Il Capitano Guido Petracca Lo ricordano una lapide e una croce di pietra

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Studi Cassinati, anno 2008, n. 1

di  Maurizio Zambardi

Una croce di pietra si erge da una lapide che, seminascosta da ginestre e fiori di montagna, osserva solitaria la silente valle di San Pietro Infine e i verdi monti che le fanno corona. Posta a pochi metri dall’entrata di una cava di breccia, su uno spuntone di roccia ai bordi di una vecchia strada, oggi percorsa solo da poche persone del posto, è stata ricomposta qualche anno fa con del filo di ferro dalle mani caritatevoli di un giovane sampietrese che l’aveva trovata spezzata.
Una croce, quindi, unica testimonianza di un tragico evento che recise la vita di un uomo e cambiò per sempre quella dei suoi cari. Incisa nella pietra la scritta: “Capitano Guido Petracca”, con due date distanziate tra loro da 38 anni: “N. 10-12-1909 – M. 16-5-1947”.
Per anni la lapide ha dato nome al luogo “Alla croce del Capitano”, poi, la prepotente cava ha preso il sopravvento e, oltre a divorare gran parte del lato orientale della montagna, ne ha fagocitato il toponimo. Oggi i giovani di San Pietro Infine non conoscono quel segnacolo tombale e nulla sanno di quel tragico evento. Solo tra i più anziani ne è rimasto ancora vivo il ricordo, se pure sbiadito dagli anni. E noi quel ricordo vogliamo tramandarlo, affinché non scompaia nell’oblio del tempo l’immagine di quell’uomo che ancor prima di essere capitano era un padre affettuoso e un bravo marito1.
Non era la prima volta che accadevano fatti di sangue lungo Via Annunziata Lunga, una strada allora ghiaiosa che, diramandosi dalla Casilina nella piana di San Pietro Infine, risaliva serpeggiando la costa sud-orientale di Monte Sambúcaro, fino a raggiungere il passo delle Tre Torri, per poi ridiscendere nella Piana di Venafro e inoltrarsi nel Molise2. Altri episodi avevano segnato quel tratto di strada, divenuto tristemente noto a coloro che erano costretti ad attraversarlo. Nell’immediato dopoguerra due donne ed un uomo erano stati uccisi a scopo di rapina e buttati in una cisterna da una banda di malfattori del cassinate3. Inoltre continui assalti erano stati compiuti alle rare automobili che vi transitavano ed anche alla corriera4 che da Campobasso portava a Roma, costringendo i carabinieri a presidiare spesso la strada. La maggior parte delle imboscate erano attribuite al famigerato bandito Agostino Martone5 di Cèsima e alla sua banda; ma quella volta lui non c’entrava.
C’entrava invece un ex militare il cui vero nome non è noto – e forse non lo è mai stato – ai sampietresi, ma tutti lo chiamavano semplicemente il “Polacco”, perché era un disertore dell’Esercito Polacco. Aveva un carattere chiuso e un fisico tipicamente nordico: era alto e robusto, di carnagione chiara con capelli biondi e occhi celesti. Finita la guerra era rimasto in paese, anche perché si era invaghito di Benedetta, una ventenne di San Pietro. La giovane donna non era molto alta ma era graziosa ed aveva un corpo ben proporzionato. Aveva due bambine, la prima si chiamava Annamaria, la seconda Rita, figlie di due padri diversi e forse uno di questi era proprio il “Polacco”. Il giovane soldato non se la passava molto bene, aveva problemi ad integrarsi con la gente del posto a causa della poca conoscenza della lingua, inoltre in paese si trovava poco o niente da mangiare6. A volte cercava di guadagnarsi qualcosa facendo il meccanico per il maresciallo dei carabinieri di Mignano.
Quel giorno, il 16 maggio del 1947, il “Polacco” era andato a Ceppagna passando per il valico delle Tre Torri per barattare un mitra, trovato in montagna, con roba da mangiare o, al limite, con farina o grano. Aveva preso contatti precedentemente con un signore del posto, ma, quando di buon’ora si presentò all’appuntamento, il tizio non volle più fare lo scambio. Il “Polacco” chiese ad altre persone incontrate per strada sperando che a qualcuno interessasse l’arma, si sarebbe accontentato di qualsiasi cosa commestibile, ma nessuno la volle. Allora decise di fare ritorno al paese. Giunto nei pressi dell’attuale cava, intravide in lontananza una jeep con delle persone a bordo che ridiscendeva il valico. Erano circa le otto di mattina e, a parte loro, nessuno transitava lungo la strada, il “Polacco” decise, approfittando del mitra, di derubare i viandanti. Velocemente realizzò uno sbarramento con una serie di grossi massi disposti trasversalmente sulla strada, proprio nel punto dove questa si stringeva, e si nascose dietro un cespuglio in attesa di mettere a segno il colpo.
