La Taverna San Cataldo in S. Pietro Infine

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Studi Cassinati, anno 2008, n. 3

di Maurizio Zambardi

Premessa
Seguendo il tracciato della Via Casilina da Cassino verso Teano, dopo aver superato il dosso di Colle Apone1 e dopo aver percorso per circa un chilometro il tratto rettilineo che introduce nell’estrema appendice orientale della Valle del Liri, si giunge al bivio San Cataldo, sito nel comune di San Pietro Infine. Qui la strada si dirama: un ramo continua con una leggera deviazione verso Mignano, costeggiando le pendici settentrionali di Monte Lungo, l’altro diverge verso nord-est costeggiando il nuovo centro di San Pietro, disteso su un lieve pendio ai piedi di Monte Sambúcaro2. Il bivio di San Cataldo, che costituisce un importante nodo stradale, è caratterizzato dalla presenza di numerosa segnaletica direzionale e da cartelloni pubblicitari che impediscono, o quantomeno limitano a chi guida, di osservare con la giusta attenzione un antico casolare, ora in stato di abbandono, utilizzato come deposito di materiale vario. La quota d’ingresso principale dell’edificio, a causa del rilevato stradale della Casilina, si trova a circa un metro e mezzo più in basso dalla carreggiata. Chi non è impegnato nella guida, però, non puó non accorgersi della presenza di un portale in pietra con grossa lapide sovrastante. Purtroppo la fugacità dell’attraversamento e la mancanza di un’adeguata area di sosta non consentono di potersi soffermare e ammirare da vicino la bellezza di questa struttura3. Il fabbricato corrisponde all’antica “Taverna di San Cataldo”, localizzata erroneamente, almeno fino a qualche anno fa, nel sito di Ad Flexum4, toponimo di età romana derivante dal punto di flesso dell’antica Via Latina5.

Ipotesi sull’epoca di costruzione della Taverna
Non si conosce, almeno al momento, la data di costruzione dell’edificio ma è probabile che la Taverna, a giudicare da un’analisi stilistico architettonica, risalga alla fine del Seicento o inizi Settecento. Comunque la sequenza di corpi di fabbrica aggiunti nel tempo, in successione est-ovest, testimoniato anche dalle differenti quote del portale principale e dal grosso arco di accesso all’annesso cortile, e quindi alle stalle, posti lungo lo stesso prospetto che si affaccia sul bivio, attestano l’antichità del fabbricato. Anche se dalla lettura delle strutture murarie6 e, nello specifico, la mancanza di ruderi e reperti ceramici di superficie fanno escludere l’ipotesi che la struttura risalga all’epoca romana, così come sostenuto da alcuni studiosi7.
Vediamo ora dai documenti di archivio quali sono i riferimenti alla Taverna San Cataldo e alla omonima e limitrofa chiesetta (ora distrutta), che ha dato il nome alla taverna stessa.
La più antica attestazione della Taverna che si è riusciti a trovare è quella del disegno acquerellato di Marcello Guglielmelli8, riproducente il Territorio di San Pietro Infine, risalente agli anni 1715-1717. Nel grafico la Taverna è rappresentata con un unico grosso corpo di fabbrica, affiancato, sul lato ovest, da un altro più piccolo, indicante probabilmente le stalle. Dal disegno è evidente come l’edificio già a quell’epoca si trovasse compreso in una zona nodale costituita dalla strada Casilina, all’epoca chiamata “Via Napolitana”, da una strada più piccola che puntava dritto al Borgo medievale di San Pietro Infine e dal “Rio Sicco de Pantanelle”9. A poca distanza dalla Taverna, a nord della “Via Napolitana”, vi è una croce che fiancheggia alcuni ruderi posti su un piccolo rilievo di terra. Al lato sud del rilievo sembra riconoscersi una fontana, o piccolo lavatoio, che riceve acqua dal vicino rio. I ruderi che fiancheggiano la croce ed anche il rilievo su cui sono disegnati probabilmente sono da riferirsi all’antica chiesetta di San Cataldo, che doveva quindi mostrarsi diruta agli occhi del Guglielmelli. Se ne avrà conferma, infatti, più avanti, quando si riferirà la notizia che la chiesa di San Cataldo sarà ricostruita intorno al 1720, ad opera di Pietro e Nicola Deodati.
