Brigantaggio post-unitario*

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Studi Cassinati, anno 2008, n. 2

di Fernando Riccardi

Nelle regioni del sud Italia il brigantaggio è esistito praticamente da sempre. “I malfattori a Roma, chiamati ‘sicari’ e ‘latrones’, erano così numerosi e pericolosi che Silla introdusse la ‘lex Cornelia de sicariis’ per combatterli con pene severissime”1. I briganti venivano inchiodati sulla croce oppure dati in pasto alle belve negli spettacoli circensi. Un fenomeno antico, quindi, che affonda le sue radici assai indietro nel tempo. Fu, però, soprattutto nel decennio post-unitario (1860-1870) che il brigantaggio assunse proporzioni eclatanti che mai si erano registrate in precedenza. La rivolta infiammò tutte le regioni meridionali con la sola esclusione della Sicilia. Italiani del nord si trovarono a combattere una lotta aspra e fratricida contro italiani del sud. Le perdite furono notevolissime. Quelle subite dall’esercito piemontese impiegato in misura massiccia nell’attività di repressione, oltre 120.000 soldati, superarono, e di gran lunga, quelle fatte registrare in tutte le guerre di indipendenza messe assieme. Manca, invece, una stima attendibile delle perdite subite dai briganti o insorgenti che dir si voglia. Carlo Alianello così scrive: “Secondo la stampa estera, dal gennaio all’ottobre del 1861, si contavano nell’ex Regno delle Due Sicilie, 9.860 fucilati, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1.428 insorti in armi”2. E tutto questo, si badi bene, nel corso di soli dieci mesi! Che non si sia trattato, dunque, di roba di poco conto, pare ormai assodato. E viene ammesso anche da quelli che continuano a mostrare scetticismo o a minimizzare scientemente l’argomento. D’altro canto i documenti di archivio, che sempre più numerosi vengono portati alla luce, appaiono così evidenti da spazzar via qualsiasi dubbio. I briganti imperversarono a lungo nelle desolate lande del meridione, mettendo a dura prova la resistenza dell’esercito sabaudo impreparato a fronteggiare una situazione di perenne guerriglia. Non scontri a viso aperto, sul campo di battaglia, ma estenuanti inseguimenti, continue perlustrazioni, conflitti a fuoco tanto rapidi quanto improvvisi, agguati micidiali. Tutte situazioni che mettevano i soldati piemontesi e i loro ufficiali, abituati ad una rigida disciplina militare, in una situazione di evidente difficoltà, specialmente nei primissimi mesi che seguirono l’unificazione della Penisola.

La tipologia del brigante
Ma chi furono i briganti? Difficile delineare una precisa tipologia considerata la complessità del fenomeno che assunse caratteristiche diverse a seconda del contesto ambientale e dei protagonisti della rivolta. Si possono individuare, comunque, delle categorie sociali nell’ambito delle quali il brigantaggio andò a pescare generosamente. In primo luogo i soldati borbonici che, di punto in bianco, si trovarono disoccupati e senza lavoro. L’esercito napoletano, nel 1860, poteva contare all’incirca su 90.000 effettivi. Alla fine delle ostilità, dopo la caduta di Civitella del Tronto (20 marzo 1861), ultimo baluardo della resistenza borbonica, i piemontesi tentarono in tutti i modi di inquadrare nelle loro fila gli ufficiali e i soldati partenopei. I risultati, però, furono deludenti. “La Marmora era rimasto negativamente colpito da una ispezione ad un campo di prigionieri ‘napoletani’ presso Milano: su 1.600, soltanto cento si erano detti pronti a riprendere servizio nell’esercito italiano; alcuni altri ‘con arroganza’ avevano dichiarato che non erano tenuti ad un nuovo giuramento, essendo legati al giuramento di fedeltà prestato a Francesco II, e quindi avevano diritto a tornarsene a casa. Suo parere fu, perciò, che dei vecchi soldati bisognasse ‘disfarsene al più presto’. Cavour accolse senza obiezioni il suo suggerimento e insisté vivamente presso Farini in Napoli, perché Fanti, ministro della guerra, adottasse misure adeguate”3. Tra di esse anche la ‘soluzione finale’, poi fortunatamente tramontata, di trasferire gli ex soldati borbonici in bagni penali da allestire in una sperduta isola dell’Oceano Atlantico o in Patagonia4. Moltissimi di quei militari, una volta tornati a casa, non sapendo come fare per sbarcare il lunario, si diedero alla macchia schierandosi con i briganti.
E poi una gran massa di contadini e di braccianti agricoli che se prima si trovavano male, con i Piemontesi stettero peggio. Proprio sui contadini e sul loro odio atavico contro i ‘galantuomini’, faceva affidamento la centrale legittimista borbonica per mettere in piedi ed alimentare il fuoco della rivolta che avrebbe dovuto portare, come già accaduto in passato, al ripristino del vecchio stato di cose.
E poi ancora piccoli artigiani, commercianti, possidenti terrieri, aristocratici di provincia, ex funzionari del regno, tutti molto legati al passato ‘regime’, sui quali si abbatté con la forza di un ciclone la prepotente ascesa della classe borghese favorita in sommo grado dai governanti sabaudi.
Un ruolo importante lo giocarono anche i rappresentanti del clero (preti, sacerdoti, frati, canonici, abati) i quali non si limitarono a fornire assistenza spirituale ma spesso si aggregarono alle bande, non disdegnando di imbracciare lo schioppo e il pugnale.
Un capitolo a parte, poi, merita quel pittoresco e variegato stuolo di ‘legittimisti’ giunti da ogni parte d’Europa per assicurare il proprio sostegno a quelli che i Piemontesi chiamavano briganti. Rampolli di famiglie altolocate, nobili squattrinati, militari di ogni genere e grado, avventurieri in cerca di emozioni forti, artisti, scrittori, poeti, romanzieri e letterati in quel drammatico decennio, fecero a gara, con encomiabile slancio, per partecipare alla lotta disperata e senza quartiere di uomini coraggiosi che non avevano piegato la testa dinanzi alla tracotanza dell’invasore sabaudo che, tra l’indifferenza generale, si apprestava ad impossessarsi ‘manu militari’ delle terre, delle ricchezze e della dignità delle genti del meridione.
Tra le fila dei briganti confluì, strano a dirsi, anche un discreto manipolo di garibaldini. Si trattò, soprattutto, di contadini calabresi e siciliani attratti dalla promessa della distribuzione delle terre fatta da Garibaldi mentre alla testa dei suoi reparti risaliva lo stivale. I patti, però, non vennero rispettati. Delusi e amareggiati quei contadini, in un batter d’occhio, diventarono briganti.
Non si può negare, infine, né sarebbe giusto farlo, che vi furono anche delinquenti comuni, volgari tagliagole, assassini, grassatori e ladri di polli. Profittando del momento di grande confusione e di estrema incertezza molti badarono soltanto a conseguire fini illeciti. Niente a che vedere con rivendicazioni di stampo ideologico.

