelforte, Giacomo Ciccone, contadino di Caspoli, Isidoro Teolis, contadino di Vallerane, Teodoro De Luca di Avezzana di Conca (ASC, Prefettura – Gabinetto, ordine pubblico, busta n. 249, fasc. 2546).
12 ASC, Prefettura-Gabinetto, ordine pubblico, busta n. 267, fasc. 2882.
13 Ibid.
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