Riferimenti storici sulla Chiesa di San Cataldo
Oggi della chiesetta di San Cataldo non rimane più niente se non alcuni ruderi, coperti da una vegetazione spontanea di alto fusto limitrofa alla strada, nei pressi della taverna. Vediamo allora di provare a stabilire l’epoca di costruzione della chiesa di San Cataldo. Ad eccezione di un’antica leggenda, riportata dal parroco don Giustino Masia nel suo libello sulla storia di San Pietro10, che vuole la preesistenza di una taverna11 al passaggio dell’apostolo Pietro12 (quindi siamo intorno alla prima metà del I sec. d. C) lungo la via Latina, riportiamo quelle che sono le notizie desunte dalle fonti certe, tratte dall’Archivio di Montecassino. È possibile quindi attestare con certezza l’esistenza della chiesa di San Cataldo già alla seconda metà del XIII secolo. Il primo riferimento infatti lo troviamo nel Registro II dell’Abate Tommaso13: ce lo ricorda il Pantoni14: “Successore di Bernardo fu Tommaso (1285-1288), che in precedenza era stato decano o priore, ma aveva pure tenuto gli uffici assai consistenti di economo e procuratore. Nel suo Registro II, sono consegnati gli obblighi del clero e delle singole chiese. Troviamo per quanto riguarda San Pietro Infine, che l’arciprete e il clero dovevano dare ogni anno alcuni tarì all’ufficio della sacrestia di Montecassino, precisamente a Natale, Pasqua, e all’Assunzione di Maria, oltre la quarta parte dei redditi dei funerali. Di vivo interesse sono i titoli delle chiese tenute al pagamento di un censo per la festa di S. Benedetto. […]. La più tassata era la ‘ecclesia Sancte Maria de Pantanis’, con otto tarì, mentre le chiese di S. Nicola e S. Cataldo dovevano pagare, ognuna, due tarì”. Poi la chiesa di San Cataldo è menzionata nel Registro di Angelo Vescovo e Abate15. Il Pantoni16 scrive: “[…] nel registro di Angelo vescovo e abate (1357-1362), e di Andrea da Faenza abate (1369-1373), troviamo sempre in testa all’elenco delle chiese locali, quella di S. Pietro, seguita da quella di S. Maria delle Acque, S. Maria dei Pantani, S. Nicola, S. Cataldo, S. Martino e S. Maria del Lago”. Inoltre il Pantoni17 riferisce che: “In un atto del 1364 di Angelo Orsini, vescovo e abate di Montecassino, veniamo a conoscere i titoli di altre chiese nella zona, e la situazione di quelle già note. La chiesa di San Cataldo e di S. Maria delle Acque sono definite “in campestribus”. Ancora “Non molto diversa è la situazione che si ricava dal registro dell’abate romano Pietro de Tartaris18 (1374-1395), col quale si giunge quasi alla fine del tormentato Trecento. L’ufficio della Sacrestia Cassinese, negli anni 1378-1380, riceveva contributi dalle chiese di S. Nicola, S. Maria delle Acque, S. Cataldo, S. Pietro, che era tassata per cinque tarì, mentre le altre chiese ne pagavano quattro”19. Da quanto descritto possiamo notare che nelle fonti si parla solo della chiesa di San Cataldo e non della Taverna. Troviamo il primo riferimento alla taverna San Cataldo solo agli inizi del 1700 con la notizia della riedificazione della chiesa di San Cataldo ad opera di Pietro e Nicolò Deodati: “Nel primo quarto di secolo fu riedificata la cappella di S. Cataldo a cura di d. Pietro e Nicolò Deodati. La cappella suddetta era destinata ai viandanti, trovandosi sulla strada per Napoli. I due ricostruttori, nel 1721, chiedevano all’abate di Montecassino, di poter far benedire la cappella da persona da lui stesso designata. Fu delegato a questo scopo l’arciprete, ma con l’impegno che doveva essere assicurato un reddito, basato sull’affitto della taverna ivi esistente”20.
