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Studi Cassinati, anno 2008, n. 1
di Vito Mancini
“Egregio direttore, la lettura dell’articolo ‘Le brigantesse: drude o eroine’ pubblicato nel n. 3 di codesta rivista, mi ha riportato indietro nei miei ricordi di vecchie letture sul brigantaggio meridionale. Ne è venuto fuori un articoletto sulle drude dei briganti nostrani che credo farà piacere portare a conoscenza dei lettori della nostra rivista, se crede”.
Molto è stato detto e scritto sul brigantaggio che imperversò nell’Italia Meridionale nel quinquennio 1860-65. Il fenomeno è stato esaminato in tutti i vari aspetti. Esso ha origini molto lontane nel tempo, dovuto quasi sempre a momenti di crisi profonde dello stato e della società; si puó dire che esso ha avuto carattere endemico originato dal sistema feudale.
Manifestatosi sin dai tempi del dominio angioino e aragonese, latente negli anni, si diffuse dapprima nel 1799 (Frà Diavolo, Sciarpa, Mammone, Pronio), poi durante la Repubblica Romana, indi contro l’invasione napoleonica (Ciro Annichiarico, Fortunato Cantalupo il “Terrore del Gargano”, De Feo il “Flagello della Calabria”, Occhialone, Pennacchio) per accentuarsi dopo l’Unità, quando diventò guerriglia organizzata, alimentata dalla profonda delusione dei contadini poveri, delusi dalle attese di promessi cambiamenti sociali e strumentalizzati da elementi reazionari borbonici. Conscio che le sue fatiche non gli frutteranno alcun benessere, che il prodotto bagnato dai suoi sudori non sarà suo e credendosi condannato a perpetua miseria, il poveraccio coltiverà sempre nell’animo suo spontaneo l’istinto della ribellione e della vendetta. Questa rivolta, espressione di un malessere sociale, deliberatamente sfruttata a scopi politici e inasprita dalla comune delinquenza, infiammò all’epoca le nostre contrade.
La scintilla scoccò nella Basilicata, una delle regioni più aspre, selvose e accidentate della penisola, in cui scorazzavano impunemente, compatti e numerosi, nuclei di malandrini, ai quali fu facile nell’aprile del 1861 sollevare la plebe di Lagopesole e dei paesi circostanti, adducendo motivi demaniali e di restaurazione del tramontato regime borbonico.
Allettati dalla facilità con cui si era compiuta l’insurrezione, promessa di facili ricchezze, i rivoltosi vanno a Ripacandida, Ginestra, Venosa, Lavello, restaurano il caduto regime, aprono le carceri, distruggono gli archivi, rubano, ammazzano, incendiano le case di molti benestanti in fama di liberali. Così a Melfi furono accolti con feste e luminarie tra frenetiche acclamazione del popolino che li scambiò per soldati borbonici.
A questo moto risposero immediatamente le bande brigantesche che bivaccavano nelle Calabrie, nella Campania, negli Abruzzi e in Puglia. In quest’ultima regione nel luglio del “61 infuriò la reazione capitanata da numerose bande di saccheggiatori; fra le quali si distinse per ardimento e per fede al vecchio regime quella del sergente del disciolto esercito, Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle, che con la sua banda giurava di far rispettare i stendardi del nostro re Francesco II. Numerose le bande, agguerrite e formidabili, che dal Molise al Beneventano, dalla Capitanata alla Penisola Salentina e fino all’estrema Calabria, sventolando le bianche bandiere borboniche, infestavano il paese, bloccavano le vie, impaurivano e ricattavano i possidenti, impedivano il traffico, rendevano impossibile la vita e finanche il lavoro quotidiano dei campi.
All’originario nucleo di facinorosi e grassatori si aggiunsero i renitenti della leva ordinata dal governo di Torino nell’Italia Meridionale, fomentatori costoro per qualche tempo e riserva di briganti poi. Chi erano questi capibanda che amavano circondarsi di ignobile plebaglia, cui non facevano difetto le donne, vuoi per amore, vuoi per costretta remissività? Non manca, infatti, nell’intera esperienza brigantesca il risvolto rosa: l’amore, l’odio, la passione. Vediamone qualcuna insieme al suo drudo.
