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Studi Cassinati, anno 2007, n. 4
di Giovanni Petrucci
Da appena una settimana era stata liberata Cassino, quando la famiglia di Lucia Marino – il marito Giovanni Di Mambro, si trovava negli Stati Uniti d’America dal 1938 –, tornò da Casalvieri, dove era stata sfollata durante le battaglie combattute nel Cassinate. Viveva nella sua casa di campagna, la terza scendendo dal curvone, in via Strettelle, dietro alla Chiesa di S. Sebastiano in Sant’Elia Fiumerapido, cercando di recuperare le masserizie che erano state sparse dai soldati per ogni dove.
Erano giorni duri da vivere: mancava il pane e la credenza era vuota; né c’erano i negozi. Lucia ricorreva a tutti i mezzi per dare da mangiare ai suoi tre bambini: Antonio di dodici anni, Orazio di sette e Giuseppe di sei. In genere girava intorno alla casa, ma non trovava nulla, in quanto il sole aveva bruciato ogni stelo e le cannonate avevano tranciato gli alberi, anche quelli da frutta; scendeva solo al fiume per cogliere dell’erba commestibile e lessarla. Non poteva allontanarsi per non lasciare soli i ragazzi, per tema dei pericoli che si annidavano dappertutto. I proiettili erano ammucchiati in ogni dove e non si stava tranquilli.
Faceva caldo il 25 giugno 1944, un caldo tremendo che toglieva il respiro. I tre ragazzetti, col permesso di mamma Lucia, scesero giù alla Fontana non tanto per bere, quanto per godere della frescura della corrente che si originava proprio alle cannelle. Si trattennero per parecchio tempo a giocare e a spruzzarsi l’acqua addosso. Poi, per evitare che la mamma potesse preoccuparsi, tornarono allegri a casa. Si fecero vedere e poi sostarono a giocare con le pietruzze che lanciavano verso l’alto con il pollice puntato all’indice.
Improvvisamente una vampata alta come la casa li avvolse alle spalle: aveva preso fuoco il mucchio di polvere a spaghetti bruni e lucenti che era poco distante. Non hanno mai saputo trovare una spiegazione dell’accaduto: chi supponeva che la calura dell’estate avesse causato una sorta di autocombustione, chi riteneva che un giovanotto che in quel momento passava per il viottolo avesse buttato inavvertitamente un mozzicone nella siepe. Rimasero tutti e tre ustionati in modo grave, specialmente nella parte posteriore del corpo, in quanto volgevano le spalle alla fatale catasta.
Venne immediatamente la signorina donna Pia Iucci, che restò turbata a vedere un simile spettacolo: dovette bere un bicchiere d’acqua per riprendersi e ritrovare la sua calma abituale; si rasserenò e, sforzandosi di non sentire le grida dei tre ragazzi che schiantavano il cuore, si mise all’opera. Li fece stendere sul letto e con estrema delicatezza e con le mani leggere come piuma medicò le ferite, ricorrendo all’olio di oliva e a foglie di limone ben lavate, asciugate e stirate per renderle morbide. “Sarebbero state più adatte – ella diceva – le foglie di fave”, ma alla fine di giugno non si trovavano.
Orazio era costretto a stare con la testa in giù: soffriva maledettamente, piangeva e si lamentava più di tutti di notte e di giorno; si aggravò e il 30 morì.
Antonio e Giuseppe, curati sempre con l’olio e le foglie di limone, guarirono. Qualche mese dopo, chiamati dal padre, poterono ricongiungersi con lui negli Stati Uniti.
Ho rivisto la settimana scorsa Antonio, uno dei miei amici d’infanzia, e sono rimasto colpito dalla serenità e dal distacco con cui rievoca quella triste sventura; ha il collo, le gambe, le spalle segnati da gravi ferite; la pelle è tutta raggrinzita e forma come dei nodi nella parti centrali: è impressionante vedere!
Il fratello, egli dice, è in condizioni peggiori; ha subito fino a qualche anno fa degli interventi di plastica; ma la pelle rimane sempre assai delicata e facilmente si puó lacerare.
E dire che, sebbene abbiano inoltrato domande, non hanno mai ottenuto una lira dallo Stato Italiano.
E mamma Lucia se ne lamentava sempre: morì con il nome di Orazio sulle labbra!
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