Sappiamo poi della funzionalità della Taverna dalla descrizione della terra di San Pietro Infine dell’Assenso reale di Carlo III di Borbone del 174321, che lungo la strada di Napoli, nella Terra di San Pietro Infine, “[…] ove è l’osteria di Nicola Diodati detta S. Cataldo22 […]”. Sempre nel 1743, nell’Inventario della Chiesa Madre sotto il titolo di S. Michele Arcangelo della Terra di San Pietro Infine, viene menzionata la chiesa di S. Cataldo che, insieme alle chiese di S. Gennaio (sic), S. Giovanni e S. Eustachio, non ha rendita alcuna, ma vi si celebra comunque la messa per devozione del popolo23.
Poi nella visita canonica del 1761 la Chiesa e la Taverna diventano inseparabili, infatti il Pantoni riporta: “La cappella di S. Cataldo alla Taverna, sulla strada di Napoli, destinata come si è visto ai viaggiatori e viandanti, non aveva obblighi né redditi, e vi era il necessario per la celebrazione della Messa”24.
Poi nel 1788 la Chiesa diventa patronato della famiglia Spallieri: “Alla vigilia del cataclisma rivoluzionario di Francia, precisamente nel 1788, l’abate Tommaso Capomazza si partì da San Vittore con il rettorato locale, d. Andrea Lanza, e giunto a San Pietro Infine si portò alla ‘domus Baronale’, dove fu ricevuto dal sacerdote Lorenzo Brunetti, che aveva in concessione alcuni beni del monastero25. La prima visita fu S. Michele ove, in genere, tutto fu trovato regolare. […] La famiglia Spallieri provvedeva pure alla cappella di S. Cataldo”26.
Passiamo poi alla visita canonica del 1801: “La visita fu effettuata dall’Abate Marino Lucarelli, che partendo da San Vittore giunge sul posto il 28 ottobre 1804 ricevuto da d. Loreto Brunetti, appaltatore o conduttore dei beni di Montecassino nella zona”. Dopo la chiesa di San Michele furono visitate per delega le altre chiese minori, tra cui compare anche quella di San Cataldo, insieme a quelle di S. Antonio Abate, S. Sebastiano e Santa Maria dell’Acqua. Il relatore nota che “ornamenta altarium et sacra utensilia mediocriter fuisse inventa ad formam”27. Probabilmente la chiesa riedificata doveva essere ad unico ambiente e doveva trovarsi sul lato sud del tratto della Via Latina, con ingresso verso la strada e quindi orientata in direzione nordovest-sudest, come quella di Santa Maria del Piano. Oggi, purtroppo, della chiesa non rimane più niente se non un cumulo di macerie. Ed è probabile anche che parte della chiesa sia rimasta sommersa dal rilevato stradale della Casilina.
Attualmente l’edificio appartiene alla famiglia Brunetti. Si ha notizia che prima della seconda guerra mondiale il casolare veniva ancora utilizzato come Taverna (sia come cantina che come trattoria) da Giuseppe Marandola proveniente da Rocca D’Evandro. Poi fu utilizzata come casa colonica e abitata dalla famiglia, molto numerosa, di Antonio Masella, che è rimasta ad abitarvi anche nel dopoguerra, fino agli anni 1962-63 quando, come successe a molte famiglie sampietresi, emigrò in Canada e il casolare rimase disabitato28. Oggi lo stabile è usato in parte come deposito di materiale vario; il resto, a causa dell’abbandono, è divenuto regno di una fitta vegetazione infestante. Alcuni solai e parte del tetto, quelli più a ovest, sono addirittura crollati.