Alla guida della jeep vi era il Capitano Guido Petracca, nativo del paesino molisano di Duronia, e al suo fianco un’anziana signora, nel sedile posteriore il nipote della donna. Il Capitano faceva parte della sezione sminatori dell’Esercito Italiano, era Ispettore dei Campi Minati del Cassinate, e stava facendo ritorno a Roma dopo essere stato per qualche giorno con la sua famiglia a Castelpetroso. Era tornato in occasione del trigesimo della morte di uno zio della moglie. L’anziana donna che era al suo fianco veniva chiamata “Donna Rosa” e aveva circa 70 anni, aveva approfittato della cortesia del Capitano per accompagnare a Roma il nipote diciottenne Fulvio D’Amico che studiava Ingegneria.
Decisero di partire alle sei di mattina, per trovarsi a Roma prima di pranzo. Il capitano si era sposato con Ines De Liberato, una farmacista di Castelpetroso, ma la donna non aveva mai esercitato la professione. I due giovani sposi avevano coronato la loro unione con la nascita di due graziosi bambini Orazio ed Erminia, affettuosamente chiamata Minella, e avevano in programma di andare a vivere stabilmente a Roma7, dove Guido lavorava, così da poter stare sempre insieme. Ma il fato non volle. Quel giorno di primavera a Castelpetroso pioveva, sembrava che il cielo presagisse il cattivo evento. Guido salutò la moglie Ines, il figlio Orazio, di 10 anni, e la figlia Minella, di 8, e si dettero appuntamento al prossimo suo rientro a casa, che non avvenne mai.
Appena dopo una curva, il Capitano si vide la strada sbarrata dai grossi massi e dall’uomo con il mitra spianato. L’uomo, con un forte accento straniero, intimò di non muoversi. Guido Petracca non poté far altro che fermare la jeep.
Il “Polacco” era molto agitato e quando il Capitano tirò il freno a mano, interpretò male il gesto e allora sparò una raffica, ma dal mitra partì solo un colpo perché l’arma si inceppò. Allora il “Polacco” cercò di innescare una bomba a mano che portava in una tasca della giacca, ma non riuscí a togliere la sicura, benché avesse provato anche con i denti. Ancora non si era accorto che l’unico proiettile partito dal mitra inceppato era stato deviato dalla forcella del parabrezza della jeep, e si era conficcato proprio nel fianco del Capitano, spappolandogli la milza. L’uomo fece solo in tempo a scendere dalla jeep, cercò di prendere la pistola dal fodero ma cadde a terra privo di vita. L’anziana donna gridò impaurita e lanciò la sua borsa sull’assalitore, che però si dileguò tra gli arbusti.
Il giovane studente cercò di soccorrere il Capitano ma non poté fare niente.
Non c’era nessuno in zona, le automobili passavano raramente in quel periodo, bisognava cercare aiuto nel più vicino paese che era quello di San Pietro Infine. Il giovane non sapeva guidare la jeep, però, consigliato dalla nonna, dopo aver rimosso alcuni dei massi di sbarramento, lentamente si avventurò a motore spento tra le curve e i tornanti della strada.
Raggiunto il paese, ebbero subito indicazioni su dove si trovasse la casa del medico e una piccola folla di persone, tra cui molti bambini, si radunò attorno alla jeep. Il medico Anselmo Barone8 non poté fare altro che constatare la morte dell’uomo. Alcune ragazze del paese9, rimaste già impressionate dal corpo esanime dell’uomo, non riuscirono a trattenere il pianto quando appresero, dal racconto dell’anziana donna, che il Capitano lasciava una moglie e due bambini in tenera età. Poi, ripresesi prepararono una piccola corona di edera e l’adagiarono al fianco del Capitano10.
Dal racconto dei due testimoni si risalí facilmente all’assalitore e la notte stessa dell’agguato fu organizzata dal Comando Militare una perlustrazione a tappeto della zona che portò all’arresto del “Polacco”. Dopo pochi giorni fu fatto il processo e l’omicida fu condannato a 25 anni di carcere.
Qualche anno dopo, la sua compagna Benedetta si ammalò di una grave malattia. La trovarono morta in un lago di sangue, provocato dalla malattia, nella sua casa di via Libertà. Le sue due figlie furono portate in un orfanotrofio.
Dopo circa 20 anni il “Polacco” fu graziato. Le autorità avevano chiesto il permesso ai familiari del Capitano, e dopo un primo rifiuto, la moglie Ines dette il suo consenso.
Dopo la grazia il “Polacco”, ormai di una certa età, tornò al paese, e qualcuno racconta che fu visto far visita alla lapide del Capitano, poi nulla più si seppe di lui.
Il corpo del Capitano Petracca fu sepolto nella cappella di famiglia, in località “Camere”, a Castelpetroso. “Quando la moglie Ines morì – ci ha raccontato il nipote Domenico11 – avvenne una cosa strana: fu aperto il loculo e il corpo del capitano fu trovato intatto. Sembrò quasi che il Capitano avesse atteso tutto quel tempo la moglie Ines per stare al suo fianco almeno nell’altra vita.

