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Studi Cassinati, anno 2008, n. 2
di Costantino Jadecola
Prese il via dalla campagna di Aquino la spedizione nell’agro romano del 1867 dei “volontari del Sud”, cui diedero il proprio contributo due patrioti dimenticati: Pasquale Pelagalli e Aristide Salvatori. La spedizione si concluse con la disfatta di Mentana.
L’appuntamento era a Scardatore, un’appartata località della campagna di Aquino privilegiata dalla presenza di alcuni boschi. Limitrofa al territorio di Pontecorvo, dal cui centro urbano dista non più di quanto disti da Aquino, essa visse un’esperienza poco nota in occasione della spedizione garibaldina nell’agro romano del 1867 finalizzata alla conquista di Roma e, dunque, alla caduta dello Stato Pontificio che, com’è noto, mal si concluse per l’“eroe dei due mondi” in quel di Mentana il 3 di novembre dello stesso anno.
Ad organizzare quell’appuntamento, in prossimità di una sua casella di campagna, era stato Pasquale Pelagalli, da un paio d’anni deputato al parlamento nazionale, da sei consigliere provinciale di Terra di Lavoro e da sette sindaco di Aquino, il quale, in virtù dei buoni rapporti che intercorrevano tra lui e i promotori della spedizione, in particolare con Giovanni Nicotera, che dei volontari del sud era il capo, non solo aveva messo a disposizione quella sua proprietà ma aveva anche provveduto a sostenere il soggiorno stesso dei volontari e forse al loro equipaggiamento, tant’è che di lui si dice che “cooperò molto, con la persona e con gli averi, alla spedizione dell’Agro romano del 1867 e seppe, in tal modo, predisporre un valido appoggio a quell’azzardata impresa spenta nel sangue di Mentana”1.
Se problemi specialmente di natura organizzativa avevano caratterizzato la successiva partenza dei volontari dalla campagna di Aquino ed altri, soprattutto logistici, non erano mancati finché essi si trovavano ancora in territorio del Regno – l’operazione, infatti, era priva di ufficialità, anche se chi doveva sapere sapeva – ben diversamente erano andate le cose una volta superato il fiume Liri, cioè il confine con lo Stato Pontificio: se l’occupazione di Falvaterra tutto sommato non aveva creato grossi problemi diversamente, molto diversamente, le cose erano invece andate a Vallecorsa dove le truppe pontificie erano state ben sollecite a fronteggiare la situazione.
Ma non è della spedizione che s’intende parlare in questa sede quanto, piuttosto, di un paio di personaggi del territorio, generalmente ignorati, che, con altri – beninteso, in vario modo – contribuirono a quella iniziativa.
Innanzi tutto Pasquale Pelagalli. Nato ad Aquino il 10 novembre 1826 da Gaetano e da Rosalinda Carrocci, originaria di Pontecorvo, dopo aver compiuto il corso di “belle lettere”, l’attuale Liceo classico, al “Tulliano” di Arpino, meritando il “diploma d’onore”, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Napoli ove, a 21 anni, conseguì la laurea. Iniziò, quindi, ad esercitare l’avvocatura presso la Gran Corte Civile del Regno, non certo con continuità, deve supporsi, per via del suo impegno dapprima patriottico e poi amministrativo e politico a vari livelli.
Non a caso, l’anno dopo aver conseguito la laurea, il fatidico 1848, si trovò coinvolto nei moti rivoluzionari napoletani. In particolare il 25 marzo quando egli – raccontano le cronache –fu tra coloro che protestarono contro la legazione d’Austria cercando, nel contempo, di intimorire Ferdinando II per costringerlo ad inviare le sue truppe in aiuto dei Piemontesi che combattevano contro gli Austriaci. In questa occasione Pelagalli osò strappare prima e gettare poi in mezzo al popolo, che confortava con grida e con applausi l’azione, gli emblemi con l’aquila bicipite posti sul cancello della villa dove aveva sede la legazione austriaca presso i Borbone, emblemi che furono successivamente dati alle fiamme in piazza Santa Caterina a Chiaia.
Nonostante fosse perseguitato dalla polizia borbonica e nonostante una condanna in contumacia sulle spalle, Pasquale Pelagalli, che aderiva alla Giovane Italia, continua ad impegnarsi nell’attività patriottica: rischia sia il carcere che l’esilio e sebbene venga più volte fermato per misure di “alta polizia”, riesce, però, sempre a farla franca.
Seguace di Salvatore Pizzi, che è il leader dei liberali in Terra di Lavoro, le relazioni fra i due divennero molto strette allorché Pizzi, nel 1855, fu confinato in San Donato Val Comino e schedato come “attendibile”, ovvero come persona sottoposta a stretta sorveglianza da parte della polizia borbonica. Ma quando l’aria cambia e Garibaldi nomina Pizzi governatore della provincia di Terra di Lavoro con pieni poteri, è il 1860, questi vuole al suo fianco, quale diretto collaboratore, l’amico Pasquale Pelagalli che inizia, così, a quell’attività pubblica che avrebbe poi svolto per tutta la vita.