Descrizione architettonica della Taverna
La taverna è composta da un blocco rettangolare allungato29, che si sviluppa su due livelli, e da un’area esterna (recintata da un muro) con funzione di cortile e dove rimangono ancora le tracce di alcuni ambienti certamente usati come ricovero per i cavalli. Dell’edificio su due livelli appare chiara una parte più antica che è quella posta ad est, caratterizzata da uno stupendo portale in pietra viva formato da un arco ribassato, contenente uno stemma nobiliare, e una sovrastante epigrafe commemorativa in latino.
Il corpo rettangolare a due piani è lungo 25,50 metri ed ha una profondità pari a 8,20 metri, nella parte est, e 7,00 m. ad ovest, dove erano le stalle. L’ingombro massimo della Taverna, comprensiva di Casolare, stalle e cortile, è pari a 31×18 metri. Il lato più lungo si sviluppa verso la Casilina. Il muro di cinta, alto circa m. 2,00 è ancora dotato, nel lato sud, di tre grossi contrafforti larghi da 2,5 a 3 metri. Nel cortile compare un pilastro rettangolare di dimensioni m. 1,30×0,70, la cui funzione era certamente quella di sostegno delle travi in legno della copertura e di parte del cortile.
Dal portone principale si accede ad un ambiente quasi quadrato largo 4,00×4,20 metri. Attraverso una porta, posta frontalmente all’ingresso, si puó accedere ad piccolo ambiente deposito-cantina, di dimensione 4,60×2,60 m. Mentre a destra del primo ambiente vi è una apertura più ampia che immette in un altro locale, destinato probabilmente a taverna, che contiene l’unica scala in muratura per l’accesso al primo piano, dove certamente si trovavano le camere da letto. L’ambiente, usato come taverna, comunica direttamente con la cucina, che ancora conserva il forno e il camino. Dalla cucina si poteva poi accedere ad un altro grosso ambiente di dimensioni 9,10×6,20, posto più a ovest, diviso in due dalla presenza di un grande arcone centrale, con la funzione di scarico della muratura degli ambienti del piano superiore. Quest’ambiente doveva costituire la stalla più importante per i cavalli e le carrozze, come testimoniato dalle mangiatoie poste sui lati nord e sud, e dalle strette finestre sul lato sud. Una porta posta nella parete ovest più estrema comunica con il cortile, a cui si ha accesso grazie ad un portone ad arco ricavato nel muro di cinta e prospiciente sulla strada.
Al Piano superiore, come detto, si saliva dalla scala a doppia rampa posta nell’ambiente destinato a taverna, da qui si poteva accedere alla stanza da letto più importante della Taverna, sia per esposizione che per riservatezza, di misure m. 4,65×7,10. Ed è proprio questa la stanza dove avranno soggiornato Carlo III e poi Francesco I di Borbone, come si vedrà più appresso.
L’ambiente al piano superiore che contiene la scala (di dimensione m. 4,70×6,20) doveva essere destinato alla servitù, mentre verso ovest vi sono altre tre camere, la prima più stretta, di dimensione 2,70×6,50 metri circa, la seconda di dimensione 6,00×6,20 metri circa e la terza di dimensione 4,00×6,20 metri circa.
Tutte le stanze sono dotate di finestre prospicienti sulla strada. All’esterno della Taverna a circa 10 metri ad ovest dal muro del cortile, vi è un pozzo del diametro di 1,20 metri.