Da briganti a emigranti
La rivolta brigantesca nell’Italia meridionale abbraccia un consistente lasso di tempo. Si inizia dalla seconda metà del 1860 e si va avanti per un decennio e anche di più. In linea di massima si è soliti distinguere, pur con tutte le cautele che il caso impone e considerando sempre la parzialità spesso artificiosa di tali ripartizioni, due fasi distinte: la prima va dal 1860 fino agli anni 1862/63. L’altra parte dal 1863 e giunge fino al 1870. Nel primo segmento il fenomeno fu fortemente caratterizzato da motivazioni politiche tanto che si parla comunemente di ‘brigantaggio di tipo legittimista’. Fu questo il periodo nel quale la rivolta acquistò una connotazione più nobile: si voleva restituire il regno del sud a Francesco II di Borbone che era stato brutalmente spodestato da Garibaldi e da Vittorio Emanuele di Savoia. Una fase caratterizzata dall’atteggiamento connivente della Chiesa: il re Franceschiello e la regina Maria Sofia di Baviera, scappati prima da Napoli e poi da Gaeta, avevano trovato rifugio a Roma, graditi ospiti del pontefice Pio IX, nello splendido Palazzo Farnese. I briganti, insomma, erano considerati il braccio armato del re Borbone e il mezzo principe con il quale procurare la riconquista del Regno, come già accaduto nelle turbinose vicende del 1799. Del resto la presenza delle truppe piemontesi nei pressi del Liri e della linea di confine, costituiva una gravissima minaccia per lo stato papalino che temeva fortemente per la sua stessa esistenza. Il progetto di ripristino dell’ancien règime nel sud d’Italia, però, malgrado gli sforzi, non si concretizzò: la storia ormai marciava con il vento in poppa in tutt’altra direzione. La stessa Chiesa ben presto intuì che appoggiare palesemente le iniziative dei briganti avrebbe negativamente deposto per il suo secolare prestigio. Comprese anche che il progetto di restaurazione borbonica, per il quale tanto si era adoperata, era ormai definitivamente fallito. E così, con il cinico realismo che l’ha sempre contraddistinta nel corso dei secoli, tentò di recuperare il terreno perduto e di instaurare rapporti di buon vicinato con il governo italiano. Da qui la stipula della ‘Convenzione di Cassino’ (24 febbraio 1867), primo esempio di collaborazione nella lotta al brigantaggio tra Chiesa e governo sabaudo5. Qualche tempo prima, invece, (7 dicembre 1865) c’era stata la promulgazione dell’Editto Pericoli, dal nome di mons. Luigi Pericoli, delegato apostolico della provincia papalina di Campagna e Marittima, confinante con la Terra di Lavoro. Editto diretto, come recitava il testo, “alla più efficace e pronta repressione del brigantaggio che ora infesta le provincie di Velletri e Frosinone”6. Anche questa astuta riconversione, però, non ottenne gli effetti sperati. I giochi erano ormai belli che delineati. Non a caso, appena cinque anni dopo, nel settembre del 1870, i bersaglieri italiani, facendo irruzione nella Città Eterna, mettevano fine, e per sempre, al potere temporale della Chiesa. Ma torniamo un attimo indietro. Intorno al 1863, svanita l’illusione e infranto il sogno nostalgico di restaurazione, il brigantaggio fece registrare un radicale mutamento. Dismesso il paludamento della rivendicazione politica, ne indossò un altro più volgare, alieno da pulsioni e palpiti politici. Il brigantaggio finì per trasformarsi in delinquenza comune e la cosa andò avanti, tra alti e bassi, fino al 1870 e anche oltre. La spinta ideologica si era appassita grazie anche alla spietata opera di repressione militare e ad una serie di provvedimenti legislativi straordinari. Uno per tutti la famigerata ‘legge Pica’, dal nome del deputato abruzzese proponente Giuseppe Pica7. Varata nel settembre del 1863, restò in vigore fino al 31 dicembre del 1865. Essa conteneva alcune disposizioni durissime, ai limiti, diremmo oggi, della costituzionalità. In virtù di questa normativa la competenza in materia di brigantaggio passava dalla giurisdizione ordinaria a quella militare. L’intero meridione fu dichiarato in ‘stato di brigantaggio’, con la conseguente creazione delle ‘zone militari’. Notevole l’inasprimento delle pene e delle misure di sicurezza. Vi era un articolo del decreto, il quinto, che dava al governo la facoltà di assegnare a domicilio coatto per un tempo non inferiore ad un anno, oziosi, vagabondi, sospetti manutengoli e camorristi. La misura, quindi, non era diretta ai briganti veri e propri, magari sorpresi in flagranza di reato, con le armi in pugno (in tal caso venivano immediatamente fucilati sul posto), ma a chi era sospettato di avere legami con gli stessi. Facile immaginare la discrezionalità che accompagnò tale provvedimento. Spesso, soltanto in base al modo di vestire, a delazioni false o a testimonianze interessate, fu inviato al confino anche chi con i briganti non aveva niente a che spartire. Una misura aberrante che provocò conseguenze disastrose e che spopolò interi paesi. Proprio grazie alla sua durezza, però, la ‘legge Pica’ raggiunse i risultati sperati. A partire dal 1865 il brigantaggio nelle regioni meridionali iniziò a segnare decisamente il passo. Per arrivare, poi, intorno al 1870, quando il fenomeno giunse ad esaurire la sua lunga parabola. Da quel momento in poi, e per un lunghissimo periodo di tempo, dei briganti, del brigantaggio e della sanguinosa guerra civile che si combatté nelle regioni meridionali della Penisola, non si parlò più ad eccezione delle poche, lacunose e parziali informazioni che una parte ben precisa di una determinata storiografia volle far trapelare. Si mise in atto una sorta di ‘damnatio menoriae’ diretta a cancellare, in maniera sistematica, il ricordo di quegli eventi. Gli stessi testi scolastici sullo specifico argomento glissano completamente oppure, quando va di lusso, gli dedicano poche ed anche inesatte righe. E ciò è andato avanti fino agli anni ’60 del secolo scorso quando Franco Molfese con le sue ricerche e i suoi scritti iniziò a squarciare la densa coltre di oblio depositata a bella posta sulla materia. Era trascorso, però, già un secolo da quegli eventi così drammatici. Eventi trascurati, emarginati, scientemente occultati da chi, obnubilato da una eccessiva enfasi risorgimentale, preferiva tenere celati tanti accadimenti consumati, purtroppo, sulla schiena, da sempre onusta e greve, delle derelitte genti del meridione. Ma perché tutto ciò? A quale scopo? Perché tanto timore nel raccontare episodi che pure sono parte integrante della storia della nostra nazione? Più di qualche dubbio, al riguardo, permane. Qualcosa sicuramente non quadrò in quel periodo così difficile. Forse sul brigantaggio non è stata raccontata tutta la verità. Forse chi ha scritto la storia, come fatalmente accade, ha scelto di vedere soltanto l’angolazione del vincitore ignorando le ragioni dei vinti8. Forse la vera storia del brigantaggio non è stata ancora scritta e chissà mai se qualcuno riuscirà a farlo. Anche perché si tratta di una storia fatta da povera gente, da contadini laceri, ignoranti, derelitti e affamati, vissuti da sempre ai margini della società e, quindi, ai margini della storia. Per loro la situazione, con l’arrivo dei piemontesi, non cambiò poi di tanto, anzi, in molti casi peggiorò. Se prima, infatti, erano poveri in canna, con il re sabaudo lo furono ancora di più. E quando, nel 1870 o giù di lì, il fuoco della rivolta si spense, subito iniziò un’altra pagina drammatica della quale, ancora oggi, si avvertono nitide le conseguenze: l’emigrazione. Gettato lo schioppo e il mantello da brigante, il contadino del sud si trasformò in emigrante. Interminabili file di gente disperata, con le povere cose chiuse in una lacera valigia di cartone, affollavano ogni giorno i moli in attesa dei bastimenti che dovevano portarli lontano, in paesi spesso inospitali. In molti non avrebbero più rivisto la terra dove erano nati e cresciuti. Quella terra che non era mai stata la loro, che per un attimo avevano sperato di conquistare e per la quale tanto si erano battuti. Si erano persino trasformati in rivoltosi ed avevano osato sfidare l’invasore piemontese. Tutto, però, era risultato vano. Alla fine i gendarmi sabaudi avevano avuto la meglio. A chi era scampato alla mattanza non rimaneva che andare a vivere oltre Oceano, immersi negli stenti e nell’umiliazione. Ma questa è tutta un’altra storia.

Le cause scatenanti
Cerchiamo ora di analizzare le principali cause che determinarono la rivolta brigantesca. Cause molteplici e variegate, di natura politica, sociale, economica, ambientale, tra le quali non è agevole districarsi. Sarebbe errato, e anche superficiale, ritenere che ognuno di tali fattori, preso isolatamente, abbia svolto un ruolo determinante nella evoluzione delle vicende brigantesche. Siamo di fronte, infatti, ad un fenomeno complesso la cui genesi non si deve a questa o a quella causa, bensì a tutte quante messe assieme organicamente concatenate. Numerosi sono gli elementi scatenanti del brigantaggio post-unitario.