Abbiamo accennato a Pasquale Domenico Romano, l’ex sergente borbonico, che infestò molta parte della Puglia fino al giorno della sua disfatta (5 gennaio 1863). Il nostro Romano, che assunse il nome di battaglia Errico la Morte, religioso a modo suo tant’è che scriveva pietose giaculatorie e, accingendosi a battaglia, invocava la protezione di santa madre Chiesa, godette delle grazie di Rosa Martinelli, formosa contadina salentina ventenne, acquistata per suo conto da un suo seguace per cento piastre. Spesso la donna fu la pietra dello scandalo in lotte intestine fra banditi gelosi, invidiosi e assatanati.
Giuseppe Nicola Summa di Avigliano, altrimenti detto Ninco Nano che si firmava “il colonnello”. Nato il 19 agosto 1833, era un misero bracciante agricolo, già omicida ed evaso dalle carceri, il quale ebbe la sfacciataggine di offrirsi a Garibaldi che, sdegnato, lo scacciò in malo modo. Nessun brigante fu tanto sanguinario e vile quanto lui. Aveva dimora nel bosco di Lagopesole ed, essendo affetto da sfrenata libidine, oltre a compiacersi delle grazie di sua moglie Caterina Ferrara fu Angelo, detta Scazzetta, di anni 31, aveva amanti Filomena Nardozza, alias Di Pecora, di anni 20, la quale indossava abiti maschili e girava armata di fucile (fu condannata in seguito a dieci anni di reclusione: si dice che bevesse il vino nel teschio di un bersagliere), Marianna Carpi, Maria Lucia Nella e la crudelissima Marianna Corfù, che nella vicenda della morte del suo drudo si lasciò affumicare piuttosto che arrendersi. Con la morte di Ninco Nanco (27 gennaio 1863) si disse spento il brigantaggio nel Potentino.
Carmine Crocco, soprannominato Donatello, era un capraio di Rionero in Vulture. Fu il più prestigioso dei briganti, anch’egli ardito e sagace fece parte dell’esercito borbonico. Condannato per omicidio all’ergastolo, evase e con Caruso si fece brigante, ambedue sognando di ristabilire il governo di Francesco II e diventare marchesi e generali come i loro predecessori del 1799. Crocco ostentava sul petto due decorazioni e si faceva chiamare “generale”. La sua banda fu la più numerosa e agguerrita, tant’è che a lui fu indirizzato il legittimista spagnolo Borjes perché ne assumesse il comando. Fedele compagna del Crocco fu tale Giovanna Tito, avvenente e prosperosa, che non disdegnava partecipare alle scorribande armata di schioppo e pugnale.
Francescantonio Summa, fratello minore di Ninco Nanco. Aveva compagna fedelissima Lucia Pagano, diciottenne. Trecce nere e pantaloni maschili Lucia montava a cavallo armata di rivoltella; divenne brigantessa impavida prendendo parte a molti combattimenti. Arresasi ai militi della Guardia Nazionale, fu condannata a dieci anni di reclusione, cinque dei quali scontati nell’Isola del Giglio. Francescantonio non si accingeva a sfidare la morte (morì l’11 marzo 1864) senza avere al fianco la sua Lucia.
Vincenzo Tortora di S. Fele capeggiava una banda operante nel territorio di Ripacandida. Aveva con sé un’amante a nome Emanuela, giovane sui vent’anni che lo seguiva a cavallo, vestita da uomo. Fu uccisa dal brigante Coppa che abusò di lei. Costui fu ucciso a sua volta dal Tortora per vendetta.
Coppolone, che spadroneggiava con Serravalle nel circondario di Matera, era coadiuvato dalla sua donna, tale Arcangela Cutugno, non più giovanetta, ma abile nel cavalcare e tirare di schioppo.
Alla cattura di Schiavone, alias Orecchiomuzzo, uno degli sgherri di Crocco, contribuì una delle sue favorite a nome Rosa Giuliani, la quale per gelosia e per precedenti rancori lo denunziò al delegato di Candida. Schiavone e Coppolone furono i meno sitibondi di sangue. Infine Michele Caruso di Atella, altrettanto sanguinario come Ninco Nanco, operava nel comprensorio che andava dal Fortore al beneventano e fino al circondario di Vasto nel Molise. Era stato alle dipendenze del principe di Sanseverino come pastore. Si dette alla macchia in seguito ad un omicidio. Aveva rifugio nella Selva delle Grotte e disponeva di un’infermeria largamente provvista, così come nel rifugio di Crocco abbondavano vivande, vini e provviste varie. Fedele compagna del Caruso fu Filomena Pennacchio che indossava abiti maschili. Eroina a modo suo, con lo schioppo e il pugnale al fianco Filomena non disdegnava di calzare un cappellino sulle ventitré. Moltissime le bande, moltissimi i capi, numerosissime le donne che con essi si accompagnarono, certamente non tutte per amore e dedizione, la gran parte di esse per ruberie e saccheggi. Qui abbiamo accennato ad alcune di esse, quelle che hanno lasciato qualche traccia di sé nelle relazioni e nei racconti.