Portale con stemma nobiliare
L’elemento architettonico più importante e caratterizzante della Taverna è il portale con stemma nobiliare e lapide commemorativa. Il portale, in pietra viva, ha un vano ampio 2,10 e alto 2,75 metri, misurato nel punto di intradosso della chiave di volta dell’arco. Le due ante laterali, proposte in maniera speculare, sono entrambe formate da quattro grossi blocchi lapidei modanati, ampi in prospetto 35 cm. circa30. L’arco, del tipo ribassato31, è formato da cinque grossi conci calcarei dello spessore delle ante sottostanti e di grandezza digradante verso il concio di chiave. Quest’ultimo, più piccolo degli altri, contiene un bassorilievo che riproduce lo stemma nobiliare del proprietario della Taverna (forse dei Deodati o degli Spallieri). L’emblema raffigura due felini controrampanti separati da un pino, che si presenta lacunoso nella parte inferiore del tronco. I felini, forse pantere, ma più probabilmente leonesse32, si ergono sulle due zampe posteriori affiancate, poggianti sulla sommità di due rocce, che in realtà sono due grosse pigne33. Le leonesse mettono in bella mostra i loro temibili artigli delle zampe anteriori mentre dalle loro fauci sporgono le lingue che sembrano punte di lance. Lo stemma ha una lacuna in basso a sinistra, proprio in corrispondenza delle zampe inferiori della leonessa di sinistra e della base del pino. Il pino è l’albero araldico più frequente, è anche il meglio rappresentato, soprattutto quando si tratta del Pino domestico o d’Italia (Pinus pinea), con la sua inconfondibile chioma ad ombrello o “parasole”. Albero e pigne simboleggiano antica nobiltà, benignità e perseveranza34.
Epigrafe
L’epigrafe, posta al di sopra e in asse al portale, è incisa su una lastra di pietra35 formata da due pezzi sovrapposti. Il pezzo di sopra, meno alto di quello inferiore, è largo 155 cm. e alto 57, mentre quello inferiore misura 155 cm. di base e 107 di altezza. In totale quindi la lapide misura, comprese le modanature presenti sui due lati verticali e su quello inferiore, cm. 155×164. Nella parte superiore la modanatura manca perché sormontata da una cornice aggettante, alta 16 cm., purtroppo monca di quasi tutta la metà sinistra.
Contenuta nella parte centrale della sommità dell’intera lapide vi è una corona in altorilievo (di dimensioni frontali, medie, pari a 37×20 cm. e sporgente 7 cm.), formata da una cresta con sette punte triangolari36, con i vertici che terminano in cerchietti di 2 cm. di diametro. Il corpo centrale della corona è caratterizzato da un rombo in rilievo, disteso orizzontalmente (con diagonale maggiore pari a 10 cm. e diagonale minore pari a 6 cm.), che va ad unirsi, grazie a due piccoli cerchi, a coppie di ovali posti ad entrambi i lati del rombo stesso.
Ora, prima di passare alla trascrizione dell’epigrafe, si danno alcune informazioni tecniche scaturite dall’apografo fatto dallo scrivente.
L’epigrafe è formata da 18 righe, di cui le prime quattro appartengono al pezzo superiore della lapide, mentre le altre 14 a quello inferiore. L’altezza delle lettere varia a seconda delle righe. L’altezza maggiore appartiene alla prima riga, che riporta il nome del re “Francesco I” ed è pari a 7 cm., poi la seconda, la terza, la quinta, la sesta, l’ottava, la nona, l’undicesima, la quindicesima e la sedicesima hanno le lettere alte 4 cm. circa. La quarta, la decima, la dodicesima, la tredicesima e la diciassettesima hanno le lettere alte 2,6 cm. Mentre la settima, la quattordicesima e la diciottesima hanno le lettere alte 5,8 cm. circa. Purtroppo l’epigrafe presenta numerose lacune dovute alle schegge delle bombe della Seconda Guerra Mondiale.
Domenico Caiazza, nel 1995, in una sua pubblicazione37 riporta l’epigrafe di San Cataldo integrando anche alcune delle lacune. Ora, premesso che quanto segue non cambia il senso dell’interpretazione dell’epigrafe, si vogliono qui fare alcune precisazioni scaturite dall’apografo.