In quello stesso 1860, in riconoscimento dell’impegno patriottico, delle benemerenze politiche e della stima che ha saputo guadagnarsi, Pasquale Pelagalli viene eletto sindaco di Aquino, incarico che conserverà per ben 22 anni, ossia fino alla morte; l’anno dopo, nel 1861, a tale incarico si unisce anche quello di consigliere (lo sarà fino al 1881) per il mandamento di Roccasecca presso l’Amministrazione provinciale di Terra di Lavoro, ente del quale sarà presidente dal 5 settembre 1870 al 23 luglio 1875. Ma la sua ascesa politica non si arresta e culmina, infine, con l’elezione al parlamento nazionale per il collegio di Pontecorvo nelle consultazioni del 22 e 29 ottobre 1865, elezione che sarà confermata per le tre successive legislature, fino al 1874.
Pasquale Pelagalli muore nella sua Aquino il 19 novembre 1882, quando aveva appena 56 anni.
L’altro personaggio è Aristide Salvatori: figlio di Giambattista e di Clementina Peronti, nasce a Ripi il 10 novembre 1838. Frequenta gli studi a Roma, ma forse anche ad Alatri, avendosi notizia che venne espulso dal collegio, fa parte della “Giovane Italia” ed a causa delle sue idee anticlericali viene esiliato a Pontecorvo.
E proprio stando a Pontecorvo, dove pare ricoprisse l’incarico di aiutante maggiore in seconda della locale Guardia Nazionale, è assai probabile che Aristide Salvatori sia entrato in contatto con Pasquale Pelagalli con il quale evidentemente condivide quell’idea della liberazione di Roma ed il modo in cui attuarla. Ma non solo. Infatti, sebbene la cosa sia in totale contrasto con il ruolo ricoperto, Salvatori non si farebbe per niente scrupolo di muovere le fila per raccogliere adesioni alla causa.
Tale sua attività non passa evidentemente inosservata ma è in seguito al rinvenimento di due sue lettere in casa del toscano Massimiliano Guerri domiciliato al Borgo di Gaeta che la sera del 6 settembre 1867, su disposizione del sottoprefetto di Sora, la sua abitazione viene sottoposta a perquisizione: vengono trovate lettere, manifesti, circolari del partito d’azione e 360 cartucce. Insomma, tutto materiale decisamente compromettente e perciò ritenuto interessante dagli inquirenti che naturalmente lo sottopongono all’attenzione del procuratore del re di Cassino per le iniziative del caso; dal canto suo, il prefetto della provincia di Terra di Lavoro, Colucci, non esita un solo istante a trasferirlo a Nola, pensando di metterlo in difficoltà.
Ma anche stando a Nola, il pensiero di Aristide Salvatori è sempre rivolto alla causa. Impaziente di agire, il 7 ottobre si reca a Napoli per incontrare Giovanni Nicotera ma, non essendoci riuscito, dice chiaro e tondo al suo aiutante, Matina, che lui, il giorno dopo, avrebbe comunque varcato il confine pontificio con l’ausilio degli uomini raccolti al confine stesso o giù di lì.
E così fece. Anzi stava per fare, quando fu raggiunto da un messo inviatogli dal sindaco di Aquino Pelagalli il quale lo invitava, meglio, gli ordinava di soprassedere dall’impresa dal momento che Nicotera stava per arrivare. Piuttosto, gli fa sapere Pelagalli, sarebbe stato il caso che egli avesse raggiunto il piccolo nucleo di volontari appena arrivati ad Aquino ed acquartierati in quella sua casella di Scardatore. E Salvatori ubbidisce.
È giovedì 10 ottobre 1867 quando l’Osservatore Romano rivela di essere a conoscenza che centocinquanta “Garibaldini arruolati” sono appena giunti ad Aquino da Napoli, “diretti ad ingrassare le bande già esistenti.”2
La notizia non è del tutto destituita di fondamento. I “Garibaldini arruolati” erano, però, meno di cinquanta. Giunti il giorno 9 alla stazione di Aquino con un treno merci proveniente da Napoli si stavano incamminando verso Pontecorvo quando furono fermati da alcuni soldati di frontiera ai quali dissero di essere operai diretti alla cartiera di Aquino di proprietà dello stesso Pelagalli. Interpellato, questi confermò la cosa per iscritto aggiungendo che quei “lavorieri” gli erano stati inviati dal duca di San Donato e che la loro destinazione era in realtà la miniera di petrolio di San Giovanni Incarico, dove la scoperta del prezioso liquido era appena avvenuta, ovvero in una località a due passi dal confine.
Era stata poi la volta di circa 400 volontari, quasi tutti anziani soldati, partiti da Napoli con un treno speciale formato da dieci vagoni. Superata la stazione di Cassino all’una di notte, il treno si era fermato fra le stazioni di Aquino e Roccasecca, cioè “al punto convenuto con gli amici di Cassino”3, probabilmente all’incrocio della ferrovia con la via Leuciana, la strada che collega la Casilina a Pontecorvo. Da qui, sempre guidati dagli “amici di Cassino”, essi si erano incamminati verso località Scardatore raggiungendo quindi la casella di campagna del Pelagalli dove già si trovava il gruppo giunto in mattinata e dove erano state deposte armi, munizioni e viveri e da dove, con l’aiuto di guide, essi avrebbero dovuto traghettare sull’altra sponda del Liri ed entrare nello Stato Pontificio.