Ad iniziare dalle leggi anticlericali o cosiddette eversive. Anche chi non conosce nei dettagli la storia del meridione d’Italia sa quanto le genti del Sud siano legate, ancora oggi, spesso fino a rasentare l’idolatria, ai valori religiosi. Quando nel 1799 il cardinale Ruffo partì dalle Calabrie alla riconquista del Regno caduto nelle mani dei francesi, scelse come vessillo della sua eterogenea masnada il simbolo della Croce. Armata che prese il nome della ‘santa fede’ e che combatté e vinse i giacobini atei e miscredenti proprio in nome di quei valori cattolici che in Francia erano stati immolati al sommo predominio della ragione9. Nel 1860 accadde, più o meno, la stessa cosa: i piemontesi, che non brillavano per il loro attaccamento ai valori religiosi, insediatisi con la forza delle armi nell’ex Regno di Napoli, vararono una serie di norme di chiaro stampo anticlericale che furono viste dalle genti del meridione come un sacrilegio, un attentato alle loro ataviche credenze religiose. Una per tutte l’abolizione pressoché totale della proprietà ecclesiastica che da sempre aveva costituito una vitale risorsa specie per chi viveva, ed erano in tanti, in situazioni di precarietà e di indigenza10. Tali provvedimenti non fecero che alimentare il fuoco della rivolta e della protesta popolare. Ma perché, allora, furono varate queste leggi? Per incamerare ‘sic et simpliciter’ un patrimonio di ingenti proporzioni che andava a rimpinguare le esangui casse del governo sabaudo che già prima del 1860 non versavano certo in condizioni di grande prosperità11.
Analogo discorso va fatto per il carico fiscale. Il metodo della tassazione era pressoché sconosciuto alla popolazione meridionale. Con l’avvento dei governanti sabaudi pagare le tasse diventò obbligatorio. L’onere andò ad incidere soprattutto sulle spalle dei contadini e dei braccianti agricoli che già a stento riuscivano a mettere insieme il pranzo con la cena. Basterà qui ricordare l’odiosa ‘tassa sul macinato’ che, introdotta nell’estate del 1868 dal governo Menabrea per procedere al risanamento delle dissestate finanze pubbliche, fu abolita solamente nel 188012. Enrico Panirossi, un settentrionale sceso nel mezzogiorno da ufficiale dei Carabinieri, fu autore di un attento studio sulla realtà politica, amministrativa ed economica del meridione13. Egli così scrive: “Lungo i cinque anni della Liberazione si triplicarono addirittura le imposte ma la terra non triplicò i suoi frutti e il suo valore”14. Un’affermazione chiara, al di sopra di ogni sospetto. L’ufficiale, infatti, aveva preso parte alla lunga campagna di guerra nel sud Italia militando nel campo dei vincitori. Anche la decisione di imporre una tassazione pesante e pressante rispondeva ad una logica ben precisa: il governo sabaudo voleva coprire la voragine che si era aperta nei conti pubblici per sostenere le sempre più ingenti spese militari. Non si può ignorare, d’altronde, che tra il 1860 e il 1870 nel meridione d’Italia si trovò ad operare più della metà degli effettivi dell’intero esercito piemontese.
E poi ci fu la leva obbligatoria, una misura anch’essa sconosciuta o quasi alle genti del sud. Disertando pressoché in massa, i contadini andarono ad infoltire le fila dei briganti15. D’altronde per le povere famiglie meridionali, tenacemente attaccate al loro esile pezzetto di terra dal quale derivava il magro sostentamento quotidiano, perdere per un lungo periodo di tempo (anche sei anni) un paio di robuste braccia, costituiva una vera e propria iattura. Numerosi furono quelli che, non volendo entrare nell’esercito piemontese, fuggirono sulla montagna e diventarono briganti. La renitenza alla leva fu una delle cause più importanti che concorsero ad alimentare e a mantenere in vita il brigantaggio. Indro Montanelli, al riguardo, così scrive: “Convinti di poterlo combattere con misure di polizia, bandirono la coscrizione per rinforzare le guarnigioni piuttosto a corto di uomini perché il grosso dell’esercito era rientrato al nord per presidiare i confini col Veneto austriaco. Ma fu un fiasco totale: dei 70 e più mila richiamati se ne presentarono solo 20.000: il che voleva dire 50.000 disertori alla macchia”16. Vi fu poi anche chi non volle diventare soldato piemontese per non giurare fedeltà al re sabaudo considerato, oltre che straniero (si esprimeva, del resto, in francese), prepotente e oppressore di popoli. Il fenomeno si protrasse lungamente nel tempo. Se prima per i disertori l’approdo naturale era la montagna, con il passare del tempo, si cominciò sempre più spesso ad emigrare all’estero. Basta ricordare il caso di Saracino, immortalato da Carlo Levi nella sua opera più famosa17, un contadino di Frosinone che, fuggito dall’Italia per per non servire il re piemontese, si era trasferito con la famiglia in Inghilterra e lì aveva fatto fortuna vendendo i gelati. La sua vicenda, comune a tanti altri nostri connazionali, si colloca molto in avanti nel tempo, ben oltre il tribolato decennio post-unitario e il periodo dell’insurrezione brigantesca.
Un altro fattore scatenante del brigantaggio deve essere considerato la mancata distribuzione delle terre demaniali ai contadini del sud che, solennemente promessa da Garibaldi, finì poi per restare lettera morta. Il latifondo, in effetti, venne in gran parte eliminato ma non a vantaggio delle classi più povere. Le terre demaniali, infatti, furono messe in vendita e acquistate quasi tutte dai ricchi esponenti della borghesia che, proprio da quel momento, iniziò la sua inarrestabile ascesa verso i vertici dello Stato. I contadini, gli agricoltori, i braccianti, rimasero non solo a becco asciutto ma si videro privati anche della possibilità di trarre profitto e sostentamento da quelle terre che per secoli avevano costituito un sicuro rifugio18. Lo stesso Garibaldi, non condividendo l’operato del neo governo piemontese, abbandonò Napoli e si ritirò sdegnato in quel di Caprera19. Ma la frittata, ormai, era fatta. L’ira dei contadini del sud montava senza freno. In tanti, delusi dalle fallaci promesse, mortificati dai provvedimenti di un governo che, all’atto pratico, si stava dimostrando ben peggiore di quello vecchio, pensarono bene di non ritornare alla vita grama di un tempo e si diedero alla macchia.
Strettamente connesso a tale fattore è l’abolizione degli usi civici sulle terre demaniali. Da sempre gli abitanti più poveri delle desolate lande meridonali erano riusciti a sopravvivere, sia pure in condizioni di estrema precarietà, grazie alla possibilità di frequentare le terre del demanio. Qui, infatti, potevano esercitare alcune attività per loro vitali: la raccolta della legna, delle olive, dei prodotti selvatici (funghi, erbe, bacche), il pascolo de-gli animali e così via di seguito20. Con la vendita delle terre demaniali e con la conseguente abolizione degli usi civici, tutto questo, all’improvviso, non fu più possibile. I poveri contadini del sud si videro preclusa anche quest’ultima ancora di salvezza. Il nuovo padrone, infatti, di solito un borghese facoltoso e arrogante, contornato da scherani e da fattori prepotenti, non era più disposto a consentire che torme di miserabili vagassero in cerca di cibo sulla sua proprietà. A questo punto c’era poco da fare: non avendo terre da lavorare, non disponendo di altri beni o ricchezze, se non si voleva morire di fame e di inedia, restava soltanto da prendere la via della montagna con lo schioppo in spalla. Certo la vita che andava ad iniziare non era semplice né tanto meno pacifica. I rischi erano tantissimi e si metteva in conto che, prima o poi, ci si poteva anche rimettere le penne. Ma, per lo meno, da briganti si mangiava e non si moriva di fame. E se proprio doveva accadere l’irreparabile, almeno si andava al Creatore… con la pancia piena.