Al Caiazza sono sfuggite alcune cose, ad esempio: all’ottava riga manca l’ultima parola, che una lacuna non ha permesso di vedere. Con l’apografo si è potuto ricostruire la parola “AVUS”, infatti si possono riconoscere la punta inferiore sinistra della lettera “A”, la punta superiore destra della “U” e la “S” finale. L’ultima parola della decima riga il Caiazza la riporta come “CONSTITUIT”, mentre è “CONSTITIT”, infine all’ultima parola della dodicesima riga viene proposta la parola RE[CED]ERET, integrando una lacuna con tre lettere “CED”, ma dall’apografo risulta evidente che non c’è lo spazio sufficiente per inserire tre lettere ma solo due, di cui la prima è certamente la “C”. L’ultima parola della sedicesima riga (terzultima) è proposta da Caiazza come “EVINCTUS”, ma lo spazio esistente con la parola precedente fa presupporre l’esistenza di un’altra lettera che lo scrivente ritiene sia la “R”, quindi si propone la parola “REVINCTUS” al posto di “EVINCTUS”.
L’epigrafe recita38:

FRANCESCO I
vtrivsqve siciliae regi
pio felici avgvsto p. p.
qvod venafrvm mense […] an. mdcccxxiv
adhvc jvventvtis princeps
venationis ergo petens
domvm hanc
vbi immortalis memoriae [avv]s
hoste ad velitras profligato rediens
mense aprili an. mdccxxxiv aliqvandiv constitit
dignam in qv[a]m et ipse div[er]teret
et se qviete ac mensa tantisper re[c…]eret
indicavit
joseph spallieri
tanta dignatione borbonidvm st[irp]i
in perpetvv[m r]evinctvs
grati obseqventisq[ve an]imi teste titvlvm
p. c. mdcccxxvi.

Traduzione:
“A Francesco I, re delle due Sicilie, Pio, Felice, Augusto, P. P. (Patres Patria) Poiché dirigendosi verso Venafro, quando era ancora principe dei giovani, nel mese di […]39 dell’anno 1824 per una battuta di caccia, additò questo luogo dove l’avo d’immortale memoria, ritornando nel mese di aprile del 1734, dopo aver sconfitto il nemico a Velletri, si fermò per un po’ di tempo per riprendere le forze col riposo e la tavola, Giuseppe Spallieri legato alla discendenza dei Borbone per l’eternità a ragione di tanta considerazione, pose questa iscrizione a testimonianza del proprio animo grato e ossequioso, nell’anno 1826”40. La lapide realizzata nel 1826, voluta da Giuseppe Spallieri, proprietario della Taverna, commemora il soggiorno ivi effettuato due anni prima, cioè nel 1824, da Francesco I di Borbone, quando era ancora principe41. Nell’epigrafe si ricorda ai viandanti e ai clienti come la Taverna, scelta già nel 1734 da Carlo III per riposarsi e rifocillarsi, al ritorno vittorioso della battaglia di Velletri, sia stata, dopo circa un secolo (quasi a dimostrare l’importanza e l’ospitalità del luogo), di nuovo eletta da un suo discendente: Francesco I, come degna per soggiornarvi, mentre andava a caccia a Venafro. Giuseppe Spallieri si dice quindi grato ed ossequiente nei confronti del casato dei Borboni42, perché essi hanno scelto la sua dimora per rifocillarsi e per sostarvi43. Da notare che il nome del re Carlo di Borbone, poi divenuto Carlo III, non compare, se non sottinteso, ciò probabilmente per l’accortezza di Spallieri che, pur tenendoci a ricordare la permanenza presso la Taverna di Carlo III, non voleva sminuire l’importanza di Francesco I, regnante nell’anno di realizzazione dell’epigrafe, cioè 1826.