1 Ringrazio Erminia (Minella) Petracca Isotti, figlia del Capitano, e suo figlio Massimo, per le notizie fornitemi e per la foto del padre; ringrazio inoltre Domenico Petracca, nipote del Capitano, e Giovanni Germano, entrambi di Duronia, ed anche gli anziani di San Pietro Infine, in primis mio padre Antonio e le signore Anna e Linella Barone.
2 Alla fine degli anni ’50 venne realizzata una variante alla strada (chiamata appunto “Variante Annunziata Lunga” o anche Strada Statale n. 6 bis) che, grazie ad un tunnel lungo circa un chilometro, consente un rapido collegamento della Casilina (anche nota come S. S. n. 6) con la Piana di Venafro.
3 Cfr. M. Zambardi, “L’eccidio delle Tre Torri. Un tragico fatto di sangue a scopo di rapina”, in “Studi Cassinati”, CDSC, Anno V, n.1 (gennaio-marzo 2005), pp. 55-61.
4 La cui sigla era INT (Istituto Nazionale Trasporti)
5 Cfr. T. Atella, “Il Bandito – Storia di Agostino Martone, bandito di Monte Césima (Sesto Campano), dal 1947 al 1950”, Venafro 2008.
6 Bombardata prima dagli Alleati e poi dai tedeschi in ritirata, San Pietro Infine fu praticamente rasa al suolo. Dopo la guerra il nuovo centro stava rinascendo lentamente più a valle. Cfr. M. Zambardi, “Memorie di guerra – Il calvario dei civili di San Pietro Infine durante il secondo conflitto mondiale”, CDSC, Edizioni Eva, Venafro, 2003.
7 Cosa, comunque, che Ines e i figli fecero l’autunno dello stesso anno della morte del Capitano.
8 Il medico Anselmo Barone abitava in una delle palazzine, ora abbattute, dove attualmente sono i giardinetti di Piazza Mauro Pagano. A quell’epoca non vi erano i muri che delimitavano Via degli Eroi con la piazzetta, vi era solo un terrapieno e dei muri a secco. Di fronte vi era la “cantina di Peppe Amato”.
9 Tra cui Anna e la cugina Linella Barone.
10 Alcuni giorni dopo, i parenti del Capitano tornarono al paese e tra le varie pratiche che dovettero assolvere cercarono le ragazze per ringraziarle del gesto.
11 Domenico Petracca aveva all’epoca 13 anni e apprese la notizia della morte dello zio il giorno dopo perché era in collegio a Campobasso. Il padre Sebastiano, fratello di Guido, faceva il medico condotto a Duronia.
12 La ricostruzione di quel tragico evento è stata effettuata solo in base ai racconti orali di parenti e persone del paese.

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