Un ultimo elemento che concorse a mantenere in vita e ad alimentare nel tempo il brigantaggio è il profondo attaccamento della popolazione meridionale, o di gran parte di essa, alla monarchia borbonica. Cacciati dal Regno i legittimi sovrani avevano trovato rifugio in quel di Roma, sotto l’ala protettiva del Pontefice e di Santa Romana Chiesa. Tanti furono i briganti che assalivano i piemontesi gridando “viva Franceschiello” o “viva il Re”. I contadini del sud, lo abbiamo detto più volte, non navigavano nell’oro, conducevano una vita di stenti, ma erano stati abituati da sempre a guardare con fiducia ai loro regnanti che nei momenti di difficoltà sapevano come far fronte alle esigenze. Magari con provvedimenti assolutamente estemporanei (si veda la distribuzione gratuita di pane e farina nei periodi di carestia) ma pur sempre efficaci e, soprattutto, di grande impatto emotivo, specie agli occhi ingenui e semplici del popolino meridionale. Non sarà inutile, al riguardo, riportare la testimonianza del capitano piemontese Alessandro Bianco di Saint Jorioz, che pure non fu tenero nei confronti delle genti del sud, dipinte alla stregua di incivili popolazioni aborigene o dell’Africa nera. Egli, in un suo libro edito nel 186421, quando cioè la rivolta contadina e brigantesca era ancora in atto, così scriveva: “Il 1860 trovò questo popolo vestito, calzato, con risorse economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali, corrispondeva esattamente gli affitti, con poco alimentava la famiglia, tutti in propria condizione vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso l’opposto; i ricchi non sentono pietà, gli agiati serrano gli uncini delle proprie borse, i restanti indifferenti o impotenti. Nessuno può o vuole aiutare l’altro, sconforto da per tutto…”22. Tutto sommato, quindi, pur con tutte le riserve del caso, i contadini del meridione conducevano una vita per lo meno dignitosa. Fu dopo il 1860 che la tempesta scese inaspettata e violenta sulle loro teste facendo precipitare repentinamente la situazione. Il che li indusse ad impugnare le armi ed a rivolgerle contro coloro che ritenevano i più diretti responsabili della colossale catastrofe. Quella lotta disperata, senza quartiere e senza speranza perché già persa in partenza, che i cenciosi contadini del sud combatterono contro i piemontesi, fu soprattutto una lotta per la terra, per la dignità e per la sopravvivenza. Si trattò, come afferma Salvatore Scarpino in un suo bel libro23, di una ‘guerra cafona’, combattuta da povera gente, da gente disperata, senza più speranze e senza più sogni. Ecco perché, forse, non andava raccontata. Il grande libro della storia, del resto, quello con la ‘esse’ maiuscola, da che mondo è mondo, non è mai stato scritto né dagli umili né tanto meno dagli sconfitti.

I briganti del Lazio meridionale
Veniamo ora ai briganti di casa nostra. La parte settentrionale della provincia di Terra di Lavoro, quella che, tanto per intenderci, comprendeva Sora, Isola del Liri ma anche San Germano ossia Cassino, fu uno dei territori maggiormente interessati dal brigantaggio post-unitario. E le ragioni sono facilmente individuabili. Trovandosi a diretto contatto con lo Stato Pontificio (il confine, tra i più longevi del continente europeo, era delineato, grosso modo, dal corso del fiume Liri), l’alta Terra di Lavoro costituiva una sorta di ‘zona franca’, di ‘terra di nessuno’, dove i briganti potevano agire praticamente indisturbati e che consentiva, soprattutto, il ‘salto della quaglia’, ossia di passare da una parte all’altra sfuggendo a qualsiasi attività di repressione. Oltre a ciò, poi, era una zona ricca di folti boschi, di dirupi scoscesi, di profonde caverne, di impervie montagne. In poche parole l’habitat naturale per il brigante. Per questo le nostre terre, anche se non conobbero le ‘imprese’ di un Carmine Crocco Donatelli24, di certo il personaggio più noto dell’insorgenza post-unitaria, pur tuttavia furono ‘infestate’, per usare un termine molto caro alla storiografia dominante, e per tutto il decennio post-unitario, da una miriade di capibanda, ognuno dei quali ha la sua storia da raccontare. Una storia fatta quasi sempre di miseria, di povertà, di analfabetismo, di ignoranza, di violenza. Non è possibile, ovviamente, seguire passo passo le vicende di questi personaggi nei quali, bisogna dire, è difficile scorgere un barlume di sentimenti politici o di rivendicazioni di carattere ideologico. Si può dire, insomma, briganti tanti o quasi tutti, eroi pochi o niente. E tale affermazione trova puntuale conferma in quella gran mole di documenti che affiora, ormai a getto continuo, dai nostri archivi per tanto tempo trascurati. I vari Luigi Alonzi, alias Chiavone, il ‘selvarolo’ di Sora, Luigi Andreozzi di Pastena, Bernardo Colamattei di Colle San Magno, tanto per restare ai nomi più conosciuti, non ebbero nel loro dna sentimenti patriottici né pulsioni ideologiche. In alcuni casi i provvedimenti varati dai piemontesi, in primis la leva obbligatoria, furono la causa scatenante della loro attività brigantesca. Essi, però, andarono avanti imperterriti per la loro strada, senza dare prova di atti eroici o di ravvedimenti di sorta. Le loro azioni, spesso delittuose, non erano riconducibili a nobili finalità ma soltanto al desiderio di migliorare in maniera illecita la loro infima condizione sociale ed economica. E per fare ciò non trovarono di meglio che profittare di quel periodo di grande sconvolgimento che seguì l’unificazione del nostro paese. Volendo scendere nei dettagli, l’unico brigante che in quel periodo mostrò un barlume, sia pur tenue, di ‘politicizzazione’, fu Domenico Fuoco25, il tagliapietre di San Pietro Infine che, proprio per questo motivo, finì coll’essere emarginato dalle altre bande. Comunque, intorno al 1870 o giù di lì, tutti i briganti nostrani erano stati soppressi o messi in condizione di non nuocere. Ad iniziare dal sorano Chiavone26 la cui stella si era spenta già da un bel pezzo, giustiziato dai suoi stessi compagni sui monti di Sora nel giugno del 1862. Luigi Andreozzi di Pastena, del quale va ricordato l’ottimo lavoro di Costantino Jadecola27, era stato ucciso dai Cacciatori Pontifici in una locanda di Prossedi nel luglio del 1867. Bernardo Colamattei28 di Colle San Magno, invece, andò incontro ad una sorte meno tragica: si consegnò nell’aprile del 1868 ai Reali Carabinieri di Sant’Elia Fiumerapido e morì nel carcere di Cassino “senza rivedere le verdi montagne del suo paese natio” come canta Benedetto Vecchio in una delle sue canzoni più belle29. Francesco Guerra30 rimase ucciso nell’estate del 1868 in un conflitto a fuoco con le truppe piemontesi. Alessandro Pace31 fu catturato, grazie anche al tradimento della sua amante, nei pressi di Morcone nell’agosto del 1869. Mancava all’appello, tra i capi, soltanto Domenico Fuoco. Anche la sua ora, però, si avvicinava rapidamente: fu massacrato nel sonno, insieme a Francesco Cocchiara, detto ‘Caronte’ e a Benedetto Ventre, nella notte del 16 agosto del 1870 in una grotta delle Mainarde, nei pressi di Picinisco, da alcuni possidenti che aveva sequestrato. E così anche nel Lazio meridionale sul brigantaggio calò il sipario.