Risponde Fernando Riccardi
La ‘guerra cafona’ e la questione meridionale
Il brigantaggio post-unitario, fenomeno molto complesso determinato da un coacervo inestricabile di cause sociali, economiche, ambientali, politiche, ideologiche e culturali, non puó essere ridotto, sic et simpliciter, all’esplosione incontrollata e inarrestabile dei più bassi istinti delinquenziali. Non tutti i briganti furono assassini, ladri e grassatori. Qualcuno, anzi, più di qualcuno, in quel drammatico decennio che seguì l’unificazione della Penisola, decise di ribellarsi per un motivo ben più nobile: difendere la terra ma, soprattutto, la dignità oppressa e calpestata dagli invasori provenienti dal nord. Certo, non tutti furono eroi, così come non tutti furono briganti.
Non mancò chi, profittando della situazione di grande confusione e di incertezza, badò solo ai suoi interessi, spesso torbidi, senza provare pulsioni ideologiche o palpiti patriottici.
Ridurre, però, quel nutrito stuolo di legittimisti che giunsero da ogni parte d’Europa per sostenere la lotta contadina che infuriava nel sud d’Italia alla stregua “di ignobile plebaglia”, di loschi figuri da inviare al capestro, come spesso fu fatto, non sarebbe giusto né storicamente corretto. La ricostruzione di Vito Mancini, figlia legittima di quella storiografia imperante che per tanto, troppo tempo, l’ha fatta da padrona, mi è sembrata eccessivamente convenzionale. E se ciò vale, a mio avviso, per i cosiddetti briganti, ancora di più lo è per le ‘brigantesse’, un mondo assolutamente inesplorato e in gran parte sconosciuto. Non furono tutte ‘drude’, tutte volgari prostitute, quelle che si unirono alle bande per dispensare le loro grazie ai rivoltosi.
Non tutte furono femmine da bordello degne della più feroce esecrazione e da additare al pubblico ludibrio. Molte furono costrette a salire la montagna per non morire di fame e di stenti, per sfuggire alla disperazione, per allontanarsi da quel paese dove il giudizio della gente era più tagliente della lama di un coltello e dove insopportabili e oltraggiose erano le angherie dei piemontesi e dei loro aficionados locali. A quel tempo non era facile la vita per mogli, madri, sorelle o amanti dei briganti. Per loro non c’era scelta: o ci si dava alla macchia o si collaborava, in tutti i sensi, talamo compreso, con gli sbirri venuti da lassù a dettar legge.
Non esisteva via d’uscita. E se molte si piegarono, in tante decisero di resistere impugnando lo schioppo e il pugnale. Bisognerebbe, poi, distinguere le donne dei briganti, quelle che per amore vollero stare vicine al loro uomo, dalle brigantesse vere e proprie che abbracciarono la causa spinte da motivazioni ideologiche e politiche. Forse non furono tante. Di certo si confusero in quella massa indistinta di donne, di madri e di mogli. Ciò malgrado sarebbe ingeneroso fare di tutta l’erba un fascio. Così come fuorviante è imputare quel fuoco inarrestabile che infiammò il meridione d’Italia dal 1860 al 1870 unicamente alla voglia di rivalsa dello straccione, del poveraccio che da sempre coltivava “nell’animo suo spontaneo l’istinto della ribellione e della vendetta”.
Se fosse stato veramente così, quella rivolta sanguinosa ed estenuante non sarebbe durata tanto a lungo né il governo sabaudo avrebbe impiegato nella repressione le sue migliori energie. Sarebbe stata spazzata via al primo impercettibile soffio di vento.
E invece così non fu perché alla base della ‘guerra cafona’ vi erano motivazioni ben più profonde. Quelle stesse che, ancora oggi, impongono di parlare della ‘questione meridionale’.
Argomento antico, datato, ma, ahimé, drammaticamente irrisolto.
Fernando Riccardi
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