Dopo vari contrattempi e peripezie, la mattina del 13 ottobre la colonna pose il campo al di là del fiume. Appena dopo, un drappello comandato proprio da Aristide Salvatori fu incaricato di occupare Falvaterra, che era a tre ore di marcia, coll’unico fine di provvedersi di viveri e di avere dai patrioti del luogo delle brave guide. Ma, invece che operare in tal senso, gli uomini dell’esuberante Salvatori, intimoriti i pochi gendarmi presenti in paese, che ripararono a Ceprano, vi proclamarono il governo provvisorio, decretando l’abolizione della tassa sul macinato e la diminuzione del prezzo del sale per poi, appena dopo, abbandonarlo.
“Falvaterra, paese della provincia di Frosinone posta presso il confine Pontificio”, scriverà l’Osservatore Romano, “fu ieri invasa da una banda di circa 200 garibaldini i quali in mezzo alla costernazione di quegli abitanti, abbatterono con la solita violenza gli stemmi pontifici, proclamarono il governo provvisorio di Garibaldi così espillarono le casse del Comune e del macinato, commettendo anche altri eccessi. “La truppa marciò immediatamente a quella volta, ma prima del suo arrivo i garibaldini si erano già ritirati nelle limitrofe montagne del Regno di Napoli.”4
Ben diversamente, invece, andarono le cose di lì a qualche giorno dalle parti di Vallecorsa dove fra i molti prigionieri vi fu anche Aristide Salvatori. Rinchiuso dapprima nella rocca di Ceccano, egli fu successivamente trasferito a Castel Sant’Angelo e quindi al carcere di Civitavecchia dal quale evase per arruolarsi quindi nella squadra nazionale per la lotta al brigantaggio dove raggiunse il grado di aiutante maggiore.
Se dopo Vallecorsa la colonna Nicotera prosegue la non facile marcia verso l’obiettivo incappando in quel tragico episodio che si consumò presso la casina Valentini in territorio di Monte San Giovanni Campano, di Aristide Salvatori che ne è? Dopo il 1870, una volta annessa anche Roma allo stato unitario, egli, come tenente dei Cacciatori delle Alpi, venne inviato prima a Lodi e poi a Piacenza: a Lodi Salvatori mostrò interesse per il giornalismo partecipando alla fondazione del giornale La Plebe diretto da Enrico Bignami; a Piacenza, invece, il 24 marzo 1870 prese parte ad un tentativo rivoluzionario repubblicano finalizzato ad abbattere la monarchia e concretizzatosi di fatto in un assalto alla locale regia caserma: avendo avuto, ovviamente, un ruolo di primo piano nell’operazione Salvatori finì tra gli arrestati e fu richiuso, pare, nel carcere di Cagliari.
Amnistiato, nel 1873 tornò a Ripi dove occupò cariche politiche e amministrative. Ma fu anche professore ad Alatri, segretario al comune di Torrice e fors’anche rivenditore del petrolio che veniva estratto nella campagna ripana. In questo ritorno nella terra natale egli, però, manifestò soprattutto interesse per il giornalismo, fondando – era il mese di settembre 1874 – il giornale d’ispirazione repubblicana Il Lampo, interessante fonte di informazioni sul territorio. La pubblicazione di questo giornale cessa con il n. 168 del gennaio 1879 (una durata non indifferente, dunque) ed è di fatto sostituita, in quello stesso anno, da quella de L’amico del popolo, settimanale democratico, pubblicato, però, a Frosinone.
Aristide Salvatori muore a Ripi il 25 marzo 1909. A lui è intitolata una strada del centro storico dove anche una lapide lo ricorda: “Aristide Salvatori col pensiero e con l’azione concorse a spezzare il gioco teocratico. Combatté a Vallecorsa preludio di Mentana continuando il tenace anticlericale apostolato. Educò la nostra terra a democratica fede. La gioventù ripana al suo maestro 10 ottobre 1910”.
Quanto a Pasquale Pelagalli, invece, deve amaramente dirsi che nel suo paese, Aquino, il suo nome e la sua opera sono decisamente ignorati e, al di là di un tronco di strada piuttosto periferico, null’altro lo ricorda.
1 Elio Galasso, Montecitorio. Le litografie di Antonio Manganaro. (Edizione integrale dell’Album dei Cinquecento). Edizioni del Museo del Sannio. Benevemto, 1988.
2 L’Osservatore Romano. 10 ottobre 1867. Anno VII, numero 233.
3 Felice Cavallotti, Storia dell’insurrezione di Roma nel 1867. Milano 1869, p. 426.
4 L’Osservatore Romano. Martedì 15 ottobre 1867. Anno VII, numero 237.
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