La ‘questione meridionale’
Ma, se i briganti erano stati sconfitti, debellati, ridotti all’impotenza, le motivazioni di natura sociale, politica, economica e culturale che avevano determinato il fuoco della rivolta nelle province meridionali, restavano ancora lì, incombenti, pesanti come macigni, ben al di là dall’essere adeguatamente considerate dal nuovo governo piemontese che in quel drammatico decennio si limitò soltanto ad armare eserciti, imporre tasse inique, promulgare leggi durissime e spesso inadeguate, ordinare esecuzioni sommarie, piuttosto che prestare ascolto ai lamenti accorati di chi viveva una situazione di grave disagio e di disperazione. Il generale Govone era stato molto chiaro con la Commissione d’Inchiesta Massari incaricata dalla Camera dei Deputati, nel dicembre del 1862, di “studiare le cagioni e lo stato del brigantaggio nelle province meridionali e di additare gli opportuni rimedi”32. Egli, da buon militare che non ama perdersi in fronzoli, aveva detto “che i cafoni vedono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge”33. Ecco perché i briganti furono così duri a morire. Ecco perché il brigantaggio infiammò la parte meridionale della Penisola per dieci lunghi anni. Né la spietata attività di repressione messa in campo dal governo sabaudo ebbe vita facile. Anzi, il più delle volte, il rimedio si dimostrò di gran lunga peggiore del male. L’on. Miceli, non a caso, così ebbe ad osservare: “Quando si sorpassano i limiti della repressione con eccessi inescusabili, anziché raggiungere lo scopo ce ne dilunghiamo, anziché distruggere il brigantaggio lo rendiamo perenne e più feroce”34. Sulla stessa lunghezza d’onda il deputato Marzio Francesco Proto, duca di Maddaloni, il quale, nella ‘tornata’ del 20 novembre del 1861, denunciava pubblicamente le atrocità della repressione piemontese: “Gli uomini di stato del Piemonte e i partigiani loro hanno corrotto nel Regno di Napoli quanto vi rimaneva di morale. Hanno spogliato il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore. Hanno dato l’unità del paese, è vero, ma lo hanno reso misero, cortigiano, vile. Ma terribile ed inumana è stata la reazione di chi voleva far credere di avervi portato la libertà. Pensavano di poter vincere con il terrorismo l’insurrezione, ma con il terrorismo si crebbe l’insurrezione e la guerra civile spinge ad incrudelire e ad abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta… I più feroci briganti non furono certo da meno di Pinelli e di Cialdini… Questa è invasione non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro nel Perù e nel Messico, come gli Inglesi nel regno del Bengala”35. Proto, al termine del suo vibrante intervento, chiedeva a gran voce la costituzione di una apposita commissione d’inchiesta. La cosa, però, non ebbe seguito in quanto il Presidente della Camera dei Deputati, Urbano Rattazzi, non consentì di portare la mozione in discussione. Deluso e amareggiato il notabile partenopeo, nella seduta del 29 novembre 1861, rassegnava le sue dimissioni da parlamentare del Regno d’Italia. Su ciò che stava accadendo nelle province del meridione fu molto duro anche Nino Bixio, uno dei migliori ufficiali di Garibaldi, il quale, eletto deputato, nella seduta parlamentare del 28 aprile 1863 così dichiarava: “Si è inaugurato nel mezzogiorno d’Italia un sistema di sangue ed il governo, cominciando da Ricasoli e venendo sino al ministero Rattazzi, ha sempre lasciato esercitare questo sistema”36. E ancora: “Un sistema di sangue è stato stabilito nel Mezzogiorno d’Italia. Ebbene non è col sangue che i mali esistenti saranno eliminati… E’ evidente che nel Mezzogiorno non si domanda che sangue, ma il Parlamento non può adottare gli stessi sistemi. C’è l’Italia, là, o signori, e se vorrete che l’Italia si compia, bisogna farla con la giustizia, e non con l’effusione del sangue”37. Lo stesso on. Giuseppe Massari, relatore della commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, deputato pugliese che militava nelle fila della maggioranza di governo, non ebbe esitazione a riconoscere che il brigantaggio era una “malattia sociale” che nasceva “da una protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie”38. Miseria e ingiustizie delle quali i nuovi governanti piemontesi non seppero assolutamente venire a capo. In quel drammatico decennio postunitario, anzi, il solco già enorme che divideva le classi agiate e la povera gente, i galantuomini e i contadini, divenne ancora più evidente e palese. La prepotente ascesa della borghesia che prima era stata vicina ai Borbone e che ora scodinzolava ossequiosa ai piedi dei piemontesi, non fece che acuire la situazione già disperata dei bracciali che, con l’abolizione degli usi civici sulle terre demaniali, finite tutte nelle mani voraci ed avide dei ricchi latifondisti, non sapeva proprio a quale santo votarsi per non morire di fame. Fu così che il brigantaggio, come una marea inarrestabile che tutto sommerge, attecchì e prosperò a lungo. E mentre il fuoco della rivolta divampava robusto e impetuoso, un governo miope, arrogante, prepotente, continuava impettito e tronfio ad andare per la sua strada, sordo alle grida di allarme lanciate dai suoi stessi rappresentanti dagli scranni del Parlamento. “Potete chiamarli briganti – disse il deputato liberale Ferrari, intervenendo al Parlamento di Torino nel novembre 1862 – ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli… Che cos’è in definitiva il brigantaggio? – chiese – È possibile, come il governo vuol far credere, che 1.500 uomini comandati da due o tre vagabondi possano tener testa a un intero regno, sorretto da un esercito di 120.000 regolari? Perché questi 1.500 devono essere semidei, eroi! Ho visto una città di 5.000 abitanti completamente distrutta. Da chi? Non dai briganti”39. L’on. Ferrari si riferiva alla distruzione e al saccheggio ad opera dei soldati piemontesi, nell’agosto del 1861, di Pontelandolfo e Casalduni, due popolosi centri del beneventano40. Lo stesso parlamentare, nel dibattito del 29 aprile 1862, facendo riferimento a ciò che stava accadendo nel sud della Penisola, parlava senza mezzi termini, di “guerra barbarica”: “Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge (la legge Pica, nda) in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi”41. Testimonianze inequivocabili, chiarissime, esplicite e, per di più, considerata la provenienza, assolutamente non partigiane. Eppure niente si fece per mettere fine all’atroce mattanza, alla sanguinosa guerra civile. Le conseguenze di questi tragici errori non si esaurirono di certo con l’epilogo del brigantaggio e del decennio post-unitario. Se ancora oggi, all’inizio di questo tribolato terzo millennio, esiste un meridione che arranca, un divario abissale tra nord e sud, se ancora oggi parliamo di una ‘questione meridionale’ ben lungi dall’essere risolta, la responsabilità è anche di chi, a quel tempo, tutto fece fuorché sentire i lamenti struggenti di chi viveva quella drammatica realtà. Eppure sarebbe bastato poco per cambiare radicalmente il corso della storia. Sarebbe bastato dare ascolto a chi aveva speso le sue migliori energie per procurare l’unità d’Italia. Peppino Garibaldi, nella quiete silente di Caprera, tormentato dai ricordi e dai rimorsi, nel 1868, così scriveva alla cara amica Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore, suscitato solo odio”42. E se lo afferma l’inclito ‘eroe dei due mondi’, che tanta parte ebbe nella mirabolante impresa, non è certo il caso di contestare o di muovere obiezioni. Purtroppo, però, le cose nel meridione andarono così. E non possono esserci pentimenti ‘a posteriori’ che tengano. Anche se essi inducono a pensare, a meditare, a riflettere. E, soprattutto, a rivisitare alcuni passaggi della ridondante ‘vulgata risorgimentale’. Cosa che, del resto, aveva già fatto, molti anni fa, un altro intellettuale al di sopra di ogni sospetto: Antonio Gramsci. “Lo Stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori venduti tentarono di infamare col marchio di briganti. Settecentomila civili massacrati (su una popolazione totale di nove milioni di abitanti), cinquecentomila cittadini arrestati, sessantadue paesi incendiati, centinaia di migliaia di patrioti deportati nei campi di sterminio piemontesi. Tutto ciò fu l’unità d’Italia”43.

* Dalla relazione tenuta in occasione dell’Assemblea dei Soci CDSC del 5 marzo 2008.
1 De Matteo G.:“Brigantaggio e Risorgimento. Legittimisti e briganti tra i Borbone e i Savoia”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2000, p. 13.
2 Alianello C.: “La conquista del Sud”, Rusconi libri, Milano 1994, p. 133.
3 Molfese F.: “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, Nuovo Pensiero Meridiano, IV edizione, Madrid 1983, p. 31.
4 Sulla vicenda cfr. Riccardi F.: “Il calvario dei prigionieri napoletani dopo il 1860. Una pagina dimenticata della nostra storia” in “Annali del Lazio Meridionale”, anno VII, n. 2, dicembre 2007, Tipografia Fabrizio, Itri 2007, pp. 73/82.
5 Bartolini C. : “Il brigantaggio nello Stato Pontificio”, Adelmo Polla Editore, ristampa anastatica Roma 1897, Cerchio 1989, pp. 30/32.
6 Archivio Stato Frosinone (ASF), “Delegazione Apostolica”, busta 71, n. 1506. “Per imprimere maggiore energia alla repressione, il delegato apostolico di Frosinone, monsignor Luigi Pericoli, il 7 dicembre 1865 emanò un editto contro il brigantaggio, ricalcando le draconiane ordinanze che i legati pontifici e i cardinali Consalvi, Pallotta e Benvenuti, avevano emanato fra il 1814 e il 1825, quando nella stessa zona aveva infierito il brigantaggio che aveva trovato in Gasparoni il capo più popolare. Veniva istituita una commissione mista di tre togati e di tre militari per giudicare dei reati di brigantaggio nelle zone di Velletri e di Frosinone, con procedimento sommario e senza appello, salvo per la pena capitale. Erano comminate la fucilazione per i briganti appartenenti a ‘conventicole’, la prigione a vita per quelli isolati, pene varie per i manutengoli e premi per la cattura o l’uccisione. Si concedeva un termine di 15 giorni per la presentazione” (Molfese F., op. cit., p. 327).
7 Sulla ‘legge Pica’ cfr. Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, Associazione Culturale “Le Tre Torri”, Caprile di Roccasecca, bollettino n. 2, anno VII, 2003, Tipografia Arte Stampa, Roccasecca 2003, p. 19, nota 18.