Ipotesi di destinazione futura
Certo l’edificio, rientrante tra le strutture tutelate dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta, merita un’adeguata valorizzazione, anche se la sua posizione che in un primo tempo può apparire favorevole in realtà è penalizzante, perché posta come già detto in un punto nodale della viabilità. Potrebbe però risolversi il problema spostando l’accesso all’area in una zona lontana dal nodo stradale, e da qui riallacciarsi alla stradina esistente che si interpone tra la Taverna e la Via Casilina. La vicinanza di due ristoranti e di un albergo sconsiglia un ulteriore luogo di ristoro, mentre potrebbe suggerirsi una valorizzazione che ponga la struttura come “Punto di informazione turistica” con annesso antiquarium e piccola area museale, legati in particolare al periodo Risorgimentale e al Brigantaggio Post-unitario, e, magari, un centro ricerche e studi sulle tradizioni e sui prodotti tipici locali. Inoltre risulterebbe di notevole interesse lo scavo archeologico dei ruderi della chiesa di San Cataldo che andrebbe a questo punto a valorizzare un futuro Parco Archeologico incentrato sulla “Via Latina nel territorio dell’antica Ad Flexum”.

1 Dove corre il confine regionale che separa il Lazio dalla Campania.
2 La strada, realizzata alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, è a scorrimento veloce e pendenza costante e dopo circa tre km, grazie ad una galleria che perfora lo sbarramento montuoso proprio nel punto di collegamento tra Monte Sambúcaro con il Massiccio di Monte Cèsima, consente l’accesso rapido nel Molise.
3 L’edificio è ancor più penalizzato dal recente tratto ferroviario Venafro-Rocca d’Evandro che lo sovrasta passando a poche decine di metri più a sud.
4 Cfr. M. Zambardi, Il territorio di Ad Flexum e le mura in opera poligonale di Monte Sambucaro (tesi di laurea) Seconda Università di Napoli, 2006; M. Zambardi, Organizzazione del territorio in corrispondenza della mansio “Ad Flexum”, in “Casinum Oppidum”, Ercolano 2007, pp. 161-174; M. Zambardi, La Via Latina nel territorio di Ad Flexum, in “Spigolature Aquinati, Studi storico-archeologici su Aquino e il suo territorio”, Aquino 2007, pp. 121-132.
5 La Taverna è orientata lungo il viottolo che rimarca il tracciato romano.
6 Impedita in alcune parti dalla presenza di intonaco che non consente di vedere la tessitura muraria, utile al fine di ipotizzare l’epoca di costruzione.
7 Cfr. G. F. Carettoni, Casinum (presso Cassino), Roma 1940.
8 Cfr. Catalogo della mostra La Terra S. Benedicti nei disegni ad Acquarello di Marcello Guglielmelli (1715-1717), Montecassino 1994, pp.68-71.
9 Che appare colorato di azzurro dalle acque provenienti dalla Fonte Maria SS. Dell’Acqua.
10 G. Masia, San Pietro Infine e la sua Protrettrice Maria Ss.ma dell’Acqua, Cassino 1964.
11 L’antica Taverna si trovava in realtà in località Santa Maria del Piano, circa 700 m. più a est di San Cataldo. Per riferimenti in merito vedi nota 4.
12 Cfr. G. Masia, op. cit. p. 15. “[…] da una antica tradizione apprendiamo come si è detto che lo stesso San Pietro venne a Cassino per la via Latina ove avrebbe stabilito un Vescovato, e provenendo da Napoli qui probabilmente dovette fermarsi, proprio al posto che oggi si chiama “San Cataldo”, e che allora era conosciuto con la frase ad flexum, in fleo, in flia, in fiessum. In seguito alla tradizione di questo passaggio e sosta di San Pietro, gli abitanti, guidati dai figli di San Benedetto, eressero nuovamente una chiesa dedicata a San Pietro, proprio per celebrare e ricordare nei secoli questo evento”.
13 Registrum II Thomae abbatis, manoscritto conservato presso l’Archivio di Montecassino, (f. VIr).
14 Cfr. A. Pantoni, San Pietro Infine, ricerche storiche e artistiche (a cura di Faustino Avagliano), Montecassino 2006, p. 20.
15 Registrum abbatis Angeli episcopi de Posta et abbatis Andreae, manoscritto conservato presso l’Archivio di Montecassino, (ff. XXXIII e LXVIv).
16 Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 22.
17 Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 22.
18 Registrum II Petri de Tartaris, manoscritto conservato presso l’Archivio di Montecassino, (f. 117r).
19 Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 22.
20 San Pietro Infine, Cartella VII (Archivio di Montecassino). Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 53.
21 La Taverna, tra l’altro, nel 1734, aveva addirittura ospitato Carlo III di Borbone, come si avrà modo di vedere nel presente lavoro quando si tratterà della descrizione della lapide ivi esistente.
22 Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 109.
23 Archivio di Montecassino, Aula III, caps. XXI, n. 13; Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 110.
24 Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 58.
25 Archivio di Montecassino (Reg. XXXIV, Visit., f. 42r, 9 ottobre 1788).
26 Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 59.
27 Reg. XXXIV Visit. , f. 97v. Cfr. A. Pantoni, Op. cit., p. 63.
28 Notizie fornitemi da Giuseppe Di Florio e Antonio Zambardi.
29 Disposto parallelamente all’antico tracciato viario della Latina (ripreso ora da una stradina di campagna) che, lambendo le pendici meridionali di Monte Trocchio e Monte Porchio, puntava dritto al Valico delle Tre Torri, anche noto come passo dell’Annunziata Lunga.
30 Sono visibili anche le grezze sporgenze laterali utili per l’attacco con la muratura.
31 Non è escluso che l’arco nato a “tutto sesto” sia stato poi trasformato in “ribassato” eliminando i due conci di imposta per adattarlo ad un varco più stretto.
32 Il pennacchio finale della coda starebbe a significare che si tratta di leoni, ma, vista l’assenza della criniera, potremmo dire che sono leonesse.
33 Quella sinistra non è più esistente ma è facilmente ricostruibile per confronto simmetrico di quella destra.
34 Cfr. G. Santi Mazzini, Araldica, storia linguaggio, simboli e significati dei blasoni e delle armi, Milano, 2007, p. 351.
35 Breccia calcarea cementata.
36 I triangoli hanno sia la base che l’altezza pari a 7 cm.
37 D. Caiazza, Archeologia e storia antica del mandamento di Pietramelara e del Montemaggiore, Vol. II, Pietramelara 1995, p. 84.
38 Cfr. D. Caiazza, Op. cit.; M. Zambardi, San Pietro Infine. Monumento mondiale della pace, Penitro di Formia 1998, p.30.
39 Purtroppo una lacuna non consente di capire quale fosse il mese. Forse spulciando nell’Archivio di Stato di Napoli si potrebbe risalire alla data precisa del suo soggiorno a San Pietro Infine.
40 Si ringrazia Egidio Cappello per la traduzione.
41 Francesco I divenne re delle Due Sicilie nel 1825 e restò tale fino al 1830.
42 All’Archivio, di Stato di Napoli si conserva ancora una supplica scritta formulata dalle autorità sampietresi al re per intercedere nei loro confronti nella causa di confine tra i territori di Mignano e San Pietro Infine, essi ricordano al re il loro incontro avuto a San Pietro e la loro reverenza.
43 Lo scrittore Arnaldo Zambardi nel libro Il Vento nella schiena, Roma 1992, ambientato a San Pietro Infine nel periodo pre e postunitario, trae spunto per il suo romanzo proprio dall’epigrafe della taverna San Cataldo e del soggiorno del re Borbone.

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