8 “… il revisionismo attuale oggi induce a riconsiderare uomini e fatti del Risorgimento. Questo è noto agli italiani (o dovrebbe essere noto), ma nella sua narrazione spesso è prevalsa la ragione dei ‘vincitori’ e le ragioni dei ‘vinti’ sono state coperte da un velo di partigianeria in modo da farle dimenticare o da presentarle con accorta manipolazione; i vincitori sono stati sempre esaltati sino al fanatismo, i vinti sempre annebbiati fino alla denigrazione” (De Matteo G., op. cit., p. 11).
9 Su tale vicenda cfr. Pietromasi D.: “Storia della spedizione dell’eminentissimo cardinale D. Fabrizio Ruffo allora Vicario Generale per S. M. nel Regno di Napoli e degli avvenimenti e fatti d’armi accaduti nel riacquisto del medesimo”, presso Vincenzo Manfredi, Napoli MDCCCI.
10 Fin da subito i governanti piemontesi avevano escogitato di ridurre notevolmente nell’Italia meridionale il potere del clero considerato in gran parte connivente con il brigantaggio. Di 277 sedi vescovili 108 erano vacanti e di queste ultime ben 57 erano dislocate nell’Italia meridionale, Napoli e maggiori città del regno incluse. Tantissimi i perseguitati. Emblematico il caso dell’arcivescovo di Pisa, mons. Corsi, che venne arrestato il 13 maggio del 1860 per essersi rifiutato di celebrare il ‘Te Deum’ in onore del re Vittorio Emanuele II di Savoia. Drammatica la situazione nelle diocesi dell’ex Regno delle Due Sicile. Il vescovo di Amalfi, mons. Domenico Ventura, morì a Napoli dopo aver subito indicibili patimenti. Il vescovo di Benevento, il cardinale Carafa, fu costretto ad abbandonare la sua sede diocesana e a rifugiarsi a Roma. La stessa cosa fece mons. Filippo Cammarota, vescovo di Gaeta. A Napoli il cardinale Riario Sforza fu espulso per ben due volte ed andò esule a Roma. Il vescovo di Reggio Calabria, mons. Mariano Ricciardi, si rifugiò prima in Francia e poi a Roma. Il vescovo di Salerno, mons. Salomone, “per non aver voluto secondare le pretensioni dei rivoluzionari, questi gli aizzarono contro il popolaccio, e la notte seguente all’arrivo di Garibaldi in Napoli dovette fuggire travestito. Riparò in Napoli. Qui fu assalito da 30 ladri, che simulando essere guardie di pubblica sicurezza, preceduti da tamburi, invasero il suo alloggio, e legati l’Arcivescovo, col fratello sacerdote e cameriere, rapinarono tutto che v’era di prezioso, fino la biancheria. Di là dovette riparare in luoghi diversi per aver salva la vita. Ora si trova in Napoli” (Pellicciari A.: “Risorgimento anticattolico”, Piemme Edizioni, Asti 2004, p. 198). Il vescovo di Sorrento, mons. Saverio Apuzzo, fu prima incarcerato, poi esiliato in Francia e quindi a Roma. Mons. Bianchi-Dottola, vescovo di Trani, espulso dalla sua diocesi dalla “marmaglia prezzolata”, fu costretto a vivere in clandestinità perché minacciato d’arresto. Il vescovo di Avellino, mons. Francesco Gallo, “fu arrestato dal Generale Tupputi il 22 febbraio 1861 e fu deportato da un capitano dei carabinieri in Torino, ove tuttora si trova” (Pellicciari A., op. cit., p. 199). Il vescovo di Caiazzo, mons. Luigi Riccio, venne aggredito e cacciato dalla diocesi. La medesima sorte subì il vescovo di Caserta, mons. De Rossi. Il vescovo di Foggia, mons. Bernardino Maria Frascolla, fu espulso dalla diocesi, im-prigionato e poi inviato in domicilio coatto a Como. Mons. Michelangelo Pieramico, vescovo di Potenza, espulso dalla diocesi, morì di stenti e di crepacuore. Il vescovo di Vallo, mons. Giovanni Siciliani, espulso dalla diocesi, fu trattenuto per molti mesi in prigione a Napoli. “Il rigore un tempo usato contro i malviventi viene riservato ai cattolici; monaci, e monache, frati e suore gettati sul lastrico; sacerdoti sbeffeggiati, incarcerati, uccisi; il patrimonio artistico e culturale della nazione finito nelle case dei liberali o semplicemente distrutto; smantellato il tessuto di sicurezza sociale rappresentato dalle opere pie; irrise la fede, la cultura e la tradizione della popolazione. Con tutto ciò ai preti si impone di cantare il Te Deum in onore della nuova civiltà e della nuova moralità” (AA.VV.: “La storia proibita. Quando i Piemontesi invasero il Sud”, Edizioni Controcorrente, Napoli 2001, p. 155). Anche il vescovo di Sora, mons. Giuseppe Maria Montieri, non volle piegarsi al nuovo ordine di cose e “quando le truppe garibaldine entrarono a Napoli… non volle permettere nelle sue diocesi il canto del Te Deum reclamato come nel ’48 dai liberali e talvolta imposto al clero con la forza” (Marsella C.: “I Vescovi di Sora”, Tipografia Vincenzo D’Amico, Sora 1935, pp. 250/251). Con l’avvento dei Piemontesi nel Lazio meridionale, il vescovo, nei cui confronti era stato emesso un mandato di cattura, preferì rifugiarsi a Roma dove, prostrato e afflitto, venne a mancare il 12 novembre del 1862. Dopo la morte di Montieri la diocesi sorana rimase vacante per un lungo decennio. Soltanto nel 1872, infatti, poteva insediarsi il nuovo vescovo mons. Paolo De Niquesa. Fu però soprattutto nella seconda metà del decennio post-unitario che il governo sabaudo assestò il colpo di grazia. La legge n. 3036 del 7 luglio 1866 negava il riconoscimento e la capacità patrimoniale a tutti gli ordini, le corporazioni e le congregazioni religiose. I cospicui beni di tali enti furono incamerati dal demanio statale. Venne altresì sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico, ad eccezione delle parrocchie, di possedere beni immobili. Nello stesso anno il primo ministro Giovanni Lanza estese l’esproprio dei beni ecclesiastici all’intero territo-rio nazionale. Con un’altra legge, la n. 2848 del 15 agosto 1867, fu varata la definitiva soppressione di tutti gli enti secolari considerati inutili per la vita religiosa del paese. Ormai il perverso meccanismo si era messo in moto e niente poteva fermare il suo incedere. Basti pensare che ancora nel 1873, con una legge datata 19 giugno, il provvedimento di esproprio dei beni ecclesiastici veniva esteso anche alla città di Roma entrata ormai a far parte del nuovo Regno d’Italia.
11 “La capillare persecuzione anticattolica frutta un bottino ingente: circa un milione di ettari di terra per non parlare delle migliaia di edifici (conventi, romitori, cappellanie, chiese) capillarmente diffusi su tutto il territorio nazionale. Tutto questo patrimonio accumulato in più di mille e cinquecento anni dalla popolazione cattolica passa di mano e va ad arricchire l’elite illuminata” (AA.VV.: “La storia proibita…”, op. cit., p. 155).
12 Si trattava di una imposta sulla macinazione del grano e dei cereali in genere che produsse, come suo primo effetto, un sensibile aumento del prezzo del pane. La qualcosa fu causa di disordini, tumulti e rivolte popolari sedate nel sangue dall’esercito piemontese. La ‘tassa sul macinato’ influì notevolmente su quel violento rigurgito che il brigantaggio fece registrare negli ultimi anni del decennio post-unitario.
13 Panirossi E.: “La Basilicata. Studio amministrativo, politico ed economia pubblica”, Verona 1868.
14 Alianello C., op. cit., p. 128.
15 Il 20 dicembre del 1860 il ministro della guerra Fanti “varò un decreto reale in base al quale vennero richiamati alle armi, secondo le modalità della legge borbonica del 19 marzo 1834, tutti gli individui delle province ‘napoletane’ obbligati a ‘marciare’ per le leve 1857, ‘58, ‘59 e ‘60, ivi compresi i già renitenti; venne stabilito come termine per la presentazione il 31 gennaio 1861… Le autorità militari… facevano affidamento sopra un gettito complessivo di 72.000 uomini” (Molfese F., op. cit., P. 31). I risultati, però, come facilmente preventivabile, furono modesti. “Il governo unitario subì nelle province meridionali, sul terreno della coscrizione obbligatoria, uno scacco bruciante. Infatti il ri-chiamo urtò in un impressionante fenomeno di renitenza, al punto che il termine del 31 gennaio, con decreto del 24 aprile, dovette essere rinviato al primo giugno 1861, e che a questa ultima data i soldati presentatisi furono in tutto 20.000” (Molfese F., op. cit., p. 32). “Dopo la proclamazione del regno d’Italia ci fu la regolare chiamata alle armi anche nelle regioni meridionali, poiché il governo di Torino temeva un attacco da parte dell’Austria e voleva organizzare un più forte esercito nazionale nel quale si amalgamassero uomini provenienti dalle diverse regioni. Ma molti meridionali, sia che non avessero mai prestato servizio militare, sia che avessero già servito nei reparti borbonici, non se la sentirono di vestire la divisa di un re sconosciuto, temendo anche di essere chiamati a combattere in regioni settentrionali mai viste contro un nemico di cui tutto ignoravano, nei confronti del quale non nutrivano alcuna animosità. Inoltre, le popolazioni meridionali non erano abituate alla leva in massa, sicché quando furono resi pubblici i bandi per la chiamata alle armi, molti giovani preferirono andare in montagna, nei boschi a raggiungere i briganti che si diceva combattessero per il vecchio re” (Scarpino S.: “Il brigantaggio dopo l’unità d’Italia”, Fenice 200, Milano 1993, pp. 32/33).
16 Montanelli I.: “Storia d’Italia”, Fabbri Editore, “Gli anni della destra”, vol. 32, Ariccia 1995, p. 79.
17 Levi C.: “Cristo si è fermato a Eboli”, Casa Editrice Einaudi, Cles s.d., p.113.
18 “Oltre ad acquisire i beni dei cattolici, i liberali s’impossessarono per due lire dei beni demaniali: più di un milione e cinquecentomila ettari, secondo la valutazione dello storico marxista Emilio Sereni. Il totale degli ettari alienati e venduti ammonta a 2.565.253: ‘oltre due milioni e mezzo di ettari di terra, situati per la maggior parte nell’Italia meridionale, nel Lazio e nelle isole’ scrive Sereni. A pagare il prezzo di questo gigantesco passaggio di ricchezza (oltre alla Chiesa) sono i contadini ‘i quali videro, sulle terre che essi coltivavano generalmente a condizioni non troppo gravose, per conto degli enti religiosi proprietari, subentrare nuovi padroni, ben più esigenti ed avidi degli antichi; ed ai quali vennero a mancare, d’altra parte, le risorse economiche ed assistenziali che… in altri tempi questi beni ecclesiastici avevano loro assicurato’. Nel Regno d’Italia accentramento politico e concentrazione di ricchezza procedono di pari passo: Sereni calcola che dal 1861 al 1881, nel giro quindi di venti anni, il numero dei proprietari terrieri crolla da 4.153.645 a 3.351.498. Nel 1861 i proprietari sono 191 ogni 1000 abitanti, nel 1881 ne restano 118” (AA.VV.: “La storia proibita…”, op. cit., pp. 155/156).
19 “Garibaldi risalendo la penisola alla testa delle sue camicie rosse, aggregò attorno a sé migliaia di contadini e di popolani attratti dalla promessa della distribuzione delle terre. Il generale si era fatto paladino di una vera e propria rivoluzione liberale che, spazzati via i Borbone dal meridione, avrebbe procurato il benessere e l’emancipazione delle classi più umili. Le cose però non andarono così: le terre vennero ridistribuite ma finirono in gran parte nelle mani dei ricchi latifondisti del sud che aumentarono la loro posizione di privilegio… Di fronte a questo oltraggio Garibaldi non riuscì a fare buon viso a cattivo gioco specie perché avvertiva la delusione profonda di tante migliaia di contadini e di braccianti che lo avevano seguito nelle varie tappe della sua impresa. E così, consegnato il Regno a Vittorio Emanuele II, ritenne ultimata la sua missione e preferì ritirarsi nella quiete di Caprera” (Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, op. cit., p. 17, nota 14). Il 26 ottobre del 1860, a Teano o giù di lì, c’era stato lo storico incontro tra Garibaldi e il re sabaudo. Il 9 novembre il generale, afflitto e deluso, abbandonava Napoli alla chetichella e si rifugiava in quel di Caprera. “Questi (Garibaldi, nda) si congedò dai suoi uomini da solo e senza squilli di tromba perché Farini (luogotenente generale di Napoli, nda) aveva perfino proibito il famoso inno… Farini vietò al Giornale Officiale di dare notizia della partenza di Garibaldi per Caprera” (Montanelli I: “Storia d’Italia”, Fabbri Editore, “L’unità d’Italia”, vol. 31, Ariccia 1995, p. 126). “Ma il peggio doveva ancora venire: tanti furono i contadini che, viste svanire come neve al sole le fulgide illusioni, non se la sentirono di ritornare alla grama esistenza di un tempo ma scelsero di salire sulla monta-gna andando ad ingrossare le fila del brigantaggio. Così molti garibaldini divennero briganti e si trovarono a combattere una lotta fratricida contro i compagni di avventura di qualche tempo prima” (Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, op. cit., p. 17, nota 14).
20 “I contadini invece diventarono ancora più poveri: oltre a non possedere le sostanze per acquistare le terre, vennero a perdere anche quella preziosa risorsa degli usi civici sulle terre demaniali che, per secoli, aveva costituito l’ancora di salvezza per i ceti più umili (diritto di legnatico, di pascolo, di foraggio, ecc.) e che, tutto ad un tratto, il nuovo governo abolì di sana pianta” (Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, op. cit., p. 17, nota 14).
21 Bianco Di Saint Jorioz A.: “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1864”, Daelli, Milano 1864.
22 Alianello C., op. cit., pp. 129/130.
23 Scarpino S.: “La guerra cafona. Il brigantaggio meridionale contro lo Stato unitario”, Boroli Editore, Milano 2005.
24 Sulla vita e sulle ‘imprese’ di Carmine Donatelli Crocco cfr. “E si diventa Brigante. Autobiografia trascritta da E. Massa”, Pianeta Libro 2000, Finiguerra Arti Grafiche, Lavello 2001.
25 “Domenico Fuoco, di professione ‘tagliapietre’, nasce a San Pietro Infine nel 1837. Convinto sostenitore della monarchia borbonica entra a far parte della brigata dei volontari di Lagrange, partecipando alla sfortunata spedizione in Terra di Abruzzo. Quindi si unisce alla banda di Chiavone. Dopo la morte del brigante sorano (1862) torna sulle montagne di casa e forma una sua banda, mettendosi a disposizione di Raffaele Tristany, legittimista spagnolo inviato dal comitato borbonico di Roma ad organizzare i briganti lungo il confine. Ben presto dà vita ad un’intesa con le bande Pace, Guerra, Tommasino, Albanese, Giordano, Colamattei nel tentativo di portare avanti una strategia comune in un’area assai vasta di territorio che spazia dalle Mainarde, al Matese, al Massico. E’ uno dei briganti postunitari più ‘famosi’: sulla sua testa è posta una taglia cospicua alla quale la prefettura di Terra di Lavoro aggiunge un premio straordinario. La banda Fuoco si rende protagonista di numerose ‘imprese’ anche nello Stato Romano dove solitamente i briganti vanno a svernare. Il Fuoco si reca spesso a Roma presso la centrale legittimista borbonica, per ricevere aiuti economici e direttive. A causa però della sua eccessiva politicizzazione, ben presto si aliena le simpatie degli altri capibanda che preferiscono prendere vie più semplici e redditizie. La sua vita da brigante termina improvvisamente nell’agosto del 1870: il Fuoco infatti viene trucidato da alcuni possidenti che aveva sequestrato, in una grotta nei pressi di Picinisco” (Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, op. cit., p. 44, nota 45). Sull’argomento cfr. Nicosia A.: “Brigantaggio postunitario: le bande Colamattei e Fuoco”, Unione di Comuni “Municipi d’Europa”, Tipografia Arte Stampa, Roccasecca 2004.
26 “Luigi Alonzi, alias ‘Chiavone’, nacque a Sora, in contrada La Selva, nel 1825. Suo nonno Valentino era stato uno dei più fedeli luogotenenti del famigerato Gaetano Mammone che tanto negativamente si era distinto nel 1799. Dopo l’avvento dei piemontesi e la fuga dei regnanti borbonici prima a Gaeta e poi a Roma, divenne uno dei più audaci sostenitori del deposto re Francesco II, nel sorano e nei paesi limitrofi. Messosi alla testa di un folto stuolo di ‘selvaroli’, iniziò a contrastare con le armi le iniziative del nuovo governo, rendendosi protagonista di numerose azioni che riscossero l’apprezzamento della centrale borbonica che, dall’esilio romano, dirigeva le operazioni legittimistiche nei territori dell’ex Regno. Proprio in virtù delle sue azioni ricevette titoli altisonanti quale quello di ‘Generale’ e, persino, di ‘Comandante in capo delle truppe del Re delle Due Sicilie’, orpelli al quale Chiavone dimostrò di essere sempre molto sensibile. Ben presto però la sua vanagloria entrò in netto contrasto con la visione più militare e pragmatica degli altri capi legittimisti, specie stranieri, che erano giunti sulle montagne di Sora proprio per controllare da vicino le iniziative sempre più velleitarie e prive di riscontri concreti, di Chiavone. Nell’estate del 1862 i dissidi diventarono insanabili e culminarono con l’arresto dell’Alonzi. Un tribunale di guerra presieduto dal Tristany, condannò Chiavone alla pena di morte. E così il 28 giugno, alle prime luci dell’alba, in una radura della valle dell’Inferno, un plotone di esecuzione eseguì mediante fucilazione, la sentenza. Assieme a Chiavone fu giustiziato anche il fido segretario Lombardi. Qualche tempo dopo i loro corpi furono bruciati e del ‘Generale’ Chiavone non rimase che uno sparuto mucchietto di cenere” (Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, op. cit., p. 12. nota 6). “Il corpo di Chiavone fu sotterrato nei pressi di Trisutti (sic!) e sopra il tumulo furono sparse ossa di montone abbruciate per far credere che quivi fosse stata uccisa una pecora. Così le ricerche dei soldati italiani riuscirono infruttuose e il terrore della sorte ignota del bandito continuò a manifestarsi fra le popolazioni e fra le truppe per parecchio tempo ancora” (Cesari C.: “Il brigantaggio e l’opera dell’Esercito Italiano dal 1860 al 1870”, II edizione, Ausonia, Roma MCMXXVIII, pp. 102/103). Sulla vita e sulle ‘gesta’ di Luigi Alonzi cfr. Ferri M.: “Il Brigante Chiavone. Avventure, amori e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello”, Centro Sorano di Ricerca Culturale, Cassino 2001.
27 Jadecola C.: “Altro che brigante! Andreozzi Luigi di Pastena in Regno”, Associazione Culturale “Le Tre Torri”, Tipolitografia Pontone, Cassino 2001.
28 “Bernardo Colamattei nasce a Colle San Magno nel 1842. Oppresso dalla leva obbligatoria imposta dal governo italiano, ben presto diserta: era infatti cannoniere di II classe presso Capua. Dopo essersi dato alla macchia sulle montagne che circondano il suo paese natio, forma una combriccola composta da una decina di briganti. Alla fine del 1864 si unisce alla banda di Domenico Fuoco, accogliendo presso di sé anche il fratello Antonio. Ha frequenti contatti con le altre bande che infestano l’alta Terra di Lavoro. La sua area di azione è sempre la stessa: le Mainarde, il Matese, la valle di Comino. Sequestri di persona, omicidi, estorsioni, furti, grassazioni, vendette, queste le ‘imprese’ più eclatanti di Colamattei e dei suoi accoliti, condite di ripetuti scontri a fuoco con le truppe governative. Nel 1867, non condividendone l’eccessiva politicizzazione, Colamattei si separa da Domenico Fuoco. Nel 1868, in un periodo particolarmente travagliato per le bande brigantesche, il ‘bovaro’ di Colle San Magno si consegna ai carabinieri di S. Elia Fiumerapido. Viene arrestato e condotto in carcere prima a Caserta e poi a Cassino. Sottoposto a processo la Corte di Assise di Santa Maria lo condanna prima a 10 e poi ad altri 12 anni di reclusione. Nel 1869 la Corte di Assise di Campobasso lo condanna alla pena di morte per i reati commessi nella sua circoscrizione territoriale, pena poi confermata nel 1872 dalla Corte di Assise di Napoli. Il ricorso prodotto in Cassazione viene accolto e la definitiva sentenza condanna Bernardo Colamattei al carcere a vita. Non si conosce la data esatta della sua morte: è certo però che non uscì più vivo dal carcere di Cassino” (Riccardi F.: “Piccole storie di briganti”, op. cit., p. 41, nota 42). Su Colamattei cfr. Nicosia A.: “Brigantaggio postunitario: le bande Colamattei e Fuoco”, op. cit.
29 La canzone dal titolo “Il brigante Colamattei” (testo e musica di Benedetto Vecchio) è inserita nel cd “Danza d’estate” realizzato nel 2003 dal gruppo musicale “Progetto MBL”.
30 Francesco Guerra era un ex sergente dell’esercito borbonico che aveva partecipato alla battaglia del Volturno contro i garibaldini. Tornato nella natia Mignano, ai primi del 1861 venne tratto in arresto per le sue simpatie per il vecchio regime. Rimesso in libertà si diede subito alla macchia sulle montagne tra Mignano, Galluccio e Roccamonfina, mettendo insieme una combriccola di una trentina di persone. Rimasto sempre all’ombra della grande banda di Domenico Fuoco, il tagliapietre di San Pietro Infine, nelle cui fila, spesso e volentieri, confluiva con i suoi uomini per organizzare azioni comuni, la sua ‘carriera’ si concluse la notte del 30 agosto del 1868. Sorpreso da un drappello di Guardie Nazionali di Mignano e da reparti del 27° fanteria sui monti sovrastanti il paese, nei pressi di una masseria abbandonata, restò ucciso nel corso di un violento conflitto a fuoco assieme ad altri tre compagni. Venne catturata anche la sua compagna Michelina De Cesare che morì poco dopo in seguito alle torture alle quali fu sottoposta. I corpi dei tre briganti e della ‘druda’ furono trasportati a Mignano e rimasero esposti per più giorni nella pubblica piazza. Sulla vicenda cfr. Petteruti B.: “Brigantaggio e briganti nel sessano 1860-1870”, Sessa Aurunca 1986.
31 Alessandro Pace era un contadino nativo di Caspoli, frazione del comune di Mignano. Anch’egli, come tanti altri, subito dopo l’arrivo dei piemontesi nel meridione d’Italia, aveva preso la via della montagna e costituito una sua banda. Il campo di azione era più o meno quello del compaesano Francesco Guerra (Mignano, Roccamonfina, Galluccio), anzi, spesso e volentieri, le due bande si univano per concertare azioni comuni. Pace, comunque, fu più fortunato di Guerra (i due formavano una singolare coppia quanto a cognomi): fu catturato, infatti, sembra per il tradimento della compagna Giocondina Marino, il 27 agosto del 1869 in una grotta nei pressi di Morcone, nel beneventano. Sull’argomento cfr. Petteruti B.: “Brigantaggio e briganti nel sessano 1860-1870”, op. cit.
32 “Il palazzo e i briganti. Il brigantaggio nelle province napoletane. Relazione della Commissione d’Inchiesta Parlamentare letta alla Camera dei Deputati da Giuseppe Massari il 3 e 4 maggio 1863”, Pianeta Libro 2000, Lavello 2001, p. 23.
33 De Matteo G., op. cit., p. 263.
34 De Matteo G., op. cit., p. 263.
35 Archivio Camera Deputati, seduta 20 novembre 1861, atto n. 234.
36 De Matteo G., op. cit., p. 263.
37 O’ Clery P. K.: “La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione”, Edizioni Ares, Milano 2000, p. 529.
38 “Il palazzo e i briganti…”, op. cit., pp. 9/10.
39 O’ Clery P. K. , op. cit., p. 508.
40 Sulla vicenda cfr. Riccardi F.: “Giustizia piemontese su Pontelandolfo e Casalduni” in Rinascita”, anno XI, n. 17, sabato 26 e domenica 27 gennaio 2008, p. 17.
41 O’ Clery P. K. , op. cit., p. 528
42 Scirocco A.: “Giuseppe Garibaldi” Mondadori, Milano 2004, p. 274.
43 Gramsci A.: “L’Ordine Nuovo”, rassegna settimanale di cultura socialista, anno 1920, Teti e C. Editore, Farigliano (Cn), 1976.

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